ACHTUNG EUROPA!L’EXPORT DI BERLINO CELA UN “MAL TEDESCO”
Giuseppe Pennisi
E’ il “Club Med” (Grecia, Italia, Portogallo, Spagna), con la sua propensione all’inflazione ed alla spesa pubblica, la mina vagante della moneta unica? Lo sono i “Pigs” (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna) le cui difficoltà strutturali e le cui abilità a taroccato i conti sono stati messi a nudo dalla crisi finanziaria?
Si sta facendo strada una nuova ipotesi: i danni di lungo periodo della moneta unica (quali che siano i suoi alti e bassi di breve periodo) sarebbero collegati ad un secolare “mal tedesco” – la tendenza dell’Impero guglielmino, del Reich hitleriano, e della Repubblica Federale (quale che ne siano la maggioranza e il Cancelliere) di crescere al traino delle esportazioni. In un mercato mondiale in cui il costo del lavoro per unità di prodotto (Clup) è una determinante importante della quota che ciascuno riesce ad accaparrare, ciò comporta un deprezzamento mascherato strisciante della propria moneta. In un’unione monetaria, le monete che si deprezzano portano guai a tutti.
Secondo la più recente tornata di dati dei 20 maggiori istituti econometrici , la Germania ha un tasso di crescita (il 2% l’anno) pari al doppio della media dell’area dell’euro, un saggio d’aumento della produzione industriale che in maggio è stato del 12,4% (rispetto a 12 mesi prima), un saldo attivo della bilancia dei pagamenti di pari a 5% del Pil, circa 200 miliardi eurodi export l’anno. Ciò non vuole dire, però, che l’export del “made in Germany” traini il resto d’Europa: la molla sottostante le esportazioni tedesche è il contenimento dei salari – e, quindi, dei consumi e degli investimenti . Quindi, gli effetti indiretti di crescita dei successi dell’export tedesco sul resto dell’Eurozona sono modesti.
In termini reali i salari tedeschi non sono aumentati dal 1990. In una prima fase, a ciò ha contribuito l’assorbimento di tre milioni di lavoratori dei Länder orientali da riqualificare perché raggiungessero livelli d’efficienza analoghi a quelli dei Länder occidentale. In una seconda fase, la strategia di contenimento dei salari può essere letta come un ritorno al “mal tedesco” di ricerca di “uno spazio vitale” all’estero , in via commerciale, comprimendo la domanda interna. Ciò comporta una progressiva erosione del Clup; dato che il Clup ha forti nessi con il valore internazionale della moneta, ciò vuol dire un graduale deprezzamento dell’euro “made in Germany” (e dei Paesi più strettamente collegati a Berlino, quali l’Austria ed il Benelux) rispetto all’euro “made” nel “Club Med” e nei “Pigs”. Alla lunga ciò comporta tensioni che possono diventare lacerazioni. Il divario tra l’andamento del Clup in Germania (e nei suoi satelliti) è documento nelle statistiche Eurostat ed Ocse. Da qualche settimana economisti della statura di Martin Feldstein (che aveva profetizzato tempi duri per l’euro nel 1997 su “Foreign Affairs) sottolineano che il perdurare di questa tendenza metterà in crisi, prima o poi, l’area. A fine luglio, un grido d’allarme è venuto anche da un lavoro interno della Banca centrale spagnola.
Cosa suggerire? In primo luogo, l’Eurogruppo dovrebbe cominciare a dare maggiore attenzione al “mal tedesco”. In secondo luogo, il Consiglio della Banca centrale europea (Bce) che è spesso intervenuto sulle politiche strutturali (e salariali), dovrebbe mettere il tema al centro della propria agenda. Pure sulla base di analisi puntuali del servizio studi Bce. In breve, un po’ di “moral suasion”. Senza una politica economica dell’Eurozona non si può fare di più.
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