Giuseppe Pennisi
Una politica economica che frena i consumi, specialmente quelli dei ceti meno abbienti (a più alta propensione di spesa per consumi correnti), prima o poi rallenta anche la crescita sino a bloccarla del tutto. Nei Paesi Ocse i consumi aggregati (ovvero sia del settore pubblico sia di quello privato) superano mediamente l’85% del Pil , i consumi delle famiglie si situano tra il 35 ed il 40% del Pil. In breve, sono le voci più importanti- quindi, il loro andamento plasma quello del resto dell’economia. I consumi sono pure la voce che, in numerosi casi, ha il più alto moltiplicatore; se mangiamo al ristorante contribuiamo, in una prima tornata, al reddito (ed ai consumi) del cameriere, del cuoco, del gestore, dei fornitori, in una seconda a quella dei fornitori di questi ultimi , e così via. Nelle statistiche internazionali i consumi pro-capite sono l’indicatore più eloquente di tenore di vita tra Paesi ed all’interno tra Paesi; di converso in gran parte dell’Ocse, la misura più semplice, e più comune, della soglia di povertà (al di sotto della quale scattano sussidi di varia natura) è un livello di consumi per una famiglia di due persone inferiore alla metà del consumo medio pro-capite del Paese. Nel più antico manuale di analisi costi benefici- firmato da Pastha Dasgupta, Amartya Sen e Stephen Marglin – il “numerario” , ossia il metro per misurare spese che hanno valenze differenti, sono i consumi di coloro che sono ad un livello in cui non pagano tasse e non ricevono sussidi (oppure pagano tasse equivalenti ai sussidi che ricevono).
Naturalmente, è importante differenziare tra società che finanziano i propri consumi con i ricavi correnti della propria produzione di beni e servizi e quelle che le finanziano a debito: da lustri, uno dei nodi dell’economia internazionale è lo squilibrio degli Usa dal tasso di risparmio rasoterra e consumi correnti finanziati a debito ed il resto del mondo (i Paesi asiatici iper-risparmiatori in primo luogo).
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