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Roma, 6 lug (Il Velino) - A cavallo tra l’ultimo lustro del XX secolo e il primo del XXI, “Don Giovanni” di Lorenzo Da Ponte e Wolfgang A. Mozart ha soppiantato “Carmen” di Georges Bizet in quanto opera più rappresentata al mondo. Le classifiche non tengono conto delle due rappresentazioni quotidiane offerte a Praga (dove la “prima” si è tenuta il 29 ottobre 1787) in un teatro di marionette con la musica registrata. Con “Don Giovanni” è appena iniziato il Festival di Aix en Provence che dal primo al 21 luglio offre 33 rappresentazioni liriche (cinque opere di cui una prima mondiale) e un ricco programma di concerti. Una caratteristica del Festival è di offrire co-produzioni che le prossime stagioni si vedranno sui maggiori palcoscenici mondiali. Il “Don Giovanni” inaugurale andrà in autunno a Toronto, circolerà per vari teatri europei ed entrerà in repertorio al Bolshoi. L’allestimento scenico è opera di un’équipe di russi, giovani ma già affermatissimi: Dmitri Tcherniakov, Elena Zaitseva, Alexei Parin, la direzione musicale è di Louis Langrée (che ha di recente concertato l’opera alla Scala) alla guida della Freiburger Barockorchester (che utilizza strumenti musicale d’epoca, ossia di fine Settecento). Un cast internazionale di livello è capeggiato da Bo Skovhus (il Don) e include Kyle Ketelsen (Leporello), David Bizic (Masetto), Colin Balzer (Don Ottavio), Martis Petersen (Donna Anna), Kristine Opolais (Donna Elvira), Kerstin Avemo (Zerlina), e Anatoli Kotscherga (il Commendatore).
Nonostante abbia circa 225 anni sulle spalle, “Don Giovanni” rispecchia meglio di altri lavori la tensione tra “zeloti” (ancorati al passato e alle sue regole sia scritte sia implicite) ed “erodiani” (rivolti, invece, verso la modernizzazione). Altro punto è l’ineluttabilità che, in una fase di transizione (quasi da “die verwandlung” della tradizione tedesca), ci sia un agente economico disponibile a fare il “falco” sino alle estreme conseguenze, ossia farsi uccidere, per facilitare l’affermarsi delle nuove regole. Il Don e il Commendatore, i “falchi”, devono giungere alla doppia morte (e alla caduta negli inferi) per fare avanzare la modernizzazione frenata dalle “colombe” (di cui Don Ottavio sarebbe lo stereotipo). Tuttavia, mentre i “falchi” e le “colombe” differiscono in materia di tempi e modi per affrontare il cambiamento, nell’ipotesi proposta in questo articolo gli “zeloti” il cambiamento non lo vogliono affatto e gli “erodiani” sono pronti a recepire “habits and rules” altrui pur di favorire il cambiamento. “Don Giovanni” ha specificità musicali che lo rendono molto più pregnante del libretto (immaginarsi cosa ne avrebbero fatto un Piccini, un Paisiello o un Salieri!). In primo luogo, sin dalla ouverture si avverte che siamo di fronte a qualcosa che è ben diverso da un’“opera buffa” o da un “dramma giocoso”. Dalle prime misure si avverte il fuoco dell’inferno in fa (che, tre ore più tardi, concluderà l’opera); il quadro è cosmico. In secondo luogo, il trattamento musicale del protagonista non ne fa né una caricatura del libertino quale tracciata da Tirso de Molina e José Zorrilla, né un proto-illuminista molieriano. La note di Mozart, avvolgono Don Giovanni in quel clima luciferino che si ritroverà, ad esempio, alcuni lustri più tardi nell’“opera nazionale” tedesca per sottolineare il carattere demoniaco di Kaspar de “ Der Freischütz” oppure, un secolo più tardi, della Nutrice di “Die Frau ohne schatten”. E’ luciferino lo stesso brindisi alla libertà del “finale primo”, giustapposto, simmetricamente, alla scena, pure essa luciferina, con il Commendatore nel “finale secondo”. Luciferianamente, né il Don né il Commendatore hanno una “cavatina” (aria di ingresso nelle convenzioni operistiche dell’epoca) o “cabalette” e “legati”.
