Analisi da economista sulle ricadute di una crisi politica
Il rischio
della mediocrazia
di Giuseppe Pennisi In queste ore si decide sulla tenuta o meno della coalizione a cui gli elettori hanno conferito il mandato di governare per l’attuale legislatura. Non è certo compito di un semplice economista entrare nel merito, né su eventuali ragioni delle tensioni né su possibili esiti. La disciplina economica, però, fornisce una serie di indicazioni su quale potrebbe essere il costo economico di una crisi politica.Nel breve periodo, lo si può ricavare utilizzando la strumentazione economica del “consensus”, i 20 maggiori istituti di analisi econometrica (tutti privati nessuno italiano) che proprio il 30 luglio pubblicano le loro previsioni per il 2010 -2011. Sulla base di parametri basate sulle esperienze degli ultimi 30 anni una crisi politica che abbia come eventuale sbocco elezioni anticipate comporterebbe un rallentamento di un terzo di punto percentuale del Pil a ragione di spese non direttamente produttive (quelle connesse al ciclo elettorale) e, quel che più conta, aumento dell’incertezza per gli operatori economici. In breve si passerebbe da una graduale ripresa (che potrebbe rafforzarsi nel 2012-2013) a stagnazione e, nell’ipotesi più nefasta (segnalata da tre istituti econometrici) a una nuova recessione. Sarebbe difficile recuperare il costo di questo rallentamento, specialmente nelle sue implicazioni occupazionaliNel medio periodo, alcune importanti riforme (federalismo fiscale, università, giustizia) resterebbero in mezzo al guado. In molti casi si tratterebbe di ritardi piuttosto che di accantonamenti: potrebbe essere riprese dopo la soluzione dell’eventuale crisi. Ma il loro contenuto dipenderebbe da un nuovo patto con gli elettori. Da parte della coalizione che risultasse vincitrice.Nel più lungo periodo si affermerebbe la mediocrazia, ossia sarebbe principalmente i mediocri ad essere attirati dalla politica, e le conseguenze non potrebbero essere che negative. È questo il risultato delle analisi che conducono da anni due italiani, Andrea Mattozzi e Antonio Merlo, che lavorano rispettivamente al Californian Institute of Technology e alla University of Pennsylvania. Le hanno riassunte in un paper (che si può ottenere inviando una mail a merloa@eco.upenn.edu). La mediocrazia prevarrebbe per gli effetti dell’eventuale fine della legislatura per motivi che gli elettori non comprendono. Un antidoto possibile: andare verso un nuovo sistema elettorale maggioritario con rapporti stretti e diretti tra elettori e candidati.Arduo quantizzare i costi nel medio e lungo periodo anche solamente per ordine di grandezze come fatto per quelli di breve periodo. Potrebbero essere verosimilmente molto alti. L’economista è un tecnico. E quindi la sua analisi si ferma qui.
30 luglio 2010
venerdì 30 luglio 2010
mercoledì 28 luglio 2010
IL MANAGER VUOLE IL SINDACATO ALL’AMERICANA Avvenirer 29 luglio
IL MANAGER VUOLE IL SINDACATO ALL’AMERICANA
Giuseppe Pennisi
E’ importante comprendere il sottostante delle varie trattative che su numerosi tavoli si stanno svolgendo in questi giorni tra “nuova” Fiat Auto (chiamiamola “Fabbrica Italia” , secondo la prassi del gergo giornalistico), da un lato, e le confederazioni sindacali, la Federmeccanica e la stessa Confindustria, dall’altro. Un gioco su più tavoli – ci insegna John Nash (vi ricordate il film “A Beautiful Mind”?) tende ad avere equilibri instabili, specialmente se su ciascun tavolo gli obiettivi dei giocatori sono differenti da quelli che hanno negli altri tavoli. Come nella vicenda che si sta dipanando. Ciò vuol dire che il risultato definitivo non sarà immediato e che, per delinearlo, è essenziale conoscere cosa si propongono i maggiori attori.
Iniziamo dal principale- l’Amministratore Delegato della “Fabbrica Italia”, Sergio Marchionne- e dal tema più incandescente- le relazioni industriali. Le deroghe al contratto nazionale di lavoro ai metalmeccanici vogliono dire molto di più di quanto non appaia a prima vista. Non sono ritocchi da effettuarsi poco a poco (sono necessari, comunque, due anni per ristrutturare gli impianti di Pomigliano). Sono il grimaldello per andare verso un sistema di relazioni industriali molto differente da quello tipico dell’Europa occidentale e molto più simile a quello in atto in Nord America. In Europa Occidentale, i sindacati “di comparto” (ad es., chimica, meltameccanica, edilizia) sono parte di confederazioni nazionali che inseriscono, a volte con differenze di ottiche, gli interessi legittimi di singole categorie in quelli più vasti di tutti i lavoratori. Due film di successo mostrano in modo vivido la differenza: “Gran Torino” di Clean Eastwood del 2009 e “I Compagni” di Mario Monicelli del lontano 1963 (ancora spesso in TV). Nel primo, l’operaio si identifica con l’azienda e con i suoi prodotti di maggior prestigio (nel caso specifico la Gran Torino Ford del 1972) e con il sindacato di comparto (l’United Auto Workers, Uaw), il quale punta essenzialmente al benessere ed allo sviluppo dei propri iscritti. Nel secondo, il protagonista scende in campo in uno dei primi scioperi della Torino del Novecento guardando non solo alla sua fabbrica e del suo comparto ma all’insieme del ceto operaio.
Per Marchionne, le relazioni industriali più efficaci sono quelle in cui grande industria e grande sindacati si risolvono tra loro i loro problemi in quanto il bene del resto del Paese ne sarebbe un sicuro effetto esterno positivo. In questo contesto, è anche utile che il sindacato sia forte; l’Uaw americana – è noto – ha tali risorse da essere stata il principale singolo finanziatore della campagna elettorale di Barack Obama. E’ una concezione differente, ove non antitetica, rispetto a quella in cui le relazioni industriali ed il sindacalismo si sono sviluppati in Europa. E’ da vedersi se e come “il modello americano” del canadese può essere trapiantato nel Vecchio Continente. Si può innescarlo in quello esistente, dando maggior spazio alla contrattazione decentrata sotto il profilo normativo non solo economico-salariale. Poco si è fatto in materia dall’”accordo di San Tommaso” del luglio 1993. Un impulso sarebbe utile. Un ribaltamento di concezioni radicate porterebbe ad un “muro contro muro”.
Giuseppe Pennisi
E’ importante comprendere il sottostante delle varie trattative che su numerosi tavoli si stanno svolgendo in questi giorni tra “nuova” Fiat Auto (chiamiamola “Fabbrica Italia” , secondo la prassi del gergo giornalistico), da un lato, e le confederazioni sindacali, la Federmeccanica e la stessa Confindustria, dall’altro. Un gioco su più tavoli – ci insegna John Nash (vi ricordate il film “A Beautiful Mind”?) tende ad avere equilibri instabili, specialmente se su ciascun tavolo gli obiettivi dei giocatori sono differenti da quelli che hanno negli altri tavoli. Come nella vicenda che si sta dipanando. Ciò vuol dire che il risultato definitivo non sarà immediato e che, per delinearlo, è essenziale conoscere cosa si propongono i maggiori attori.
Iniziamo dal principale- l’Amministratore Delegato della “Fabbrica Italia”, Sergio Marchionne- e dal tema più incandescente- le relazioni industriali. Le deroghe al contratto nazionale di lavoro ai metalmeccanici vogliono dire molto di più di quanto non appaia a prima vista. Non sono ritocchi da effettuarsi poco a poco (sono necessari, comunque, due anni per ristrutturare gli impianti di Pomigliano). Sono il grimaldello per andare verso un sistema di relazioni industriali molto differente da quello tipico dell’Europa occidentale e molto più simile a quello in atto in Nord America. In Europa Occidentale, i sindacati “di comparto” (ad es., chimica, meltameccanica, edilizia) sono parte di confederazioni nazionali che inseriscono, a volte con differenze di ottiche, gli interessi legittimi di singole categorie in quelli più vasti di tutti i lavoratori. Due film di successo mostrano in modo vivido la differenza: “Gran Torino” di Clean Eastwood del 2009 e “I Compagni” di Mario Monicelli del lontano 1963 (ancora spesso in TV). Nel primo, l’operaio si identifica con l’azienda e con i suoi prodotti di maggior prestigio (nel caso specifico la Gran Torino Ford del 1972) e con il sindacato di comparto (l’United Auto Workers, Uaw), il quale punta essenzialmente al benessere ed allo sviluppo dei propri iscritti. Nel secondo, il protagonista scende in campo in uno dei primi scioperi della Torino del Novecento guardando non solo alla sua fabbrica e del suo comparto ma all’insieme del ceto operaio.
Per Marchionne, le relazioni industriali più efficaci sono quelle in cui grande industria e grande sindacati si risolvono tra loro i loro problemi in quanto il bene del resto del Paese ne sarebbe un sicuro effetto esterno positivo. In questo contesto, è anche utile che il sindacato sia forte; l’Uaw americana – è noto – ha tali risorse da essere stata il principale singolo finanziatore della campagna elettorale di Barack Obama. E’ una concezione differente, ove non antitetica, rispetto a quella in cui le relazioni industriali ed il sindacalismo si sono sviluppati in Europa. E’ da vedersi se e come “il modello americano” del canadese può essere trapiantato nel Vecchio Continente. Si può innescarlo in quello esistente, dando maggior spazio alla contrattazione decentrata sotto il profilo normativo non solo economico-salariale. Poco si è fatto in materia dall’”accordo di San Tommaso” del luglio 1993. Un impulso sarebbe utile. Un ribaltamento di concezioni radicate porterebbe ad un “muro contro muro”.
DISSENTO DA FORTE: PER SVECCIARE L’UNIVERSITA’ GUARDIAMO A TIMBOCTU’ Il Foglio 29 luglio
DISSENTO DA FORTE: PER SVECCIARE L’UNIVERSITA’ GUARDIAMO A TIMBOCTU’
Giuseppe Pennisi
Sono in parziale dissenso con la proposta dell’amico Prof. Francesco Forte sull’età di pensionamento per i professori universitari, pur ammettendo che Forte appartiene alla rara pattuglia dei professori che non ha mai fatto parte della P60.000 (la lobby dei professori tesa a guardare ai loro interessi più che a quelli degli studenti e della ricerca; in Italia, è numericamente la più numerosa al mondo dopo quelle della Cina, della Russia e degli Stati Uniti, Paesi, però, che hanno, rispetto all’Italia, ben altre popolazioni totali e studentesche). Riconosco anche i meriti della procedura indicata da Forte con la quale si raggiungerebbero gli obiettivi di svecchiare il corpo docente senza creare una generazione di fortunati (dato che si aprirebbero migliaia di cattedre da un giorno all’altro) seguita da generazioni di sfigati (dato che il vuoto temporaneo verrebbe colmato nell’arco di 12-18 mesi). Nelle università statali (finanziate dai contribuenti) dovremmo allineare l’età di pensionamento dei Prof a quella prevalente nel resto dell’Ue e, auspicabilmente, abolire il valore legale dei titoli di studio. Il mercato funzionerebbe: i Prof davvero bravi verrebbero chiamati a contratto da atenei privati od internazionali. Gli altri non avrebbero più il ruolo che consente loro di controllare i fondi di ricerca(i giovani li sanno utilizzare molto meglio) e di ridurre alcune università a mini-parentopoli, assicurando posti per mogli, figli, generi , nuore anche nani e ballerine. Con danni per gli studenti ed il sistema Italia.
Nel dibattito attuale non ho visto alcun riferimento all’unico caso di università a carattere internazionale e puramente di mercato (in cui i docenti venivano pagati secondo “quotazioni” nel mercato degli studenti e delle loro famiglie): l’ateneo (per così dire) di Sankoré, localizzato a Timboctou . Ne visitai alcune rovine nel maggio 1969 durante un viaggio in jeep con amico in Africa occidentale. Solo di recente mi sono reso conto della sua importanza e dei suoi ingredienti di successo leggendo il volume del giornalista-esploratore Félix Dubois Tombouctou la mystérieuse edito nel lontano 1897 ma ripubblicato pochi mesi dall’editore Grandvaux (e scaricabile da Internet). In breve, nel XV secolo , l’università di Sankoré aveva 25.000 studenti che arrivavano a Timboctou (dove il Sahara bacia il Sahel) dall’Egitto, dal Marocco, dall’Impero del Mali (che allora di estendeva sino all’attuale Costa d’Avorio) ma anche dell’europea Andalusia. Viaggi lunghi su cammello e mulo. Per imparare cosa? Santoré non era organizzata in facoltà o dipartimenti ma in quelli che potremo chiamare “ambiti disciplinari”: matematica, grammatica, poesia, astronomia (etichetta per indicare un po’ tutte le scienze). Non esistevano né un Rettore, né Presidi, né Senati accademici, né Consigli di facoltà. I Prof più bravi erano chiaramente riconosciuti, rispettati ed avevamo leadership sugli altri. I docenti erano remunerati direttamente dagli studenti (e dalle loro famiglie) in base a valutazioni di mercato: quanto più il professore era reputato bravo , attento ai propri allievi, capace dell’indirizzarli nella loro vita futura tanto più veniva pagato. Venivano prodotte dispense (i copisti venivano compensati in grammi d’oro secondo il volume e la difficoltà del lavoro). Tali dispense diventavano il viatico per accedere alle più alte funzioni amministrative e religiose . C’erano tre lingue franche: l’arabo orientale , il sudanese e l’ajami (trascrizione in arabo orientale di lingue africane). Esisterebbero ancora un milioni di manoscritti sparsi tra Mali, Mauritania e Niger (specialmente negli archivi delle moschee). La stima è del Prof. Mahamoud Zouber, che dirige il Centro Ahmed Baba di Timboctou , un istituto supportato dall’Unesco.
L’Università di Sankoré è molto lontana, nel tempo e nello spazio. Ma qualche ideuzza ce la può dare ancora. Che ne pensano Forte e Giavazzi? E, soprattutto, il Ministro?
