lunedì 26 luglio 2010

Nella "battaglia di Serbia" il futuro di Marchionne Ffwebmagazine 26 luglio

L'Analisi


La posta in gioco è alta e l'Italia non può stare a guardare
Nella "battaglia di Serbia"
il futuro di Marchionne
di Giuseppe Pennisi Agli economisti non si addice emettere sentenze o formulare giudizi. Il loro compito è quello di analizzare temi e problemi da cui altri (politici, opinione pubblica) possano trarre elementi per le loro valutazioni.
Qualche mese fa ci chiedevamo se la Fiat fosse ancora italiana, nonostante sia stata l’azienda che maggior supporto ha avuto dai contribuenti della nazione non solamente tramite aiuti diretti e indiretti ma principalmente grazie a una politica dei trasporti che ha favorito la gomma (l’autostrada) al binario (la ferrovia). La domanda veniva formulata nei giorni in cui l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, poneva tutta la sua attenzione e tutte le sue energie in una strategia volta ad acquistare rami d’azienda in Germania, dopo averne ottenuti negli Stati Uniti, e faceva intendere che avrebbe abbandonato gli impianti di Termini Imerese a un destino né lieto né glorioso.

Oggi, si può dare una risposta chiara: la Fiat si considera una multinazionale il cui cervello è sempre più a Detroit e sempre meno in quella Torino che pure è nel suo nome e nella sua ragione sociale. L’italo-canadese Sergio Marchionne è sempre più simile a Salim il protagonista di A Bend in the River, del Premio Nobel Naipaul Salim, mussulmano indiano cresciuto in una grande città dell’Africa centrale, non ha né patria né comunità di interessi (che non sia il suo negozio). Il libro è notissimo per la sua frase iniziale: «The world is what it is; men who are nothing, who allow themselves to become nothing, have no place in it». (Il mondo è quello che è; coloro che sono nulla o che permettono di essere considerati nulla, non vi hanno posto).

Al pari di Salim. Marchionne è scaramantico: il suo golfino nero è un porta fortuna e si sentirà a disagio se il 28 luglio dovrà abbandonarlo per mettere giacca e cravatta. Sa, infatti, che “la battaglia di Serbia” è, per lui, come fu “la campagna di Russia” per Napoleone. Se la perde, è sconfitto su tutti gli altri fronti. Al pari di Napoleone, la lancia dopo la vittoria a Pomigliano (la sua Austerlitz), nella consapevolezza che è in gioco la sua credibilità come collezionista di vittorie.

Nella “battaglia di Serbia” ha contro di sé un armata trasversale: in Italia, da destra e da sinistra si sono levate voci contro un progetto che penalizzerebbe pesantemente l’occupazione non solamente in Piemonte e frenerebbe il progresso tecnologico. Da Bruxelles non si vede di buon occhio il potenziale utilizzo di fondi Bei (quindi, aiuti di Stato) per facilitare la delocalizzazione da uno Stato membro dell’Ue ad uno che aspira a esserlo. Gli stessi azionisti di riferimento (la famiglia Agnelli) devono in queste ore nutrire forti perplessità.
Ci sono vari modi per migliorare produttività e competitività degli impianti italiani, senza necessariamente giungere a costi del lavoro per unità di prodotto pari a quelli della Serbia. Occorre chiedersi se questi modi sono stati studiati e analizzati; è necessario un dibattito pubblico pacato e trasparente, recependo, se del caso, suggerimenti e consigli che non appartengono alla ristrettissima schiera dei collaboratori del “canadese”.

Per Marchionne la posta è alta; se perde, finisce un mito costruito abilmente dai media nel giro di pochi anni. E potrebbe ritrovarsi a Toronto alla ricerca di nuove attività. La posta è alta sopratutto per la nazione Italia che ha il dovere, prima ancora del diritto, di chiedere le carte per valutare quali alternative sono state esaminate e con quali esiti.

26 luglio 2010

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