Proprio questo aspetto luciferino fa sì che l’interazione “economica” tra il Don ed il Commendatore non sia assimilabile a quello di due giocatori di pari livello (soprattutto sotto il profilo delle informazioni) in un “dilemma del prigioniero”. E’, invece, analoga a quello del primo rispetto al secondo giocatore in un “gioco ad ultimatum”; viene, perciò, caratterizzata da dissonanze e da anticipazioni cromatiche. Don Giovanni vuole tornare all’inferno da dove è arrivato, come dettoci dalle prime note dell’ouverture. Il Commendatore è uno strumento per compiere questa marcia, più efficace dei tentativi di seduzione (tutti “in bianco”, come esplicitato dai “diminuendi” che chiudono ciascuno di loro). Pure il Commendatore appartiene, come il Don, al mondo musicale della futura opera nazionale tedesca (si pensi a “Die Vampyr” di Manscher) con ottave che tendono verso bassi mai sperimentati prima di allora. Anch’egli è segnato dal destino sin dal “do” con cui appare in scena - costretto al “gioco ad ultimatum” fin dall’inizio dell’opera. Inoltre, il “gioco ad ultimatum” viene ripetuto - con inversione dei ruoli (il Commendatore in quello del primo giocatore ed il Don quello del secondo) - nella sequenza finale dell’opera. La “teoria dei giochi” aiuta a comprendere il contesto istituzionale-musicale in cui operano Don Giovanni ed il Commendatore: un contesto proteso verso quella che sarebbe diventata l’opera tedesca sino ai suoi sviluppi nel XX secolo. E’ la tensione verso il nuovo degli “erodiani” che sovente soccombono proprio per eccesso di modernizzazione.
E’ un contesto molto differente da quello in cui vivono gli altri personaggi dell’opera: il mondo musicale dell’opera “all’italiana” fatto di cavatine, arie, cabalette, duetti, terzetti e concertati. Regole ben definite che assicurano certezze - informazioni simmetriche e costi di transazione relativamente bassi e in cui il pay-off, pur se limitato, conviene a tutti, da “utilitarismo delle regole” un po’ casareccio e pacioccone. Si guardi, in particolare, a Don Ottavio, un baritenorino lirico, caricatura dei tenori (Mozart come più tardi Strauss non li ha mai amati) di “Idomeneo”, di “Così” e dello stesso “Die Entführung”. Musicalmente, i due mondi, i due “sets” di “habits and rules”, restano paralleli, distinti e distanti: si incontrano solo nel lungo finale primo. Non c’è evoluzione, con l’”olocausto” di uno dei “falchi”, per schiudere una società di “colombe”. Con grande raffinatezza, sono due mondi in “re”: re minore quello luciferino, ma modernizzatore, del Don e del Commendatore; re maggiore quello perbenista di Don Ottavio e del resto della brigata (Leporello, Donna Anna, Donna Elvira, Masetto, Zerlina e compagnia cantante). D’altronde, Mozart non avverte il verwandlung socio-politico (quindi, economico) in atto negli anni in cui componeva “Don Giovanni”. Gliene viene offerta l’occasione almeno in due libretti – “Le nozze di Figaro” e “La clemenza di Tito”, ma si rifiuta di coglierla; tramuta il primo in una commedia umana e il secondo in inno alla “quality of mercy”.
Cosa c’è di questo impianto nel lavoro che ha debuttato, non senza contrasti a Aix? Tanto la drammaturgia di Tcherniakov e soci, quanto la direzione musicale di Langrée quanto, infine, la bravura sia nella vocalità sia nell’azione scenica dei sette protagonisti, recepiscono a pieno questa lettura “political economy” e “musicale”. Ma va anche oltre. Quello del “Don” diventa un dramma di famiglia in cui tutti e sette protagonisti sono imparentati tra loro (tranne Leporello). In un ambiente unico (un grande salone biblioteca di borghesia agiata, tale da trasformarsi agevolmente in sala da pranzo) e su cui danno quattro camere, avviene un vero e proprio “gioco al massacro”. L’ambiente unico e il “gioco al massacro” in un ambiente familiare sono un topos della drammaturgia russa (si pensi a Chekov). Ma nella lettura di Tcherniakov è intriso con Tennesee Williams, Luchino Visconti, Bernardo Bertolucci e anche Pier Paolo Pasolini. Bo Skovhus – è noto –è da anni uno dei baritoni più belli sulla scena internazionale. E’ truccato e vestito come Marlon Brando in “L’ultimo tango a Parigi”; è dominato dal sesso e dall’alcool più che essere un dominatore di chi lo circonda; dalla prima scena va verso l’inevitabile sconfitta. Anatoli Kotsherga (un ricco borghese perbenista) è il suo vero antagonista. E le donne? Sono assatanate di sesso più di quanto non lo sia il “Don”: Donna Anna, dopo essere uscita semi-nuda da un amplesso con il protagonista, quasi violenta Don Ottavio al fine di risvegliargli l’eros. La festa di Masetto e Zerlina è un orgetta per gioventù bene nella grande famiglia del Commendatore. In questa famiglia, infine, sono tutti disperatamente soli. Il “gioco ad ultimatum” tra il Don e il Commendatore si svolge in solitudine. E così quelli degli altri. A questa drammaturgia, senza dubbio innovativa (e che potrebbe richiedere alcuni ritocchi nella seconda parte), corrispondono cantanti attori abilissimi e un’orchestra che estrae i suoni dell’alienazione e dell’inferno da strumenti settecenteschi. In breve: uno spettacolo “da festival”, che può risultare sgradevole al pubblico più tradizionalista, ma che vale la pena comunque vedere e che fa meditare.
(Hans Sachs) 6 lug 2010 14:39
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