Giuseppe Pennisi
Giuseppe Pennisi
Sono in parziale dissenso con la proposta dell’amico Prof. Francesco Forte sull’età di pensionamento per i professori universitari, pur ammettendo che Forte appartiene alla rara pattuglia dei professori che non ha mai fatto parte della P60.000 (la lobby dei professori tesa a guardare ai loro interessi più che a quelli degli studenti e della ricerca; in Italia, è numericamente la più numerosa al mondo dopo quelle della Cina, della Russia e degli Stati Uniti, Paesi, però, che hanno, rispetto all’Italia, ben altre popolazioni totali e studentesche). Riconosco anche i meriti della procedura indicata da Forte con la quale si raggiungerebbero gli obiettivi di svecchiare il corpo docente senza creare una generazione di fortunati (dato che si aprirebbero migliaia di cattedre da un giorno all’altro) seguita da generazioni di sfigati (dato che il vuoto temporaneo verrebbe colmato nell’arco di 12-18 mesi). Nelle università statali (finanziate dai contribuenti) dovremmo allineare l’età di pensionamento dei Prof a quella prevalente nel resto dell’Ue e, auspicabilmente, abolire il valore legale dei titoli di studio. Il mercato funzionerebbe: i Prof davvero bravi verrebbero chiamati a contratto da atenei privati od internazionali. Gli altri non avrebbero più il ruolo che consente loro di controllare i fondi di ricerca(i giovani li sanno utilizzare molto meglio) e di ridurre alcune università a mini-parentopoli, assicurando posti per mogli, figli, generi , nuore anche nani e ballerine. Con danni per gli studenti ed il sistema Italia.
Nel dibattito attuale non ho visto alcun riferimento all’unico caso di università a carattere internazionale e puramente di mercato (in cui i docenti venivano pagati secondo “quotazioni” nel mercato degli studenti e delle loro famiglie): l’ateneo (per così dire) di Sankoré, localizzato a Timboctou . Ne visitai alcune rovine nel maggio 1969 durante un viaggio in jeep con amico in Africa occidentale. Solo di recente mi sono reso conto della sua importanza e dei suoi ingredienti di successo leggendo il volume del giornalista-esploratore Félix Dubois Tombouctou la mystérieuse edito nel lontano 1897 ma ripubblicato pochi mesi dall’editore Grandvaux (e scaricabile da Internet). In breve, nel XV secolo , l’università di Sankoré aveva 25.000 studenti che arrivavano a Timboctou (dove il Sahara bacia il Sahel) dall’Egitto, dal Marocco, dall’Impero del Mali (che allora di estendeva sino all’attuale Costa d’Avorio) ma anche dell’europea Andalusia. Viaggi lunghi su cammello e mulo. Per imparare cosa? Santoré non era organizzata in facoltà o dipartimenti ma in quelli che potremo chiamare “ambiti disciplinari”: matematica, grammatica, poesia, astronomia (etichetta per indicare un po’ tutte le scienze). Non esistevano né un Rettore, né Presidi, né Senati accademici, né Consigli di facoltà. I Prof più bravi erano chiaramente riconosciuti, rispettati ed avevamo leadership sugli altri. I docenti erano remunerati direttamente dagli studenti (e dalle loro famiglie) in base a valutazioni di mercato: quanto più il professore era reputato bravo , attento ai propri allievi, capace dell’indirizzarli nella loro vita futura tanto più veniva pagato. Venivano prodotte dispense (i copisti venivano compensati in grammi d’oro secondo il volume e la difficoltà del lavoro). Tali dispense diventavano il viatico per accedere alle più alte funzioni amministrative e religiose . C’erano tre lingue franche: l’arabo orientale , il sudanese e l’ajami (trascrizione in arabo orientale di lingue africane). Esisterebbero ancora un milioni di manoscritti sparsi tra Mali, Mauritania e Niger (specialmente negli archivi delle moschee). La stima è del Prof. Mahamoud Zouber, che dirige il Centro Ahmed Baba di Timboctou , un istituto supportato dall’Unesco.
L’Università di Sankoré è molto lontana, nel tempo e nello spazio. Ma qualche ideuzza ce la può dare ancora. Che ne pensano Forte e Giavazzi? E, soprattutto, il Ministro?
Giuseppe Pennisi
Liberalizzare per combattere sommerso ed evasione Il Velino 28 agosto
ECO - Liberalizzare per combattere sommerso ed evasione
Roma, 28 lug (Il Velino) - All’inizio di ogni estate, la pubblicazione di dati del Dipartimento dell’Entrate su economia sommersa ed evasione tributaria, suscita inevitabilmente istinti giacobini; inasprire i controlli e dare severe punizioni, dove averli messi alla gogna, a chi si sommerge ed evade. Due analisi recenti (una della Banca Mondiale e una del berlinese DWI, il maggior istituto di ricerca tedesco) giungono a conclusioni differenti da quelle convenzionali non tanto sulla diagnosi quanto sulla terapia. Sono ambedue ancora inedite; quindi, le offriamo come primizie ai nostri lettori. La prima è stata curata da Friederich Scheider, Andreas Buhen e Claudio Montenegro. La seconda da Urlich Thiessen. Tutti specialisti di rango, distinti e distanti dalle nostre questioni di bottega.
La prima conferma che siamo tra i Paesi Ocse uno ai più alti livelli di sommerso (tra legale – ossia non catturato dalle statistiche- che illegale- ossia connesso alla criminalità)-. Al 27,6% del Pil, ci superano, nella famiglia dei Paesi ad alto reddito, nell’ordine, Corea del Sud, Messico e Grecia. All’origine del fenomeno non ci sono solo aspetti sociologico-istituzionali, ma anche una struttura economica basata su piccole e medie imprese (dove è più facile immergerci). Siamo distantissimi da Svizzera, Usa e Austria od anche Singapore (dove il sommerso sfiora il 10% del Pil). L’analisi della Banca Mondiale riguarda 162 Paesi. A differenza di analisi del passato, conclude che le determinanti (driving forces - ,le motrici) del sommerso sono l’elevata imposizione tributaria (diretta ed indiretta), coniugata con legislazione lavoristica che induce a nascondersi e con la qualità (scarsa) dei servizi pubblici, nonché lo stato dell’”economia ufficiale”.
Differente lo studio di Thiessen: riguarda unicamente i Paesi Ocse ma sviscera 450 variabili, giungendo a conclusione analoghe a quelle della Banca Mondiale sulle cause (sottolinea, però, che l’onere amministrativo è l’incentivo maggiore a sommergersi). Indica anche una terapia: una strategia internazionale coordinata per ridurre il carico tributario ed amministrativo, incentivi a lavorare ed ad investire. L’analisi utilizza simulazioni quantitative per determinare come e quanto una strategia di liberalizzazione e semplificazione induca ad emergere.
(Giuseppe Pennisi) 28 lug 2010 12:42
Roma, 28 lug (Il Velino) - All’inizio di ogni estate, la pubblicazione di dati del Dipartimento dell’Entrate su economia sommersa ed evasione tributaria, suscita inevitabilmente istinti giacobini; inasprire i controlli e dare severe punizioni, dove averli messi alla gogna, a chi si sommerge ed evade. Due analisi recenti (una della Banca Mondiale e una del berlinese DWI, il maggior istituto di ricerca tedesco) giungono a conclusioni differenti da quelle convenzionali non tanto sulla diagnosi quanto sulla terapia. Sono ambedue ancora inedite; quindi, le offriamo come primizie ai nostri lettori. La prima è stata curata da Friederich Scheider, Andreas Buhen e Claudio Montenegro. La seconda da Urlich Thiessen. Tutti specialisti di rango, distinti e distanti dalle nostre questioni di bottega.
La prima conferma che siamo tra i Paesi Ocse uno ai più alti livelli di sommerso (tra legale – ossia non catturato dalle statistiche- che illegale- ossia connesso alla criminalità)-. Al 27,6% del Pil, ci superano, nella famiglia dei Paesi ad alto reddito, nell’ordine, Corea del Sud, Messico e Grecia. All’origine del fenomeno non ci sono solo aspetti sociologico-istituzionali, ma anche una struttura economica basata su piccole e medie imprese (dove è più facile immergerci). Siamo distantissimi da Svizzera, Usa e Austria od anche Singapore (dove il sommerso sfiora il 10% del Pil). L’analisi della Banca Mondiale riguarda 162 Paesi. A differenza di analisi del passato, conclude che le determinanti (driving forces - ,le motrici) del sommerso sono l’elevata imposizione tributaria (diretta ed indiretta), coniugata con legislazione lavoristica che induce a nascondersi e con la qualità (scarsa) dei servizi pubblici, nonché lo stato dell’”economia ufficiale”.
Differente lo studio di Thiessen: riguarda unicamente i Paesi Ocse ma sviscera 450 variabili, giungendo a conclusione analoghe a quelle della Banca Mondiale sulle cause (sottolinea, però, che l’onere amministrativo è l’incentivo maggiore a sommergersi). Indica anche una terapia: una strategia internazionale coordinata per ridurre il carico tributario ed amministrativo, incentivi a lavorare ed ad investire. L’analisi utilizza simulazioni quantitative per determinare come e quanto una strategia di liberalizzazione e semplificazione induca ad emergere.
(Giuseppe Pennisi) 28 lug 2010 12:42
un “Rigoletto” da gustare alle Terme di Caracalla da Il Velino 28 luglio
Opera, un “Rigoletto” da gustare alle Terme di Caracalla
Roma, 28 lug (Il Velino) - In questa stagione estiva di festival (in Italia se ne contano una quarantina), c’è il rischio che passino inosservati quelli più a portata di mano, quasi sottocasa. Sarebbe un errore considerare tra le manifestazioni minori quella in corso alle Terme di Caracalla di Roma, tradizionale stagione estiva del Teatro dell’Opera della Capitale con titoli di richiamo per il grande pubblico. Dopo l’“Aida” presentata due anni fa e che ha trionfato in Estremo Oriente, è in scena sino all’8 agosto “Rigoletto”, opera assente dal grande palcoscenico di Caracalla da 15 anni. E’ un nuovo allestimento che vede sul podio dell’orchestra e del coro Donato Renzetti e Andrea Giorgi; la regia è di Lamberto Puggelli, le scene e i costumi di Maurizio Varamo. Nella “trilogia popolare” di Verdi, “Rigoletto” supera i “numeri chiusi” con declamati, ariosi e concertati (il terzo atto non è divisibile in “numeri”); ha un flusso orchestrale continuo al cangiare delle atmosfere (il secondo quadro del primo atto); e, soprattutto, ha personaggi con psicologie scavate a fondo. Rigoletto è il grande reietto, sfigurato nel corpo, con un’anima sincera e una seconda vita nascosta. Costretto a fare il compagno di bagordi del Duca di Mantova, si accorge che costui gli ha sedotto la figlia, Gilda. Assolda un killer per ucciderlo. Ma il pugnale trafigge la fanciulla. Dramma, quindi, cupo.
L’impianto di Puggelli è suggestivo e grandioso: illustra con un abile gioco di luci non solo i luoghi dell’azione, ma pure gli stati d’animo. “Tutti si travestono, si mascherano, sono altro da sé – spiega il regista -. Il Duca despota libertino e prepotente, ma anche lo studente povero; Rigoletto il buffone laido e il padre amoroso; Gilda si traveste da uomo e si fa uccidere per amore e il suo sentimento, nascosto al padre, la conduce al finale tragico, dove gioca l’ultimo equivoco”. La grande opera di Verdi è messa in scena come una tragedia degli equivoci, essenziale nel suo dolore, sfruttando al massimo la meravigliosa cornice archeologica che circonda il palcoscenico. “A Caracalla – aggiunge ancora Puggelli- in questo rudere intriso di antichità e storia, s’ innalza il dolore di un padre, evocato dalla musica, a cui assistono indifferenti e immobili maschere bianche, in un tempo fuori dal tempo. Poi improvvisamente, siamo fra i magnifici arazzi dei Gonzaga, siamo a una festa cinquecentesca opulenta e carnale, esattamente come volevano Verdi e il librettista Piave”. Renzetti ha una bacchetta precisa e puntuale. Nel ruolo di Rigoletto si alternano Vladimir Stoyanov e Stefano Antonucci; in quello del Duca di Mantova, Celso Albelo, Valter Borin e Jean-Francois Borras; nei panni di Gilda, Jessica Pratt ed Ekaterina Sadovnikova. Due cast, in breve, d’ottimo livello.
(Hans Sachs) 28 lug 2010 13:51
Roma, 28 lug (Il Velino) - In questa stagione estiva di festival (in Italia se ne contano una quarantina), c’è il rischio che passino inosservati quelli più a portata di mano, quasi sottocasa. Sarebbe un errore considerare tra le manifestazioni minori quella in corso alle Terme di Caracalla di Roma, tradizionale stagione estiva del Teatro dell’Opera della Capitale con titoli di richiamo per il grande pubblico. Dopo l’“Aida” presentata due anni fa e che ha trionfato in Estremo Oriente, è in scena sino all’8 agosto “Rigoletto”, opera assente dal grande palcoscenico di Caracalla da 15 anni. E’ un nuovo allestimento che vede sul podio dell’orchestra e del coro Donato Renzetti e Andrea Giorgi; la regia è di Lamberto Puggelli, le scene e i costumi di Maurizio Varamo. Nella “trilogia popolare” di Verdi, “Rigoletto” supera i “numeri chiusi” con declamati, ariosi e concertati (il terzo atto non è divisibile in “numeri”); ha un flusso orchestrale continuo al cangiare delle atmosfere (il secondo quadro del primo atto); e, soprattutto, ha personaggi con psicologie scavate a fondo. Rigoletto è il grande reietto, sfigurato nel corpo, con un’anima sincera e una seconda vita nascosta. Costretto a fare il compagno di bagordi del Duca di Mantova, si accorge che costui gli ha sedotto la figlia, Gilda. Assolda un killer per ucciderlo. Ma il pugnale trafigge la fanciulla. Dramma, quindi, cupo.
L’impianto di Puggelli è suggestivo e grandioso: illustra con un abile gioco di luci non solo i luoghi dell’azione, ma pure gli stati d’animo. “Tutti si travestono, si mascherano, sono altro da sé – spiega il regista -. Il Duca despota libertino e prepotente, ma anche lo studente povero; Rigoletto il buffone laido e il padre amoroso; Gilda si traveste da uomo e si fa uccidere per amore e il suo sentimento, nascosto al padre, la conduce al finale tragico, dove gioca l’ultimo equivoco”. La grande opera di Verdi è messa in scena come una tragedia degli equivoci, essenziale nel suo dolore, sfruttando al massimo la meravigliosa cornice archeologica che circonda il palcoscenico. “A Caracalla – aggiunge ancora Puggelli- in questo rudere intriso di antichità e storia, s’ innalza il dolore di un padre, evocato dalla musica, a cui assistono indifferenti e immobili maschere bianche, in un tempo fuori dal tempo. Poi improvvisamente, siamo fra i magnifici arazzi dei Gonzaga, siamo a una festa cinquecentesca opulenta e carnale, esattamente come volevano Verdi e il librettista Piave”. Renzetti ha una bacchetta precisa e puntuale. Nel ruolo di Rigoletto si alternano Vladimir Stoyanov e Stefano Antonucci; in quello del Duca di Mantova, Celso Albelo, Valter Borin e Jean-Francois Borras; nei panni di Gilda, Jessica Pratt ed Ekaterina Sadovnikova. Due cast, in breve, d’ottimo livello.
(Hans Sachs) 28 lug 2010 13:51
martedì 27 luglio 2010
Darkness to Light Music & Vision 21 giugno
Darkness to Light
GIUSEPPE PENNISI visits the Ravenna Festival
Who remembers William Inge's play The Dark at the Top of the Stairs? In the sixties it was a major box office hit both on Broadway and in the West End, and its movie transposition was very successful in several countries. In Italy, even though so many years have gone by since its first release, it is occasionally back on late night TV programs. The 2010 Ravenna Festival has an elegant 150 page large-format catalogue called, in Latin, Ex Tenebris ad Lucem ('From darkness to light') which is just the opposite of Inge's title and message.
Many Music & Vision readers may ask where Ravenna is, and what is the role of its Festival on the European scene. Now, Ravenna is a lovely Adriatic seaside spot, filled with remnants of the Roman and Byzantine Empires, along with fine museums, gold mosaics and many seventeenth century palaces. There is an elegant nineteenth century theatre as well as several other locations suited to musical and theatrical performances. For the last twenty one years, Ravenna has had an important multi-disciplinary festival. This year, an audience of eighty thousand (approximately 25% of which are non-Italians) is expected. Its six million euro budget is financed by a consortium of Italian central and local authorities with private sponsors, along with box office receipts.
A scene from 'Tenebræ' at the 2010 Ravenna Festival. Photo © 2010 Maurizio Montanari
Riccardo Muti and his wife, Cristina, tirelessly promote the festival, in part through international partnerships and their well-deserved personal prestige. In previous years, Ravenna has brought to the attention of Western European theatres jewels like the Moscow Helikon Opera and the Lithuanian National Opera. This year the main events are co-produced with the Salzburg Festival and the Rome Teatro dell' Opera. Other events include Charles Dutoit conducting the Royal Philarmonia Orchestra, and Yuri Temirkanov with the Philarmonia Orchestra. The Festival was expected to be inaugurated by Claudio Abbado, who regretfully had to cancel because he is seriously ill. Muti will conduct two versions (by Mozart and Jommelli) of Metastasio's opera Betulia Liberata and a grand final concert (Cherubini's Requiem in C minor) with a huge number of players combining two orchestras and three choruses. The details are described at www.ravennafestival.org.
Elena Bucci in a scene from 'Tenebræ' at the 2010 Ravenna Festival. Photo © 2010 Maurizio Montanari
The main difference from other multidisciplinary festivals -- eg the Two Worlds Festival in Spoleto -- is that the Ravenna program has a clear theme: this year both philosophical and religious -- the difficult and gruesome search for truth. Also Ravenna presents world premières: this year Tenebræ by Adriano Guarnieri and Massimo Cacciari. Guarnieri is one of the most prestigious Italian composers; initially influenced by the German school (Darmstadt), now he sounds close to French contemporary experimentation (IRCAM).
Elena Bucci and Katerine Pantigny in a scene from 'Tenebræ' at the 2010 Ravenna Festival. Photo © 2010 Maurizio Montanari
Cacciari is a well-known philosopher, close to Marxism. As an atheist, he is very attracted to religion -- he has visited Mount Athos several times and just published a commentary of the Ten Commandments. For two terms, he has been a much appreciated mayor of Venice (his home town) -- thus he has real management experience -- a rarity for a philosopher. He has also had a long acquaintance with Luigi Nono and his family, and is thus familiar with contemporary music. For Nono, Cacciari arranged texts by several authors for Prometeo, Tragedia dell'Ascolto ( a mammoth opera with over three hours of music and an oversized orchestra and chorus). To make the event even spicier (should there be any need), Cristina Mazzavillani Muti took on the stage direction of this seventy five minute video oratorio (with four scenes and sixteen numbers) and three of the best known Italian experts of virtual sets (Ezio Antonelli), electronic sound (Luigi Ceccarelli) and lighting (Patrizio Maggi) were called to share responsibility for the production.
Elena Bucci in a scene from 'Tenebræ' at the 2010 Ravenna Festival. Photo © 2010 Maurizio Montanari
I was at the 17 June 2010 world première. Cacciari's text deals essentially with death, and more specifically with the difficult and painful separation of the soul from the body : the light at the end of the seventy five minute tunnel is a Zen peace, like in Mahler's Das Lied von Der Erde. The text is sung by two sopranos and a countertenor in a very high register -- with a hyper acute that very few singers would dare to attempt. It was counterpointed by a taped Gregorian chorus of monks with bass voices; as the words are deconstructed, an actress and a dancer explain the meaning. The score is limpid: very classically atonal, composing is combined with a twelve note row style. In the pit, a Teatro dell'Opera fourteen member ensemble does marvels under Pietro Borgonovo's baton. The stage direction and virtual sets may require some re-thinking before reaching Rome and touring to other theatres. In the first two scenes, these are quite effective and combine Caravaggio paintings with ideas from the Good Friday Liturgy and the Gospel (eg the floods). In the remaing two scenes, very little can be seen on the dark set whilst the music is reaching its dramatic apex before the serene conclusion.
A scene from 'Tenebræ' at the 2010 Ravenna Festival. Photo © 2010 Maurizio Montanari
During my visit to Ravenna, I also took the opportunity to hear two concerts by La Stagione Armonica, an ancient music ensemble created and led by Sergio Balestrazzi. The first, in the St Vitale Basilica, was the Good Friday Anthem and the Darkness Prayers by Alessandro Scarlatti, scores found in the archives of the Bologna Philarmonic Academy: dark but rich music from the last few years of the seventeenth century where soloist and chorus are supported by two violins, a cello, a violone, a tiorba and the organ. The second was in St Apollinare Nuovo Basilica: a real gem -- Roman Catholic Counter-Reformation music by Bianciardi, Monteverdi, Morelli, Salvolini and Signoretti, polyphonic and with only the organ providing a basso continuo accompaniment.
A scene from 'Tenebræ' at the 2010 Ravenna Festival. Photo © 2010 Maurizio Montanari
In short, over two days, a travel from darkness to light, from Palestrina to electro-acoustics.
Copyright © 21 June 2010 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy
RAVENNA
RICCARDO MUTI
ITALY
ALESSANDRO SCARLATTI
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GIUSEPPE PENNISI visits the Ravenna Festival
Who remembers William Inge's play The Dark at the Top of the Stairs? In the sixties it was a major box office hit both on Broadway and in the West End, and its movie transposition was very successful in several countries. In Italy, even though so many years have gone by since its first release, it is occasionally back on late night TV programs. The 2010 Ravenna Festival has an elegant 150 page large-format catalogue called, in Latin, Ex Tenebris ad Lucem ('From darkness to light') which is just the opposite of Inge's title and message.
Many Music & Vision readers may ask where Ravenna is, and what is the role of its Festival on the European scene. Now, Ravenna is a lovely Adriatic seaside spot, filled with remnants of the Roman and Byzantine Empires, along with fine museums, gold mosaics and many seventeenth century palaces. There is an elegant nineteenth century theatre as well as several other locations suited to musical and theatrical performances. For the last twenty one years, Ravenna has had an important multi-disciplinary festival. This year, an audience of eighty thousand (approximately 25% of which are non-Italians) is expected. Its six million euro budget is financed by a consortium of Italian central and local authorities with private sponsors, along with box office receipts.
A scene from 'Tenebræ' at the 2010 Ravenna Festival. Photo © 2010 Maurizio Montanari
Riccardo Muti and his wife, Cristina, tirelessly promote the festival, in part through international partnerships and their well-deserved personal prestige. In previous years, Ravenna has brought to the attention of Western European theatres jewels like the Moscow Helikon Opera and the Lithuanian National Opera. This year the main events are co-produced with the Salzburg Festival and the Rome Teatro dell' Opera. Other events include Charles Dutoit conducting the Royal Philarmonia Orchestra, and Yuri Temirkanov with the Philarmonia Orchestra. The Festival was expected to be inaugurated by Claudio Abbado, who regretfully had to cancel because he is seriously ill. Muti will conduct two versions (by Mozart and Jommelli) of Metastasio's opera Betulia Liberata and a grand final concert (Cherubini's Requiem in C minor) with a huge number of players combining two orchestras and three choruses. The details are described at www.ravennafestival.org.
Elena Bucci in a scene from 'Tenebræ' at the 2010 Ravenna Festival. Photo © 2010 Maurizio Montanari
The main difference from other multidisciplinary festivals -- eg the Two Worlds Festival in Spoleto -- is that the Ravenna program has a clear theme: this year both philosophical and religious -- the difficult and gruesome search for truth. Also Ravenna presents world premières: this year Tenebræ by Adriano Guarnieri and Massimo Cacciari. Guarnieri is one of the most prestigious Italian composers; initially influenced by the German school (Darmstadt), now he sounds close to French contemporary experimentation (IRCAM).
Elena Bucci and Katerine Pantigny in a scene from 'Tenebræ' at the 2010 Ravenna Festival. Photo © 2010 Maurizio Montanari
Cacciari is a well-known philosopher, close to Marxism. As an atheist, he is very attracted to religion -- he has visited Mount Athos several times and just published a commentary of the Ten Commandments. For two terms, he has been a much appreciated mayor of Venice (his home town) -- thus he has real management experience -- a rarity for a philosopher. He has also had a long acquaintance with Luigi Nono and his family, and is thus familiar with contemporary music. For Nono, Cacciari arranged texts by several authors for Prometeo, Tragedia dell'Ascolto ( a mammoth opera with over three hours of music and an oversized orchestra and chorus). To make the event even spicier (should there be any need), Cristina Mazzavillani Muti took on the stage direction of this seventy five minute video oratorio (with four scenes and sixteen numbers) and three of the best known Italian experts of virtual sets (Ezio Antonelli), electronic sound (Luigi Ceccarelli) and lighting (Patrizio Maggi) were called to share responsibility for the production.
Elena Bucci in a scene from 'Tenebræ' at the 2010 Ravenna Festival. Photo © 2010 Maurizio Montanari
I was at the 17 June 2010 world première. Cacciari's text deals essentially with death, and more specifically with the difficult and painful separation of the soul from the body : the light at the end of the seventy five minute tunnel is a Zen peace, like in Mahler's Das Lied von Der Erde. The text is sung by two sopranos and a countertenor in a very high register -- with a hyper acute that very few singers would dare to attempt. It was counterpointed by a taped Gregorian chorus of monks with bass voices; as the words are deconstructed, an actress and a dancer explain the meaning. The score is limpid: very classically atonal, composing is combined with a twelve note row style. In the pit, a Teatro dell'Opera fourteen member ensemble does marvels under Pietro Borgonovo's baton. The stage direction and virtual sets may require some re-thinking before reaching Rome and touring to other theatres. In the first two scenes, these are quite effective and combine Caravaggio paintings with ideas from the Good Friday Liturgy and the Gospel (eg the floods). In the remaing two scenes, very little can be seen on the dark set whilst the music is reaching its dramatic apex before the serene conclusion.
A scene from 'Tenebræ' at the 2010 Ravenna Festival. Photo © 2010 Maurizio Montanari
During my visit to Ravenna, I also took the opportunity to hear two concerts by La Stagione Armonica, an ancient music ensemble created and led by Sergio Balestrazzi. The first, in the St Vitale Basilica, was the Good Friday Anthem and the Darkness Prayers by Alessandro Scarlatti, scores found in the archives of the Bologna Philarmonic Academy: dark but rich music from the last few years of the seventeenth century where soloist and chorus are supported by two violins, a cello, a violone, a tiorba and the organ. The second was in St Apollinare Nuovo Basilica: a real gem -- Roman Catholic Counter-Reformation music by Bianciardi, Monteverdi, Morelli, Salvolini and Signoretti, polyphonic and with only the organ providing a basso continuo accompaniment.
A scene from 'Tenebræ' at the 2010 Ravenna Festival. Photo © 2010 Maurizio Montanari
In short, over two days, a travel from darkness to light, from Palestrina to electro-acoustics.
Copyright © 21 June 2010 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy
RAVENNA
RICCARDO MUTI
ITALY
ALESSANDRO SCARLATTI
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Massenet's 'Manon' returns to Rome, Music & Vision 20 giugno
Young Eroticism in the Third French Republic
Massenet's 'Manon' returns to Rome,
reviewed by GIUSEPPE PENNISI
Twenty six years after its last series of performances, Jules Massenet's Manon is back at Rome's Teatro dell'Opera in a co-production with Montecarlo Opéra. The production (sets, costumes, staging) is clearly thought to be widely circulated. Thus, it is highly possible that it will be seen in other European theatres. The long opéra comique (two hours and 45 minutes, in Pierre Monteux's historical recording -- one of the very few to be unabridged) is divided in two parts: the first and the second acts and, after a half an hour intermission, the remaining three acts. The spoken parts in between musical numbers have, as intended, an orchestral accompaniment, as if in a melologue, there are a few touches of grand opéra (with the ballet not only at the Third Act -- the Cours de la Reine, but also in the background of the Fourth Act in the gambling room at the Hotel de Transilvanie, where one can feel the smell of Proust's brothels). The opera requires eighteen soloists, a vast orchestra ; thus a much larger cast than in the traditional opéra-comique. And this is one of the reasons why opera managers are careful before staging it.
Massimo Giordano as Le Chevalier des Grieux in Act 3 of Massenet's 'Manon' at Teatro dell'Opera in Rome. Photo © 2010 Corrado Maria Falsini
In this production, the six scenes are framed in a single stage set -- a grayish eighteenth century hall with huge mirrors, neo-classical columns and a gravure touch -- with a few period projected paintings and props (including references to Montecarlo Palais Garnier). We see the carriage station in Amiens, the lovers' apartment in Paris (where 'la petite table' is replaced by an oversize bed and an equally oversize mirror to show the young lovers' sexual play), the Cours de la Reine, the St Sulpice Church, the Hotel de Transilvanie, and the road to Le Havre. The sets, signed by Paola Moro, are designed to take the production around in long tours to several theatres, not necessarily only in France and Italy. Also the four hundred costumes are, by and large, adapted and refurbished by the Teatro dell'Opera tailors from the huge stock (of 50-60,000 costumes) available in the theater's warehouse. A wise decision always, but especially in times of severe financial crisis. The stage director, Jean-Louis Grinda, gives a fast pace to the action and provides tension to an opera generally considered as a series of flowery melodies where good taste and technical skills counterbalance the tendency, in several parts of the libretto, towards excessive sentimentality. Tradition is married with a bit of innovation -- the use of projections and explicit erotic references.
Massimo Giordano as Le Chevalier des Grieux in Act 3 Scene 2 of Massenet's 'Manon' at Teatro dell'Opera in Rome. Photo © 2010 Corrado Maria Falsini
Before getting into the 17 June 2010 performance, where this new production was unveiled by the theatre and reviewed for Music & Vision, it is useful to remember that Jules Massenet was the most popular composer of the Third French Republic. He turned out some twenty operas. In most of them, he was combining eroticism and religion into a saleable commodity for the bourgeois audience of a fast industrializing France where a wealthy bourgeoisie was replacing a decadent aristocracy. This Third Republic audience loved to go to confession and ask forgiveness after plenty of sinning -- especially sexual sinning! In spite of what is normally written and said, even though the main lines of the plot are the same, Massenet's Manon has little to do with L'Histoire du Chevalier Des Grieux et de Manon Lescaut by the Abbé Antoine-François Prévost (who was a 'libertine' writer of the age of Enlightenment and, personally, was quite a libertine and a womanizer himself). In the novel, the protagonist is a cynical young aristocrat with an easy use of the sword -- he kills a couple of men -- and ready to prostitute his girlfriend to the Governor of Louisiana and his retinue; on her own account, Manon is quite happy to move from bed to bed and to try a large variety of erotic expressions with a vast gamut of men.
Annick Massis as Manon Lescaut in Act 3 Scene 1 of Massenet's 'Manon' at Teatro dell'Opera in Rome. Photo © 2010 Corrado Maria Falsini
Nothing of this in Massenet's Manon, as adapted for the taste of the Third Republic audience, by Massenet and his librettists (Henri Miellhac and Philippe Gille). In the opera, a young nobleman falls in love with a charming but quite accessible young woman from a lower social class. When eventually she leaves him to pursue her plans to use her wares and her skills to become wealthy, the gentle boy decides to become a priest. She entices him back by visiting him and the St Sulpice seminary where her insinuating phrases artfully contrast with austere religious chants. From there on, the road is set: gambling, stealing, being caught by the authorities. He can be saved by his family position and money, but she is condemned to become a prostitute in a brothel in the Louisiana colony and dies, in his arms, on her way to Le Havre. A quintessential hypocritical French Third Republic mélo, where Proust is just around the corner.
A scene from Act 4 of Massenet's 'Manon' at Teatro dell'Opera in Rome. Photo © 2010 Corrado Maria Falsini
Naturally, both the drama and music emphasize the ambiguity between eroticism and mysticism, the sincere young love (and young approach to eros) and the luxurious life of a corrupt aristocracy, the destitution of Manon and the 'good boy's evergreen kindness' of Des Grieux. The mirrors help the audience to focus on the ambiguity between eroticism and mysticism. The orchestra, conducted by a veteran of the score such as Alain Guingal, keeps the delicate balance between sentimentalism, drama and mere descriptive moments very well. Strings have a prevalent role in the orchestration, especially in the 'mnemonic' (to recall situations and /or feelings) leitmotive (very distant, of course, from Wagner's poetic). The Teatro dell'Opera orchestra, chorus and corps de ballet did very well in this opéra comique with a flair of grand-opéra.
Massimo Giordano as Le Chevalier des Grieux and Annick Massis as Manon Lescaut in the final scene from Act 5 of Massenet's 'Manon' at Teatro dell'Opera in Rome. Photo © 2010 Corrado Maria Falsini
Both Annick Massis and Massimo Giordano were giving début performances in their respective protagonists' roles. Even though Annick Massis is no longer of Manon's age and performed despite being ill, she is a soprano assoluto very well suited to the part; her emission is perfect, with a lovely G natural. Although in his forties, Giordano has a boyish look. He is a lyric tenor with an excellent fraseggio, a clear timbre, a long acute and perfect French diction, as well as an effective mezza voce. The rest of the large cast also performed at a high level.
Copyright © 20 June 2010 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy
JULES MASSENET
MANON
ROME
TEATRO DELL'OPERA
FRANCE
ITALY
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Massenet's 'Manon' returns to Rome,
reviewed by GIUSEPPE PENNISI
Twenty six years after its last series of performances, Jules Massenet's Manon is back at Rome's Teatro dell'Opera in a co-production with Montecarlo Opéra. The production (sets, costumes, staging) is clearly thought to be widely circulated. Thus, it is highly possible that it will be seen in other European theatres. The long opéra comique (two hours and 45 minutes, in Pierre Monteux's historical recording -- one of the very few to be unabridged) is divided in two parts: the first and the second acts and, after a half an hour intermission, the remaining three acts. The spoken parts in between musical numbers have, as intended, an orchestral accompaniment, as if in a melologue, there are a few touches of grand opéra (with the ballet not only at the Third Act -- the Cours de la Reine, but also in the background of the Fourth Act in the gambling room at the Hotel de Transilvanie, where one can feel the smell of Proust's brothels). The opera requires eighteen soloists, a vast orchestra ; thus a much larger cast than in the traditional opéra-comique. And this is one of the reasons why opera managers are careful before staging it.
Massimo Giordano as Le Chevalier des Grieux in Act 3 of Massenet's 'Manon' at Teatro dell'Opera in Rome. Photo © 2010 Corrado Maria Falsini
In this production, the six scenes are framed in a single stage set -- a grayish eighteenth century hall with huge mirrors, neo-classical columns and a gravure touch -- with a few period projected paintings and props (including references to Montecarlo Palais Garnier). We see the carriage station in Amiens, the lovers' apartment in Paris (where 'la petite table' is replaced by an oversize bed and an equally oversize mirror to show the young lovers' sexual play), the Cours de la Reine, the St Sulpice Church, the Hotel de Transilvanie, and the road to Le Havre. The sets, signed by Paola Moro, are designed to take the production around in long tours to several theatres, not necessarily only in France and Italy. Also the four hundred costumes are, by and large, adapted and refurbished by the Teatro dell'Opera tailors from the huge stock (of 50-60,000 costumes) available in the theater's warehouse. A wise decision always, but especially in times of severe financial crisis. The stage director, Jean-Louis Grinda, gives a fast pace to the action and provides tension to an opera generally considered as a series of flowery melodies where good taste and technical skills counterbalance the tendency, in several parts of the libretto, towards excessive sentimentality. Tradition is married with a bit of innovation -- the use of projections and explicit erotic references.
Massimo Giordano as Le Chevalier des Grieux in Act 3 Scene 2 of Massenet's 'Manon' at Teatro dell'Opera in Rome. Photo © 2010 Corrado Maria Falsini
Before getting into the 17 June 2010 performance, where this new production was unveiled by the theatre and reviewed for Music & Vision, it is useful to remember that Jules Massenet was the most popular composer of the Third French Republic. He turned out some twenty operas. In most of them, he was combining eroticism and religion into a saleable commodity for the bourgeois audience of a fast industrializing France where a wealthy bourgeoisie was replacing a decadent aristocracy. This Third Republic audience loved to go to confession and ask forgiveness after plenty of sinning -- especially sexual sinning! In spite of what is normally written and said, even though the main lines of the plot are the same, Massenet's Manon has little to do with L'Histoire du Chevalier Des Grieux et de Manon Lescaut by the Abbé Antoine-François Prévost (who was a 'libertine' writer of the age of Enlightenment and, personally, was quite a libertine and a womanizer himself). In the novel, the protagonist is a cynical young aristocrat with an easy use of the sword -- he kills a couple of men -- and ready to prostitute his girlfriend to the Governor of Louisiana and his retinue; on her own account, Manon is quite happy to move from bed to bed and to try a large variety of erotic expressions with a vast gamut of men.
Annick Massis as Manon Lescaut in Act 3 Scene 1 of Massenet's 'Manon' at Teatro dell'Opera in Rome. Photo © 2010 Corrado Maria Falsini
Nothing of this in Massenet's Manon, as adapted for the taste of the Third Republic audience, by Massenet and his librettists (Henri Miellhac and Philippe Gille). In the opera, a young nobleman falls in love with a charming but quite accessible young woman from a lower social class. When eventually she leaves him to pursue her plans to use her wares and her skills to become wealthy, the gentle boy decides to become a priest. She entices him back by visiting him and the St Sulpice seminary where her insinuating phrases artfully contrast with austere religious chants. From there on, the road is set: gambling, stealing, being caught by the authorities. He can be saved by his family position and money, but she is condemned to become a prostitute in a brothel in the Louisiana colony and dies, in his arms, on her way to Le Havre. A quintessential hypocritical French Third Republic mélo, where Proust is just around the corner.
A scene from Act 4 of Massenet's 'Manon' at Teatro dell'Opera in Rome. Photo © 2010 Corrado Maria Falsini
Naturally, both the drama and music emphasize the ambiguity between eroticism and mysticism, the sincere young love (and young approach to eros) and the luxurious life of a corrupt aristocracy, the destitution of Manon and the 'good boy's evergreen kindness' of Des Grieux. The mirrors help the audience to focus on the ambiguity between eroticism and mysticism. The orchestra, conducted by a veteran of the score such as Alain Guingal, keeps the delicate balance between sentimentalism, drama and mere descriptive moments very well. Strings have a prevalent role in the orchestration, especially in the 'mnemonic' (to recall situations and /or feelings) leitmotive (very distant, of course, from Wagner's poetic). The Teatro dell'Opera orchestra, chorus and corps de ballet did very well in this opéra comique with a flair of grand-opéra.
Massimo Giordano as Le Chevalier des Grieux and Annick Massis as Manon Lescaut in the final scene from Act 5 of Massenet's 'Manon' at Teatro dell'Opera in Rome. Photo © 2010 Corrado Maria Falsini
Both Annick Massis and Massimo Giordano were giving début performances in their respective protagonists' roles. Even though Annick Massis is no longer of Manon's age and performed despite being ill, she is a soprano assoluto very well suited to the part; her emission is perfect, with a lovely G natural. Although in his forties, Giordano has a boyish look. He is a lyric tenor with an excellent fraseggio, a clear timbre, a long acute and perfect French diction, as well as an effective mezza voce. The rest of the large cast also performed at a high level.
Copyright © 20 June 2010 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy
JULES MASSENET
MANON
ROME
TEATRO DELL'OPERA
FRANCE
ITALY
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Shchedrin's 'Anna Karenina' and other premières at the Stars of the White Nights Festival, Music & Visin 13 giugno
Almost Cinematic
Shchedrin's 'Anna Karenina' and other premières
at the Stars of the White Nights Festival,
by GIUSEPPE PENNISI
Now in its eighteenth edition, St Petersburg's Festival of the Stars of the White Nights started as an adventure nearly two decades ago. The glorious Mariinsky Ballet and Opera Company was about to collapse along with the downfall of Communism and of the Soviet Republics. It had been largely supported by taxation no longer available in the chaos of the transition to a market economy. The musical director and principal conductor, Valery Gergiev, already well known in the West, did all that a human being could to keep it together. The first step was a series of tours so that musicians could reach double objectives: in the short term, to get two meals every day; in the longer term, to find sponsors and partners not only for their activities abroad but also to prosper in the marvelous theatre in their home country. It was a daring bet. But God helps men with courage, good intentions and a sincere love for the highest of the arts.
Now, the Mariinsky Theatre is back at the splendor of the last decades of the nineteenth century. Alongside the theatre, the old concert auditorium has also found new life for symphony and chamber music. The Mariinsky company has nearly twenty international and domestic partners and sponsors, and operates almost 320 evenings every year- either in St Petersburg or on tour. The Stars of the White Nights Festival started as an homage by the company to the city, patterned after a similar festival in Munich. Initially it showed nearly thirty operas and ballets -- the best and the most acclaimed of the previous twelve months -- just during the weeks where the nights are very short. Now the Festival is a two month event, with nearly one hundred performances of operas, ballets and concerts, important guest orchestras, some mini-festivals within the larger event, and also premières of operas and ballets booked for the following season in Russia and abroad.
Ekaterina Kondaurova and Andrei Ermakov in Act I of Rodion Shchedrin's 'Anna Karenina' at the Stars of the White Nights Festival. Photo © 2010 Natasha Razina
The mini-festivals concern French music and Rodion Shchedrin, a rare example of a 'living classical' composer. Your reviewer was lucky to be in St Petersburg (as a part of a river cruise to Northern Western Russia and then to Moscow) and to be at the Mariinsky's 24 May 2010 opening night of Shchedrin's latest work (for the time being) -- Anna Karenina -- after Tolstoy's novel. Next season, this production of Anna Karenina will be shown not only in St Petersburg but also in Warsaw and in London.
A scene from Act II of Rodion Shchedrin's 'Anna Karenina' at the Stars of the White Nights Festival. Photo © 2010 Natasha Razina
In the West, Shchedrin is mostly known for his chamber music, whereas he is also a prolific author of symphonies, ballets and operas. Aged seventy eight, he looks rather young and is full of enthusiasm. His musical experience spans Shostakovich to Sviridov (his senior contemporaries and, in a way, his 'maestros') to others of the same age such as Tishcenko, Slonimsky and Schnittke. He was never tempted by the twelve tone row approach or by other methods that he calls 'cerebral'. His musical writing is crystal-clear, transparent; but simplicity is only apparent as it conceals very detailed work and a taste for inserting chamber music pieces within large symphonic works, symphonies and ballets.
Ekaterina Kondaurova and Andrei Ermakov in Act II of Rodion Shchedrin's 'Anna Karenina' at the Stars of the White Nights Festival. Photo © 2010 Natasha Razina
Anna Karenina is a ballet in two acts and nearly twenty short scenes. Each scene has a musical theme. The action is swift, almost cinematic, due to a very ingenious, elegant and economical stage setting of projections, often of period pictures, and only a few props: Mikael Melbye and Martin Tulinius are the authors of the sets, the costumes and the dramaturgy. The entire performance lasts less than two hours (including intermission). The score is for a large symphony with chamber music interludes for piano, celesta, clarinet, mandolin, double bass, flute and trumpet. The chamber music interludes emphasize the interior life of the protagonists, whilst the large symphony, under the baton of Alexei Repnikov, depicts the dramatic and sensual development of the plot to his tragic end. Simplicity is one of Shchedrin's main features: he wants to be complex but also to be understood by the audience. This is a healthy creative approach, much appreciated by the audience at the 24 May performance of Anna Karenina.
Ekaterina Kondaurova and Andrei Ermakov in Act II of Rodion Shchedrin's 'Anna Karenina' at the Stars of the White Nights Festival. Photo © 2010 Natasha Razina
What else can I suggest to visitors who might be in St Petersburg during the 2010 Stars of the White Nights Festival? Any evening is good, but three new productions deserve special attention: Bartók's Duke Bluebeard's Castle (next year also in London, at the English National Opera), Verdi's Attila (also most likely at La Scala in 2012) and Khachaturian's Spartacus (planned for an extended tour of Russia and abroad).
Copyright © 13 June 2010 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy
SAINT PETERSBURG
RUSSIA
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Shchedrin's 'Anna Karenina' and other premières
at the Stars of the White Nights Festival,
by GIUSEPPE PENNISI
Now in its eighteenth edition, St Petersburg's Festival of the Stars of the White Nights started as an adventure nearly two decades ago. The glorious Mariinsky Ballet and Opera Company was about to collapse along with the downfall of Communism and of the Soviet Republics. It had been largely supported by taxation no longer available in the chaos of the transition to a market economy. The musical director and principal conductor, Valery Gergiev, already well known in the West, did all that a human being could to keep it together. The first step was a series of tours so that musicians could reach double objectives: in the short term, to get two meals every day; in the longer term, to find sponsors and partners not only for their activities abroad but also to prosper in the marvelous theatre in their home country. It was a daring bet. But God helps men with courage, good intentions and a sincere love for the highest of the arts.
Now, the Mariinsky Theatre is back at the splendor of the last decades of the nineteenth century. Alongside the theatre, the old concert auditorium has also found new life for symphony and chamber music. The Mariinsky company has nearly twenty international and domestic partners and sponsors, and operates almost 320 evenings every year- either in St Petersburg or on tour. The Stars of the White Nights Festival started as an homage by the company to the city, patterned after a similar festival in Munich. Initially it showed nearly thirty operas and ballets -- the best and the most acclaimed of the previous twelve months -- just during the weeks where the nights are very short. Now the Festival is a two month event, with nearly one hundred performances of operas, ballets and concerts, important guest orchestras, some mini-festivals within the larger event, and also premières of operas and ballets booked for the following season in Russia and abroad.
Ekaterina Kondaurova and Andrei Ermakov in Act I of Rodion Shchedrin's 'Anna Karenina' at the Stars of the White Nights Festival. Photo © 2010 Natasha Razina
The mini-festivals concern French music and Rodion Shchedrin, a rare example of a 'living classical' composer. Your reviewer was lucky to be in St Petersburg (as a part of a river cruise to Northern Western Russia and then to Moscow) and to be at the Mariinsky's 24 May 2010 opening night of Shchedrin's latest work (for the time being) -- Anna Karenina -- after Tolstoy's novel. Next season, this production of Anna Karenina will be shown not only in St Petersburg but also in Warsaw and in London.
A scene from Act II of Rodion Shchedrin's 'Anna Karenina' at the Stars of the White Nights Festival. Photo © 2010 Natasha Razina
In the West, Shchedrin is mostly known for his chamber music, whereas he is also a prolific author of symphonies, ballets and operas. Aged seventy eight, he looks rather young and is full of enthusiasm. His musical experience spans Shostakovich to Sviridov (his senior contemporaries and, in a way, his 'maestros') to others of the same age such as Tishcenko, Slonimsky and Schnittke. He was never tempted by the twelve tone row approach or by other methods that he calls 'cerebral'. His musical writing is crystal-clear, transparent; but simplicity is only apparent as it conceals very detailed work and a taste for inserting chamber music pieces within large symphonic works, symphonies and ballets.
Ekaterina Kondaurova and Andrei Ermakov in Act II of Rodion Shchedrin's 'Anna Karenina' at the Stars of the White Nights Festival. Photo © 2010 Natasha Razina
Anna Karenina is a ballet in two acts and nearly twenty short scenes. Each scene has a musical theme. The action is swift, almost cinematic, due to a very ingenious, elegant and economical stage setting of projections, often of period pictures, and only a few props: Mikael Melbye and Martin Tulinius are the authors of the sets, the costumes and the dramaturgy. The entire performance lasts less than two hours (including intermission). The score is for a large symphony with chamber music interludes for piano, celesta, clarinet, mandolin, double bass, flute and trumpet. The chamber music interludes emphasize the interior life of the protagonists, whilst the large symphony, under the baton of Alexei Repnikov, depicts the dramatic and sensual development of the plot to his tragic end. Simplicity is one of Shchedrin's main features: he wants to be complex but also to be understood by the audience. This is a healthy creative approach, much appreciated by the audience at the 24 May performance of Anna Karenina.
Ekaterina Kondaurova and Andrei Ermakov in Act II of Rodion Shchedrin's 'Anna Karenina' at the Stars of the White Nights Festival. Photo © 2010 Natasha Razina
What else can I suggest to visitors who might be in St Petersburg during the 2010 Stars of the White Nights Festival? Any evening is good, but three new productions deserve special attention: Bartók's Duke Bluebeard's Castle (next year also in London, at the English National Opera), Verdi's Attila (also most likely at La Scala in 2012) and Khachaturian's Spartacus (planned for an extended tour of Russia and abroad).
Copyright © 13 June 2010 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy
SAINT PETERSBURG
RUSSIA
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lunedì 26 luglio 2010
Mahler's Third Symphony, in Music & Vison 8 giugno
Awakening of Nature
appreciated by GIUSEPPE PENNISI
As outlined in Music & Vision on 15 May 2010, the National Academy of Santa Cecilia has programmed the full cycle of Mahler Symphonies during the 2010-11 season with a view to celebrating the composer in the 150th year of his birth and the hundredth year of his death. Like all symphony orchestras in Italy, the Academy follows the 'season system'; Mahler's monumental Third Symphony in D minor was scheduled to be the final concert of the 2009-10 season under the baton of the young and emerging Finnish conductor Mikko Franck (thirty one years old). At the last moment, Franck was ill, but the Academy was fortunate enough to replace him with another comparatively young conductor, thirty-nine-year-old Austrian Christian Arming. This data is meaningful because Mahler's Third is normally entrusted to older conductors due the complexity both of the score and of its underlying philosophy.
One of the striking features of the emergence of Mahler's music from fifty years of comparative obscurity is that the very symphony which used to be least played and least known -- the third -- is now one of the most frequently performed, in spite of its gigantic scale, its eccentricities and its mixture of very profound and nearly popular music. During the last twenty-five years of Academy of Santa Cecilia seasons alone, the symphony has been performed nine times, including by Sinopoli (twice), Ashkenazy, Ferro, Maazel, Chung and Dudamel.
Mahler worked for several years on this symphony. In his specific plans, he developed a detailed descriptive program (especially for the immense, thirty-five minute first movement): the depiction of rocks and mountains, the coming of summer and, with it, of flowers, birds and animals, culminating in a hymn to love. The other five movements are shorter (about sixty minutes altogether) and may offer different and diverging interpretations. After the great awakening of nature, Mahler creates a sense of tragedy -- Nietzsche's Midnight Song from Also sprach Zarathustra -- followed by a bitter-sweet sense of transient joy -- the children's chorus from Das Knaben Wunderhorn -- and an atmosphere of calm, almost an anticipation of the Abschied ('Farewell') which ends Das Lied von der Erde -- a Zen-like acceptance of the end of everything (see Music & Vision, 14 January 2010). The ambiguity is the explosion of nature in the first movement and the final calm (but not necessarily peace) which may sound like near desperation whilst facing the conclusion of one's life. It seems that Mahler had in mind a seventh, more hopeful, movement, but never composed it.
In my opinion, the symphony is less desperate than many commentators and conductors think. There is a circular approach: the sixth and final movement is closely connected to the first, with the calm of nature juxtaposed to its explosion. This is a challenge to the conductors: Abbado (in his 1982 recording) and Sinopoli (in his Santa Cecilia 1985 and 1995 performances) delved on a nearly hopeless view of life and of its conclusion; in his 2008 Santa Cecilia performance, Dudamel exceeded on the most vibrant themes and colors.
Christian Arming conducting Mahler's Third Symphony. Photo © 2010 Musacchio & Ianniello
In this 5 June 2010 performance, Christian Arming struck an appropriate balance in showing the nearly circular underlying structure of the symphony. He started the first movement with impetus but then almost naturally slid into a delicate lyricism which underscores, more than is usual, the intertwined marches preceding the allegro moderato at the end of the movement. Impetus, lyricism and intertwined marches emphasize pantheism as the root of the symphony. Arming handled the minuet (which opens the five movements of the second part of the symphony) with elegance mixed with a bit of irony. There is also a slightly joking approach in the third movement (with Andrea Lucchi playing the off-stage posthorn excellently); the atmosphere is that of a happy journey -- the travels of life. In the 'mysterious' fourth movement, the alto soloist, Sara Mingardo (with a large register and a perfect fraseggio), reminds us all that there is no joy, not even the happy travel of life, without suffering -- the real chore of the symphony.
Contralto Sara Mingardo and conductor Christian Arming performing Mahler's Third Symphony. Photo © 2010 Musacchio & Ianniello
The dramatic tension evolves into the explosion of joy in the fifth movement. Chorus masters Ciro Visco and José Maria Sciutto and all the chorus members deserve to be complimented here. In the tricky sixth and final movement, Arming slowed the tempos gently for the diminuendo after a concise reminder of the pantheistic flair of the first movement. Very different conducting to that of Dudamel in 2008. Also, Arming has a gracious gesture and contains his left arm.
Ten minutes of accolades followed the one hundred and ten minutes of the symphony.
Copyright © 12 June 2010 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy
GUSTAV MAHLER
ROME
ITALY
ORCHESTRAL MUSIC
AUSTRIA
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Santa Cecilia 2009-2010 Season ends with Mahler Third Symphony
THE AWAKENING OF NATURE
Giuseppe Pennisi
As outlined in Music & Vision of May 15th 2010, the National Academy of Santa Cecilia has programmed the full cycle of Mahler Symphonies during 2010 - 2011 with the view of celebrating the composer in the 150th year of his birth and the 100th year of his death. Like all symphony orchestras in Italy, the Academy follows the “season system”; Mahler’s monumental Third Symphony in D-moll was scheduled to be the final concert of the 2009-2010 season under the baton of the young and emerging Finnish Mikko Franck (31 years old). At the last moment , Franck was ill, but the Academy was fortunate enough to replace him with another comparatively young conductor, the Austria Christian Armin (39). These data are meaningful because Mahler’s Third is normally entrusted to older conductors due the complexity both of the score and of its underlying philosophy. One of the striking features of the emergence of Mahler’s music from comparatively 50 years of obscurity is that the very symphony which used to be least played and least known- viz. the Third – is now one of the most frequently performed, in spite of its gigantic scale , its eccentricities , its mixture of very profound and nearly popular music : only in the Academy of Santa Cecilia seasons , in the last 25 years, it has been performed nine times under baton such as those of Sinopoli (twice), Ashkenazy, Ferro, Maazel, Chung and Dudamel.
Mahler worked for several years on this symphony. In his specific plans, he developed a detailed descriptive program (especially for the immense, 35 minutes, first movement): the depiction of rocks and mountains, the coming of summer and with it, of flowers, birds and animals, culminating an hymn to love. The other five movements are shorter (about 60 minutes all together) and may offer different and diverging interpretations. After the great awakening of nature, Mahler creates a sense of tragedy – Nietzsche’s Midnight Song from Also sprach Zarathustra – followed by a bitter-sweet sense of transient joy – the children’s chorus from the Knaben Wunderhorn – and an atmosphere of quite calm, almost an anticipation of the Abschied (Farewell) which ends Das Lied von der Erde- a Zen acceptance of the end of everything (see Music & Vision , January 14th 2010). The ambiguity is the explosion of nature in the first movement and the final calm (but not necessarily peace) which may sound nearly desperation in front of the conclusion of one’s life. It seems that Mahler had in mind a seventh, more hopeful, movement, but it never composed it.
In my opinion, the symphony is less desperate than many commentators and conductors think. There is a circular approach: the sixth and final movement is closely connected to the first with calm of nature juxtaposed to its explosion. This is a challenge to the conductors: e.g. Abbado (in his 1982 recording) and Sinopoli (in his Santa Cecilia 1985 and 1995 performances) delved on a nearly hopeless view of life and of its conclusion; in his 2008 Santa Cecilia conducting, Dudamel exceeded on the most vibrant themes and colors. In the June 5th performance, Christian Arming had the appropriate balance in showing the nearly circular underlying structure of the Symphony. He started the first movement with impetus but then almost naturally slid into a delicate lyricism which underscores, more than usually done, the intertwined marches preceding the allegro moderato at the end of the movement. Impetus, lyricism and intertwined marches emphasize pantheism as the root to the symphony. Armin handles the minuet (which opens the five movements of the second of the symphony) with elegance mixed with a bit of irony. A slightly jokingly approach is also in the third movement (excellent Andrea Lucchi at the off scene postman’s horn); the atmosphere is that of a happy travel – the life’s travel. In the “mysterious” fourth movements, the alto soloist, Sara Mingardo (with a large register and a perfect fraseggio), reminds all of us that there is no joy, not even the happy travel of life, without sufferings –the real chore of the symphony. The dramatic tension evolves into the explosion of joy in the fifth movements ; the chorus masters, Ciro Visco and José Maria Sciutto, and all the chorus elements deserve to be complemented . In the tricky sixth and final moments, Armin slows gently the tempos for the diminuendo after a concise reminder of the pantheistic flair of the first movement. Very different conducting as compared with that of Dudamel in 2008. Also Armin has a gracious gesture and contains his left harm .
Ten minutes of accolades followed that 110 minutes of the symphony.
appreciated by GIUSEPPE PENNISI
As outlined in Music & Vision on 15 May 2010, the National Academy of Santa Cecilia has programmed the full cycle of Mahler Symphonies during the 2010-11 season with a view to celebrating the composer in the 150th year of his birth and the hundredth year of his death. Like all symphony orchestras in Italy, the Academy follows the 'season system'; Mahler's monumental Third Symphony in D minor was scheduled to be the final concert of the 2009-10 season under the baton of the young and emerging Finnish conductor Mikko Franck (thirty one years old). At the last moment, Franck was ill, but the Academy was fortunate enough to replace him with another comparatively young conductor, thirty-nine-year-old Austrian Christian Arming. This data is meaningful because Mahler's Third is normally entrusted to older conductors due the complexity both of the score and of its underlying philosophy.
One of the striking features of the emergence of Mahler's music from fifty years of comparative obscurity is that the very symphony which used to be least played and least known -- the third -- is now one of the most frequently performed, in spite of its gigantic scale, its eccentricities and its mixture of very profound and nearly popular music. During the last twenty-five years of Academy of Santa Cecilia seasons alone, the symphony has been performed nine times, including by Sinopoli (twice), Ashkenazy, Ferro, Maazel, Chung and Dudamel.
Mahler worked for several years on this symphony. In his specific plans, he developed a detailed descriptive program (especially for the immense, thirty-five minute first movement): the depiction of rocks and mountains, the coming of summer and, with it, of flowers, birds and animals, culminating in a hymn to love. The other five movements are shorter (about sixty minutes altogether) and may offer different and diverging interpretations. After the great awakening of nature, Mahler creates a sense of tragedy -- Nietzsche's Midnight Song from Also sprach Zarathustra -- followed by a bitter-sweet sense of transient joy -- the children's chorus from Das Knaben Wunderhorn -- and an atmosphere of calm, almost an anticipation of the Abschied ('Farewell') which ends Das Lied von der Erde -- a Zen-like acceptance of the end of everything (see Music & Vision, 14 January 2010). The ambiguity is the explosion of nature in the first movement and the final calm (but not necessarily peace) which may sound like near desperation whilst facing the conclusion of one's life. It seems that Mahler had in mind a seventh, more hopeful, movement, but never composed it.
In my opinion, the symphony is less desperate than many commentators and conductors think. There is a circular approach: the sixth and final movement is closely connected to the first, with the calm of nature juxtaposed to its explosion. This is a challenge to the conductors: Abbado (in his 1982 recording) and Sinopoli (in his Santa Cecilia 1985 and 1995 performances) delved on a nearly hopeless view of life and of its conclusion; in his 2008 Santa Cecilia performance, Dudamel exceeded on the most vibrant themes and colors.
Christian Arming conducting Mahler's Third Symphony. Photo © 2010 Musacchio & Ianniello
In this 5 June 2010 performance, Christian Arming struck an appropriate balance in showing the nearly circular underlying structure of the symphony. He started the first movement with impetus but then almost naturally slid into a delicate lyricism which underscores, more than is usual, the intertwined marches preceding the allegro moderato at the end of the movement. Impetus, lyricism and intertwined marches emphasize pantheism as the root of the symphony. Arming handled the minuet (which opens the five movements of the second part of the symphony) with elegance mixed with a bit of irony. There is also a slightly joking approach in the third movement (with Andrea Lucchi playing the off-stage posthorn excellently); the atmosphere is that of a happy journey -- the travels of life. In the 'mysterious' fourth movement, the alto soloist, Sara Mingardo (with a large register and a perfect fraseggio), reminds us all that there is no joy, not even the happy travel of life, without suffering -- the real chore of the symphony.
Contralto Sara Mingardo and conductor Christian Arming performing Mahler's Third Symphony. Photo © 2010 Musacchio & Ianniello
The dramatic tension evolves into the explosion of joy in the fifth movement. Chorus masters Ciro Visco and José Maria Sciutto and all the chorus members deserve to be complimented here. In the tricky sixth and final movement, Arming slowed the tempos gently for the diminuendo after a concise reminder of the pantheistic flair of the first movement. Very different conducting to that of Dudamel in 2008. Also, Arming has a gracious gesture and contains his left arm.
Ten minutes of accolades followed the one hundred and ten minutes of the symphony.
Copyright © 12 June 2010 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy
GUSTAV MAHLER
ROME
ITALY
ORCHESTRAL MUSIC
AUSTRIA
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Santa Cecilia 2009-2010 Season ends with Mahler Third Symphony
THE AWAKENING OF NATURE
Giuseppe Pennisi
As outlined in Music & Vision of May 15th 2010, the National Academy of Santa Cecilia has programmed the full cycle of Mahler Symphonies during 2010 - 2011 with the view of celebrating the composer in the 150th year of his birth and the 100th year of his death. Like all symphony orchestras in Italy, the Academy follows the “season system”; Mahler’s monumental Third Symphony in D-moll was scheduled to be the final concert of the 2009-2010 season under the baton of the young and emerging Finnish Mikko Franck (31 years old). At the last moment , Franck was ill, but the Academy was fortunate enough to replace him with another comparatively young conductor, the Austria Christian Armin (39). These data are meaningful because Mahler’s Third is normally entrusted to older conductors due the complexity both of the score and of its underlying philosophy. One of the striking features of the emergence of Mahler’s music from comparatively 50 years of obscurity is that the very symphony which used to be least played and least known- viz. the Third – is now one of the most frequently performed, in spite of its gigantic scale , its eccentricities , its mixture of very profound and nearly popular music : only in the Academy of Santa Cecilia seasons , in the last 25 years, it has been performed nine times under baton such as those of Sinopoli (twice), Ashkenazy, Ferro, Maazel, Chung and Dudamel.
Mahler worked for several years on this symphony. In his specific plans, he developed a detailed descriptive program (especially for the immense, 35 minutes, first movement): the depiction of rocks and mountains, the coming of summer and with it, of flowers, birds and animals, culminating an hymn to love. The other five movements are shorter (about 60 minutes all together) and may offer different and diverging interpretations. After the great awakening of nature, Mahler creates a sense of tragedy – Nietzsche’s Midnight Song from Also sprach Zarathustra – followed by a bitter-sweet sense of transient joy – the children’s chorus from the Knaben Wunderhorn – and an atmosphere of quite calm, almost an anticipation of the Abschied (Farewell) which ends Das Lied von der Erde- a Zen acceptance of the end of everything (see Music & Vision , January 14th 2010). The ambiguity is the explosion of nature in the first movement and the final calm (but not necessarily peace) which may sound nearly desperation in front of the conclusion of one’s life. It seems that Mahler had in mind a seventh, more hopeful, movement, but it never composed it.
In my opinion, the symphony is less desperate than many commentators and conductors think. There is a circular approach: the sixth and final movement is closely connected to the first with calm of nature juxtaposed to its explosion. This is a challenge to the conductors: e.g. Abbado (in his 1982 recording) and Sinopoli (in his Santa Cecilia 1985 and 1995 performances) delved on a nearly hopeless view of life and of its conclusion; in his 2008 Santa Cecilia conducting, Dudamel exceeded on the most vibrant themes and colors. In the June 5th performance, Christian Arming had the appropriate balance in showing the nearly circular underlying structure of the Symphony. He started the first movement with impetus but then almost naturally slid into a delicate lyricism which underscores, more than usually done, the intertwined marches preceding the allegro moderato at the end of the movement. Impetus, lyricism and intertwined marches emphasize pantheism as the root to the symphony. Armin handles the minuet (which opens the five movements of the second of the symphony) with elegance mixed with a bit of irony. A slightly jokingly approach is also in the third movement (excellent Andrea Lucchi at the off scene postman’s horn); the atmosphere is that of a happy travel – the life’s travel. In the “mysterious” fourth movements, the alto soloist, Sara Mingardo (with a large register and a perfect fraseggio), reminds all of us that there is no joy, not even the happy travel of life, without sufferings –the real chore of the symphony. The dramatic tension evolves into the explosion of joy in the fifth movements ; the chorus masters, Ciro Visco and José Maria Sciutto, and all the chorus elements deserve to be complemented . In the tricky sixth and final moments, Armin slows gently the tempos for the diminuendo after a concise reminder of the pantheistic flair of the first movement. Very different conducting as compared with that of Dudamel in 2008. Also Armin has a gracious gesture and contains his left harm .
Ten minutes of accolades followed that 110 minutes of the symphony.
Barenboim's 'Das Rheingold' at La Scala, in Music & Vision del 22 maggio
High Expectations
Barenboim's 'Das Rheingold' at La Scala,
reviewed by GIUSEPPE PENNISI
If the morning sky is an indication of what the weather will be during the rest of the day, Das Rheingold, seen by your reviewer at the Teatro alla Scala, Milan, Italy on 19 May 2010, anticipates a rather dull Ring. This is regrettable because the new joint production by Milan's major opera house and Berlin's Staatsoper unter den Linden has been much awaited in the music world for nearly two years. The program involves presenting one opera per year -- first in Milan, then in Berlin -- and to show the full cycle in Spring 2013 as part of Wagner's bicentennial celebrations.
The expectations were high because, during the last few years, some very good new productions of The Ring have been seen. Over the last five years, your reviewer has seen and listened to at least four new better-than-average productions of what is generally considered a scary enterprise for a theatre manager: a huge orchestra, thirty soloists, and many transformations of stage sets. The four are in this order: the intimate yet grand Aix-Salzburg-Berlin Philharmoniker production, the Köln-Venice production, the Florence-Valencia production and the Erl production.
A scene from 'Das Rheingold'. Photo © 2010 Brescia e Amisano - Teatro alla Scala
From La Scala teaming up with the Staatsoper, a reviewer would expect something at least of the average level of these recent productions, and not something like the rather hilarious Ring staged in Lisbon or the very first attempt to produce a Russian Ring in St Petersburg -- both less than fully satisfactory operations. Most of the problems of this Milan-Berlin Das Rheingold have to do with the stage direction, the stage sets, the rather bleak lighting and the crowd of dancers and mimes on stage. It would be advisable to think them through and make appropriate arrangements before Die Walküre is shown on 7 December 2010 as inaugural offerings for the next La Scala season.
A scene from 'Das Rheingold'. Photo © 2010 Brescia e Amisano - Teatro alla Scala
The Ring cycle is a work of extraordinary scale. Perhaps the most outstanding facet of the monumental work is its sheer length: a full performance of the cycle takes place over four nights at the opera, with a total playing time of about fifteen hours, depending on the conductor's pacing. The first and shortest opera, Das Rheingold, typically lasts two and a half hours, while the final and longest, Götterdämmerung, takes up four and a half hours. The cycle is patterned after ancient Greek theatre: three tragedies and one satyr play to be presented in a single day from morning to sunset. The Ring proper begins with Die Walküre and ends with Götterdämmerung, with Rheingold as a prelude. Wagner called Das Rheingold a Vorabend or 'Preliminary Evening', and Die Walküre, Siegfried and Götterdämmerung were subtitled First Day, Second Day and Third Day, respectively, of the trilogy proper.
Wolfgang Ablinger-Sperrhacke as Mime and Stephan Rügamer as Loge in 'Das Rheingold'. Photo © 2010 Brescia e Amisano - Teatro alla Scala
The scale and scope of the story is epic. It follows the struggles of gods, heroes and several mythical creatures over the eponymous magic ring that grants domination over the entire world. The drama and intrigue continue through three generations of protagonists, until the final cataclysm at the end of Götterdämmerung.
Johannes Martin Kränzle as Alberich and Stephan Rügamer as Loge in 'Das Rheingold'. Photo © 2010 Brescia e Amisano - Teatro alla Scala
The music of the cycle is thick and richly textured, and grows in complexity as the cycle proceeds. Wagner wrote for an orchestra of gargantuan proportions, including a greatly enlarged brass section with new instruments such as the Wagner tuba, bass trumpet and contrabass trombone. Beginners may wish to approach The Ring with the now classic booklet by Max Chop, printed in Saxony several decades ago and re-printed many times in several languages with a Pierre Boulez's foreword. As the cycle is based on complex myths, I suggest also reading Robert Donington's Wagner's Ring and its Symbols.
René Pape as Wotan and Doris Soffel as Fricka in 'Das Rheingold'. Photo © 2010 Brescia e Amisano - Teatro alla Scala
These old texts are more useful than the many essays in the thick La Scala book where emphasis is placed on the 'political meaning' the stage director Guy Cassiers intends to give to his (and our) reading of The Ring: a revolt of the excluded from capitalistic globalization. Firstly, this is a rather old way to approach Wagner. Secondly, I could not see politics in the rather tacky staging, unless one gives a political meaning to showing Valhalla (the Castle of the Gods) as a rock concert venue. Or is it political, or politically correct, to present the Rhine as a highly polluted river (already a few thousand years ago)? Also, why crowd the stage with dancers, mimes and 'doubles' of the already numerous characters? Guy Cassiers (and his team) are the worst offenders of this production, which, we hope, will be greatly corrected before we see Die Walküre in December.
A scene from 'Das Rheingold'. Photo © 2010 Brescia e Amisano - Teatro alla Scala
The musical aspects have a different and higher level. This month, every Tuesday night, an Italian television channel shows the Ring which Daniel Barenboim conducted in Bayreuth nineteen years ago, with modernistic Kupfer staging. That was excellent and very dramatic conducting. From Daniel Barenboim, nobody would expect Boulez's fast pacing, Solti's elegance, von Karajan's flair for landscape and nature or Mehta's lyricism. But one can expect passion, yet with strict adherence to the score, starting with the magic prelude where the music builds up in E flat major, and the tonic sound reaches abysmal depths before an arpeggio movement, an embryonic motive, becomes genuinely melodic, and a sense of timelessness sets in. From the key of E flat major, we feel that he is at ease with the score, but now his reading is, at the same time, quietly lyrical and dry.
Doris Soffel as Fricka, René Pape as Wotan, Marco Jentzsch as Froh and Jan Buchwald as Donner in 'Das Rheingold'. Photo © 2010 Brescia e Amisano - Teatro alla Scala
Barenboim works with a very good orchestra and an extraordinary cast. On the women's front, the three main protagonists -- Doris Soffel, Anna Samuil and Anna Larsson -- are superb. René Pape is an imposing Wotan. Stephan Rügamer and Wolfgang Ablinger-Sperracke are the treacherous Loge and Mime, and Johannes Martin Kränzle sings Alberich. All the minor roles are very well sung and acted.
Copyright © 22 May 2010 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy
RICHARD WAGNER
DAS RHEINGOLD
DANIEL BARENBOIM
LA SCALA
MILAN
BERLIN
ITALY
GERMANY
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Barenboim's 'Das Rheingold' at La Scala,
reviewed by GIUSEPPE PENNISI
If the morning sky is an indication of what the weather will be during the rest of the day, Das Rheingold, seen by your reviewer at the Teatro alla Scala, Milan, Italy on 19 May 2010, anticipates a rather dull Ring. This is regrettable because the new joint production by Milan's major opera house and Berlin's Staatsoper unter den Linden has been much awaited in the music world for nearly two years. The program involves presenting one opera per year -- first in Milan, then in Berlin -- and to show the full cycle in Spring 2013 as part of Wagner's bicentennial celebrations.
The expectations were high because, during the last few years, some very good new productions of The Ring have been seen. Over the last five years, your reviewer has seen and listened to at least four new better-than-average productions of what is generally considered a scary enterprise for a theatre manager: a huge orchestra, thirty soloists, and many transformations of stage sets. The four are in this order: the intimate yet grand Aix-Salzburg-Berlin Philharmoniker production, the Köln-Venice production, the Florence-Valencia production and the Erl production.
A scene from 'Das Rheingold'. Photo © 2010 Brescia e Amisano - Teatro alla Scala
From La Scala teaming up with the Staatsoper, a reviewer would expect something at least of the average level of these recent productions, and not something like the rather hilarious Ring staged in Lisbon or the very first attempt to produce a Russian Ring in St Petersburg -- both less than fully satisfactory operations. Most of the problems of this Milan-Berlin Das Rheingold have to do with the stage direction, the stage sets, the rather bleak lighting and the crowd of dancers and mimes on stage. It would be advisable to think them through and make appropriate arrangements before Die Walküre is shown on 7 December 2010 as inaugural offerings for the next La Scala season.
A scene from 'Das Rheingold'. Photo © 2010 Brescia e Amisano - Teatro alla Scala
The Ring cycle is a work of extraordinary scale. Perhaps the most outstanding facet of the monumental work is its sheer length: a full performance of the cycle takes place over four nights at the opera, with a total playing time of about fifteen hours, depending on the conductor's pacing. The first and shortest opera, Das Rheingold, typically lasts two and a half hours, while the final and longest, Götterdämmerung, takes up four and a half hours. The cycle is patterned after ancient Greek theatre: three tragedies and one satyr play to be presented in a single day from morning to sunset. The Ring proper begins with Die Walküre and ends with Götterdämmerung, with Rheingold as a prelude. Wagner called Das Rheingold a Vorabend or 'Preliminary Evening', and Die Walküre, Siegfried and Götterdämmerung were subtitled First Day, Second Day and Third Day, respectively, of the trilogy proper.
Wolfgang Ablinger-Sperrhacke as Mime and Stephan Rügamer as Loge in 'Das Rheingold'. Photo © 2010 Brescia e Amisano - Teatro alla Scala
The scale and scope of the story is epic. It follows the struggles of gods, heroes and several mythical creatures over the eponymous magic ring that grants domination over the entire world. The drama and intrigue continue through three generations of protagonists, until the final cataclysm at the end of Götterdämmerung.
Johannes Martin Kränzle as Alberich and Stephan Rügamer as Loge in 'Das Rheingold'. Photo © 2010 Brescia e Amisano - Teatro alla Scala
The music of the cycle is thick and richly textured, and grows in complexity as the cycle proceeds. Wagner wrote for an orchestra of gargantuan proportions, including a greatly enlarged brass section with new instruments such as the Wagner tuba, bass trumpet and contrabass trombone. Beginners may wish to approach The Ring with the now classic booklet by Max Chop, printed in Saxony several decades ago and re-printed many times in several languages with a Pierre Boulez's foreword. As the cycle is based on complex myths, I suggest also reading Robert Donington's Wagner's Ring and its Symbols.
René Pape as Wotan and Doris Soffel as Fricka in 'Das Rheingold'. Photo © 2010 Brescia e Amisano - Teatro alla Scala
These old texts are more useful than the many essays in the thick La Scala book where emphasis is placed on the 'political meaning' the stage director Guy Cassiers intends to give to his (and our) reading of The Ring: a revolt of the excluded from capitalistic globalization. Firstly, this is a rather old way to approach Wagner. Secondly, I could not see politics in the rather tacky staging, unless one gives a political meaning to showing Valhalla (the Castle of the Gods) as a rock concert venue. Or is it political, or politically correct, to present the Rhine as a highly polluted river (already a few thousand years ago)? Also, why crowd the stage with dancers, mimes and 'doubles' of the already numerous characters? Guy Cassiers (and his team) are the worst offenders of this production, which, we hope, will be greatly corrected before we see Die Walküre in December.
A scene from 'Das Rheingold'. Photo © 2010 Brescia e Amisano - Teatro alla Scala
The musical aspects have a different and higher level. This month, every Tuesday night, an Italian television channel shows the Ring which Daniel Barenboim conducted in Bayreuth nineteen years ago, with modernistic Kupfer staging. That was excellent and very dramatic conducting. From Daniel Barenboim, nobody would expect Boulez's fast pacing, Solti's elegance, von Karajan's flair for landscape and nature or Mehta's lyricism. But one can expect passion, yet with strict adherence to the score, starting with the magic prelude where the music builds up in E flat major, and the tonic sound reaches abysmal depths before an arpeggio movement, an embryonic motive, becomes genuinely melodic, and a sense of timelessness sets in. From the key of E flat major, we feel that he is at ease with the score, but now his reading is, at the same time, quietly lyrical and dry.
Doris Soffel as Fricka, René Pape as Wotan, Marco Jentzsch as Froh and Jan Buchwald as Donner in 'Das Rheingold'. Photo © 2010 Brescia e Amisano - Teatro alla Scala
Barenboim works with a very good orchestra and an extraordinary cast. On the women's front, the three main protagonists -- Doris Soffel, Anna Samuil and Anna Larsson -- are superb. René Pape is an imposing Wotan. Stephan Rügamer and Wolfgang Ablinger-Sperracke are the treacherous Loge and Mime, and Johannes Martin Kränzle sings Alberich. All the minor roles are very well sung and acted.
Copyright © 22 May 2010 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy
RICHARD WAGNER
DAS RHEINGOLD
DANIEL BARENBOIM
LA SCALA
MILAN
BERLIN
ITALY
GERMANY
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ACHTUNG EUROPA!L’EXPORT DI BERLINO CELA UN “MAL TEDESCO” in Il Foglio del 27 luglio
ACHTUNG EUROPA!L’EXPORT DI BERLINO CELA UN “MAL TEDESCO”
Giuseppe Pennisi
E’ il “Club Med” (Grecia, Italia, Portogallo, Spagna), con la sua propensione all’inflazione ed alla spesa pubblica, la mina vagante della moneta unica? Lo sono i “Pigs” (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna) le cui difficoltà strutturali e le cui abilità a taroccato i conti sono stati messi a nudo dalla crisi finanziaria?
Si sta facendo strada una nuova ipotesi: i danni di lungo periodo della moneta unica (quali che siano i suoi alti e bassi di breve periodo) sarebbero collegati ad un secolare “mal tedesco” – la tendenza dell’Impero guglielmino, del Reich hitleriano, e della Repubblica Federale (quale che ne siano la maggioranza e il Cancelliere) di crescere al traino delle esportazioni. In un mercato mondiale in cui il costo del lavoro per unità di prodotto (Clup) è una determinante importante della quota che ciascuno riesce ad accaparrare, ciò comporta un deprezzamento mascherato strisciante della propria moneta. In un’unione monetaria, le monete che si deprezzano portano guai a tutti.
Secondo la più recente tornata di dati dei 20 maggiori istituti econometrici , la Germania ha un tasso di crescita (il 2% l’anno) pari al doppio della media dell’area dell’euro, un saggio d’aumento della produzione industriale che in maggio è stato del 12,4% (rispetto a 12 mesi prima), un saldo attivo della bilancia dei pagamenti di pari a 5% del Pil, circa 200 miliardi eurodi export l’anno. Ciò non vuole dire, però, che l’export del “made in Germany” traini il resto d’Europa: la molla sottostante le esportazioni tedesche è il contenimento dei salari – e, quindi, dei consumi e degli investimenti . Quindi, gli effetti indiretti di crescita dei successi dell’export tedesco sul resto dell’Eurozona sono modesti.
In termini reali i salari tedeschi non sono aumentati dal 1990. In una prima fase, a ciò ha contribuito l’assorbimento di tre milioni di lavoratori dei Länder orientali da riqualificare perché raggiungessero livelli d’efficienza analoghi a quelli dei Länder occidentale. In una seconda fase, la strategia di contenimento dei salari può essere letta come un ritorno al “mal tedesco” di ricerca di “uno spazio vitale” all’estero , in via commerciale, comprimendo la domanda interna. Ciò comporta una progressiva erosione del Clup; dato che il Clup ha forti nessi con il valore internazionale della moneta, ciò vuol dire un graduale deprezzamento dell’euro “made in Germany” (e dei Paesi più strettamente collegati a Berlino, quali l’Austria ed il Benelux) rispetto all’euro “made” nel “Club Med” e nei “Pigs”. Alla lunga ciò comporta tensioni che possono diventare lacerazioni. Il divario tra l’andamento del Clup in Germania (e nei suoi satelliti) è documento nelle statistiche Eurostat ed Ocse. Da qualche settimana economisti della statura di Martin Feldstein (che aveva profetizzato tempi duri per l’euro nel 1997 su “Foreign Affairs) sottolineano che il perdurare di questa tendenza metterà in crisi, prima o poi, l’area. A fine luglio, un grido d’allarme è venuto anche da un lavoro interno della Banca centrale spagnola.
Cosa suggerire? In primo luogo, l’Eurogruppo dovrebbe cominciare a dare maggiore attenzione al “mal tedesco”. In secondo luogo, il Consiglio della Banca centrale europea (Bce) che è spesso intervenuto sulle politiche strutturali (e salariali), dovrebbe mettere il tema al centro della propria agenda. Pure sulla base di analisi puntuali del servizio studi Bce. In breve, un po’ di “moral suasion”. Senza una politica economica dell’Eurozona non si può fare di più.
Giuseppe Pennisi
E’ il “Club Med” (Grecia, Italia, Portogallo, Spagna), con la sua propensione all’inflazione ed alla spesa pubblica, la mina vagante della moneta unica? Lo sono i “Pigs” (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna) le cui difficoltà strutturali e le cui abilità a taroccato i conti sono stati messi a nudo dalla crisi finanziaria?
Si sta facendo strada una nuova ipotesi: i danni di lungo periodo della moneta unica (quali che siano i suoi alti e bassi di breve periodo) sarebbero collegati ad un secolare “mal tedesco” – la tendenza dell’Impero guglielmino, del Reich hitleriano, e della Repubblica Federale (quale che ne siano la maggioranza e il Cancelliere) di crescere al traino delle esportazioni. In un mercato mondiale in cui il costo del lavoro per unità di prodotto (Clup) è una determinante importante della quota che ciascuno riesce ad accaparrare, ciò comporta un deprezzamento mascherato strisciante della propria moneta. In un’unione monetaria, le monete che si deprezzano portano guai a tutti.
Secondo la più recente tornata di dati dei 20 maggiori istituti econometrici , la Germania ha un tasso di crescita (il 2% l’anno) pari al doppio della media dell’area dell’euro, un saggio d’aumento della produzione industriale che in maggio è stato del 12,4% (rispetto a 12 mesi prima), un saldo attivo della bilancia dei pagamenti di pari a 5% del Pil, circa 200 miliardi eurodi export l’anno. Ciò non vuole dire, però, che l’export del “made in Germany” traini il resto d’Europa: la molla sottostante le esportazioni tedesche è il contenimento dei salari – e, quindi, dei consumi e degli investimenti . Quindi, gli effetti indiretti di crescita dei successi dell’export tedesco sul resto dell’Eurozona sono modesti.
In termini reali i salari tedeschi non sono aumentati dal 1990. In una prima fase, a ciò ha contribuito l’assorbimento di tre milioni di lavoratori dei Länder orientali da riqualificare perché raggiungessero livelli d’efficienza analoghi a quelli dei Länder occidentale. In una seconda fase, la strategia di contenimento dei salari può essere letta come un ritorno al “mal tedesco” di ricerca di “uno spazio vitale” all’estero , in via commerciale, comprimendo la domanda interna. Ciò comporta una progressiva erosione del Clup; dato che il Clup ha forti nessi con il valore internazionale della moneta, ciò vuol dire un graduale deprezzamento dell’euro “made in Germany” (e dei Paesi più strettamente collegati a Berlino, quali l’Austria ed il Benelux) rispetto all’euro “made” nel “Club Med” e nei “Pigs”. Alla lunga ciò comporta tensioni che possono diventare lacerazioni. Il divario tra l’andamento del Clup in Germania (e nei suoi satelliti) è documento nelle statistiche Eurostat ed Ocse. Da qualche settimana economisti della statura di Martin Feldstein (che aveva profetizzato tempi duri per l’euro nel 1997 su “Foreign Affairs) sottolineano che il perdurare di questa tendenza metterà in crisi, prima o poi, l’area. A fine luglio, un grido d’allarme è venuto anche da un lavoro interno della Banca centrale spagnola.
Cosa suggerire? In primo luogo, l’Eurogruppo dovrebbe cominciare a dare maggiore attenzione al “mal tedesco”. In secondo luogo, il Consiglio della Banca centrale europea (Bce) che è spesso intervenuto sulle politiche strutturali (e salariali), dovrebbe mettere il tema al centro della propria agenda. Pure sulla base di analisi puntuali del servizio studi Bce. In breve, un po’ di “moral suasion”. Senza una politica economica dell’Eurozona non si può fare di più.
Nella "battaglia di Serbia" il futuro di Marchionne Ffwebmagazine 26 luglio
L'Analisi
La posta in gioco è alta e l'Italia non può stare a guardare
Nella "battaglia di Serbia"
il futuro di Marchionne
di Giuseppe Pennisi Agli economisti non si addice emettere sentenze o formulare giudizi. Il loro compito è quello di analizzare temi e problemi da cui altri (politici, opinione pubblica) possano trarre elementi per le loro valutazioni.
Qualche mese fa ci chiedevamo se la Fiat fosse ancora italiana, nonostante sia stata l’azienda che maggior supporto ha avuto dai contribuenti della nazione non solamente tramite aiuti diretti e indiretti ma principalmente grazie a una politica dei trasporti che ha favorito la gomma (l’autostrada) al binario (la ferrovia). La domanda veniva formulata nei giorni in cui l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, poneva tutta la sua attenzione e tutte le sue energie in una strategia volta ad acquistare rami d’azienda in Germania, dopo averne ottenuti negli Stati Uniti, e faceva intendere che avrebbe abbandonato gli impianti di Termini Imerese a un destino né lieto né glorioso.
Oggi, si può dare una risposta chiara: la Fiat si considera una multinazionale il cui cervello è sempre più a Detroit e sempre meno in quella Torino che pure è nel suo nome e nella sua ragione sociale. L’italo-canadese Sergio Marchionne è sempre più simile a Salim il protagonista di A Bend in the River, del Premio Nobel Naipaul Salim, mussulmano indiano cresciuto in una grande città dell’Africa centrale, non ha né patria né comunità di interessi (che non sia il suo negozio). Il libro è notissimo per la sua frase iniziale: «The world is what it is; men who are nothing, who allow themselves to become nothing, have no place in it». (Il mondo è quello che è; coloro che sono nulla o che permettono di essere considerati nulla, non vi hanno posto).
Al pari di Salim. Marchionne è scaramantico: il suo golfino nero è un porta fortuna e si sentirà a disagio se il 28 luglio dovrà abbandonarlo per mettere giacca e cravatta. Sa, infatti, che “la battaglia di Serbia” è, per lui, come fu “la campagna di Russia” per Napoleone. Se la perde, è sconfitto su tutti gli altri fronti. Al pari di Napoleone, la lancia dopo la vittoria a Pomigliano (la sua Austerlitz), nella consapevolezza che è in gioco la sua credibilità come collezionista di vittorie.
Nella “battaglia di Serbia” ha contro di sé un armata trasversale: in Italia, da destra e da sinistra si sono levate voci contro un progetto che penalizzerebbe pesantemente l’occupazione non solamente in Piemonte e frenerebbe il progresso tecnologico. Da Bruxelles non si vede di buon occhio il potenziale utilizzo di fondi Bei (quindi, aiuti di Stato) per facilitare la delocalizzazione da uno Stato membro dell’Ue ad uno che aspira a esserlo. Gli stessi azionisti di riferimento (la famiglia Agnelli) devono in queste ore nutrire forti perplessità.
Ci sono vari modi per migliorare produttività e competitività degli impianti italiani, senza necessariamente giungere a costi del lavoro per unità di prodotto pari a quelli della Serbia. Occorre chiedersi se questi modi sono stati studiati e analizzati; è necessario un dibattito pubblico pacato e trasparente, recependo, se del caso, suggerimenti e consigli che non appartengono alla ristrettissima schiera dei collaboratori del “canadese”.
Per Marchionne la posta è alta; se perde, finisce un mito costruito abilmente dai media nel giro di pochi anni. E potrebbe ritrovarsi a Toronto alla ricerca di nuove attività. La posta è alta sopratutto per la nazione Italia che ha il dovere, prima ancora del diritto, di chiedere le carte per valutare quali alternative sono state esaminate e con quali esiti.
26 luglio 2010
La posta in gioco è alta e l'Italia non può stare a guardare
Nella "battaglia di Serbia"
il futuro di Marchionne
di Giuseppe Pennisi Agli economisti non si addice emettere sentenze o formulare giudizi. Il loro compito è quello di analizzare temi e problemi da cui altri (politici, opinione pubblica) possano trarre elementi per le loro valutazioni.
Qualche mese fa ci chiedevamo se la Fiat fosse ancora italiana, nonostante sia stata l’azienda che maggior supporto ha avuto dai contribuenti della nazione non solamente tramite aiuti diretti e indiretti ma principalmente grazie a una politica dei trasporti che ha favorito la gomma (l’autostrada) al binario (la ferrovia). La domanda veniva formulata nei giorni in cui l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, poneva tutta la sua attenzione e tutte le sue energie in una strategia volta ad acquistare rami d’azienda in Germania, dopo averne ottenuti negli Stati Uniti, e faceva intendere che avrebbe abbandonato gli impianti di Termini Imerese a un destino né lieto né glorioso.
Oggi, si può dare una risposta chiara: la Fiat si considera una multinazionale il cui cervello è sempre più a Detroit e sempre meno in quella Torino che pure è nel suo nome e nella sua ragione sociale. L’italo-canadese Sergio Marchionne è sempre più simile a Salim il protagonista di A Bend in the River, del Premio Nobel Naipaul Salim, mussulmano indiano cresciuto in una grande città dell’Africa centrale, non ha né patria né comunità di interessi (che non sia il suo negozio). Il libro è notissimo per la sua frase iniziale: «The world is what it is; men who are nothing, who allow themselves to become nothing, have no place in it». (Il mondo è quello che è; coloro che sono nulla o che permettono di essere considerati nulla, non vi hanno posto).
Al pari di Salim. Marchionne è scaramantico: il suo golfino nero è un porta fortuna e si sentirà a disagio se il 28 luglio dovrà abbandonarlo per mettere giacca e cravatta. Sa, infatti, che “la battaglia di Serbia” è, per lui, come fu “la campagna di Russia” per Napoleone. Se la perde, è sconfitto su tutti gli altri fronti. Al pari di Napoleone, la lancia dopo la vittoria a Pomigliano (la sua Austerlitz), nella consapevolezza che è in gioco la sua credibilità come collezionista di vittorie.
Nella “battaglia di Serbia” ha contro di sé un armata trasversale: in Italia, da destra e da sinistra si sono levate voci contro un progetto che penalizzerebbe pesantemente l’occupazione non solamente in Piemonte e frenerebbe il progresso tecnologico. Da Bruxelles non si vede di buon occhio il potenziale utilizzo di fondi Bei (quindi, aiuti di Stato) per facilitare la delocalizzazione da uno Stato membro dell’Ue ad uno che aspira a esserlo. Gli stessi azionisti di riferimento (la famiglia Agnelli) devono in queste ore nutrire forti perplessità.
Ci sono vari modi per migliorare produttività e competitività degli impianti italiani, senza necessariamente giungere a costi del lavoro per unità di prodotto pari a quelli della Serbia. Occorre chiedersi se questi modi sono stati studiati e analizzati; è necessario un dibattito pubblico pacato e trasparente, recependo, se del caso, suggerimenti e consigli che non appartengono alla ristrettissima schiera dei collaboratori del “canadese”.
Per Marchionne la posta è alta; se perde, finisce un mito costruito abilmente dai media nel giro di pochi anni. E potrebbe ritrovarsi a Toronto alla ricerca di nuove attività. La posta è alta sopratutto per la nazione Italia che ha il dovere, prima ancora del diritto, di chiedere le carte per valutare quali alternative sono state esaminate e con quali esiti.
26 luglio 2010
domenica 25 luglio 2010
NEL MONDO GLOBALIZZATO IL NODO E’ IL COSTO DEL LAVORO Avvenire 25 luglio
NEL MONDO GLOBALIZZATO IL NODO E’ IL COSTO DEL LAVORO
Giuseppe Pennisi
Il “caso Fiat” – i nodi di Pomigliano d’Arco e Termini Imerese, prima, e la proposta, poi, di de-localizzare la produzione della monovolume “Zero” da Mirafiori ad impianti in Serbia – è un’indicazione concreta, tra le tante, di come siano cambiate le strutture e le politiche economiche negli ultimi cinquant’anni. Nel 1953, il Presidente e Amministratore Delegato della General Motors, Charles Edwin Wilson, pronunciava di fronte ad una Commissione del Senato Usa la frase : What is good for GM, it is good for the Usa (“Quel che è bene per la GM, è bene per gli Stati Uniti). Allora la GM era il maggiore datore di lavoro al mondo. (er circa un secolo, c’è stato un considerevole grado di convergenza tra gli interessi della FIAT e quelli della società italiana (in gergo, gli economisti parlerebbero di funzione di benessere sociale) . La FIAT è stato il motore dell’industrializzazione del Paese, e per decenni, anche la punta tecnologica più avanzata. Dato che ciò era in linea con la trasformazione da economia agraria ad industriale a cui aspirava l’Italia, non solo la FIAT ha usufruito di generosi apporti dai contribuenti ma soprattutto la politica italiana è stata orientata verso il trasporto su gomma invece che verso su quello su rotaia. I contribuenti hanno pure supportato azioni specifiche dell’azienda per portare l’industrializzazione nel Mezzogiorno.
Gradualmente, a ragione del processo d’integrazione economica internazionale (chiamato, in gergo giornalistico, la globalizzazione) è cambiata la struttura e del mercato mondiale e dell’industria dell’auto. In un saggio di vent’anni fa, notavo che già allora, prima ancora cioè dell’accelerazione del processo d’integrazione dell’economia mondiale, una Ford Escort montata negli impianti di Halewood in Gran Bretagna o di Saarlius nella Repubblica Federale Tedesca conteneva parti prodotte nel Regno Unito, in Belgio, nei Paesi Bassi, in Svezia, Norvegia, Danimarca, Germania federale, Austria, Giappone, Italia, Spagna, Stati Uniti, Canada e Francia; alla fine degli Anni Novanta, un'automobile ad essa analoga conteneva in misura crescente parti prodotte nei Paesi di nuova industrializzazione dell'Estremo Oriente e del Bacino del Pacifico e nei Paesi in transizione dell'Europa Centrale ed Orientale. Con la telematica, che ha fortemente ridotto le distanze di tempo e di spazio, le differenze di costi del lavoro per unità di prodotto (Clup) hanno cominciato a mordere (sui conti aziendali) sempre di più. E gli obietti dell’impresa a divergere con la funzione di benessere sociale.
Come riavvicinarli? Non si può più ricorrere ai contribuenti: essi non hanno più sangue da versare. Lo vietano comunque le regole europee in materia di aiuti di Stato (non solo di riequilibrio di bilancio). La vecchia, e spesso dimenticata scuola di finanza pubblica dell’inizio del secolo scorso – si pensi ai lavori di Benvenuto Griziotti- dimostrano che a ciascun sussidio corrisponde una regolamentazione equivalente.
I saggi di Griziotti dovrebbero essere la stella polare al tavole del 28 luglio: con una regolamentazione che riduca il differenziale tra Clup, si può fare molta strada, come dimostrano le recenti vicende di Pomigliano. Sta ad azienda e sindacati farla. Il Governo non può che indicarla. Una via possibile consiste nel ridurre , entro certi margini, il Clup rendendo, con la collaborazione dei sindacati, più efficienti i metodi di lavoro ed il loro contenuto in termini di capitale umano e sociale. Naturalmente, nello sfondo di questa ed altre questioni di politica economica c’è il cuneo fiscal-contributivo italiano, significativamente più alto della media Ue e quindi molto più elevato di quello in Paesi che ancora non fanno parte dell’Unione.
Giuseppe Pennisi
Il “caso Fiat” – i nodi di Pomigliano d’Arco e Termini Imerese, prima, e la proposta, poi, di de-localizzare la produzione della monovolume “Zero” da Mirafiori ad impianti in Serbia – è un’indicazione concreta, tra le tante, di come siano cambiate le strutture e le politiche economiche negli ultimi cinquant’anni. Nel 1953, il Presidente e Amministratore Delegato della General Motors, Charles Edwin Wilson, pronunciava di fronte ad una Commissione del Senato Usa la frase : What is good for GM, it is good for the Usa (“Quel che è bene per la GM, è bene per gli Stati Uniti). Allora la GM era il maggiore datore di lavoro al mondo. (er circa un secolo, c’è stato un considerevole grado di convergenza tra gli interessi della FIAT e quelli della società italiana (in gergo, gli economisti parlerebbero di funzione di benessere sociale) . La FIAT è stato il motore dell’industrializzazione del Paese, e per decenni, anche la punta tecnologica più avanzata. Dato che ciò era in linea con la trasformazione da economia agraria ad industriale a cui aspirava l’Italia, non solo la FIAT ha usufruito di generosi apporti dai contribuenti ma soprattutto la politica italiana è stata orientata verso il trasporto su gomma invece che verso su quello su rotaia. I contribuenti hanno pure supportato azioni specifiche dell’azienda per portare l’industrializzazione nel Mezzogiorno.
Gradualmente, a ragione del processo d’integrazione economica internazionale (chiamato, in gergo giornalistico, la globalizzazione) è cambiata la struttura e del mercato mondiale e dell’industria dell’auto. In un saggio di vent’anni fa, notavo che già allora, prima ancora cioè dell’accelerazione del processo d’integrazione dell’economia mondiale, una Ford Escort montata negli impianti di Halewood in Gran Bretagna o di Saarlius nella Repubblica Federale Tedesca conteneva parti prodotte nel Regno Unito, in Belgio, nei Paesi Bassi, in Svezia, Norvegia, Danimarca, Germania federale, Austria, Giappone, Italia, Spagna, Stati Uniti, Canada e Francia; alla fine degli Anni Novanta, un'automobile ad essa analoga conteneva in misura crescente parti prodotte nei Paesi di nuova industrializzazione dell'Estremo Oriente e del Bacino del Pacifico e nei Paesi in transizione dell'Europa Centrale ed Orientale. Con la telematica, che ha fortemente ridotto le distanze di tempo e di spazio, le differenze di costi del lavoro per unità di prodotto (Clup) hanno cominciato a mordere (sui conti aziendali) sempre di più. E gli obietti dell’impresa a divergere con la funzione di benessere sociale.
Come riavvicinarli? Non si può più ricorrere ai contribuenti: essi non hanno più sangue da versare. Lo vietano comunque le regole europee in materia di aiuti di Stato (non solo di riequilibrio di bilancio). La vecchia, e spesso dimenticata scuola di finanza pubblica dell’inizio del secolo scorso – si pensi ai lavori di Benvenuto Griziotti- dimostrano che a ciascun sussidio corrisponde una regolamentazione equivalente.
I saggi di Griziotti dovrebbero essere la stella polare al tavole del 28 luglio: con una regolamentazione che riduca il differenziale tra Clup, si può fare molta strada, come dimostrano le recenti vicende di Pomigliano. Sta ad azienda e sindacati farla. Il Governo non può che indicarla. Una via possibile consiste nel ridurre , entro certi margini, il Clup rendendo, con la collaborazione dei sindacati, più efficienti i metodi di lavoro ed il loro contenuto in termini di capitale umano e sociale. Naturalmente, nello sfondo di questa ed altre questioni di politica economica c’è il cuneo fiscal-contributivo italiano, significativamente più alto della media Ue e quindi molto più elevato di quello in Paesi che ancora non fanno parte dell’Unione.
LE MILLE VRTU’ DEL FESTIVAL DELLO SFERISTERIO IlTempo 25 luglio
LE MILLE VRTU’ DEL FESTIVAL DELLO SFERISTERIO
Giuseppe Pennisi
Il Festival dello Sferisterio a Macerata (29 luglio-10 agosto) è un primo significativo banco di prova poiché il Direttore Artistico Pierluigi Pizzi si è posto come obiettivo di offrire un cartellone vario (cinque opere ed un oratorio in forma scenica; quindi sei distinti spettacoli nell’arco di due settimane) , con interpreti di alta qualità ma a costi contenuti. Non è un festival monografico dedicato ad un autore (come quelli di Torre del Lago e di Pesaro imperniati rispettivamente su Puccini e Rossini) ma un festival “a tema”. Dopo “l’iniziazione”, “la seduzione” e “l’inganno” , nel 2010 il tema è “La Gran Gloria di Dio”. Da quattro anni, il Festival chiude i bilanci in leggero attivo, attirando quindi sponsor; può contare su circa 30.000 presenze (alta la percentuale di stranieri) ed un milione di euro d’incassi. E’ ancora da vedere se e come questa estate la crisi economica , che ha influito sulla biglietteria di festival all’estero di rango internazionale (come quelli di Aix en Provence e Salisburgo), avrà effetti sugli incassi.
Il Festival ha tre luoghi scenici: l’Auditorium San Paolo (ove avverrà l’inaugurazione con I Vespri della Beata Vergine di Monteverdi); la vasta Arena Sferisterio ed il piccolo e delizioso Teatro Lauro Rossi (capolavoro settecentesco dei Fratelli Bibiena). Dopo la serata inaugurale si seguono due strade parallele improntate a forte unità stilistica. La prima è centrata su tre notissimi melodrammi del XIX secolo: Faust di Gounod, La forza del destino e I Lombardi alla prima crociata di Verdi. Tanti sono i punti di contatto fra le tre opere, a cominciare dall’eterno conflitto tra il bene e il male, che Pizzi in persona assicurerà la continuità narrativa dei tre titoli, con un comune dispositivo scenico e designo dei costumi, utilizzando un unico coreografo (Gheorghe Iancu), un maestro concertatore francese (Jean-Luc Tingaud per Faust) ed uno solo italiano (Daniele Callegari) per le due opere verdiane.
Analogo procedimento al Lauro Rossi, secondo un’idea drammaturgica di Massimo Gasparon, autore di regia, scene e costumi, vengono apparentate concettualmente due opere fra loro distanti nel tempo ma di sorprendente affinità nell’impianto musicale e nello sviluppo delle trame. Si tratta di Juditha triumphans di Vivaldi del 1716 e di Attila di Verdi del 1846. La direzione musicale è posta nelle mani di Riccardo Frizza. Per rafforzare il carattere di questa operazione, la versione di Attila sarà proposta in una forma per così dire 'cameristica', in modo che le due opere abbiano uno stesso stile musicale e rappresentativo, e possano convivere in uno stesso dispositivo scenico. Economie , quindi, nelle scene e nei costumi.
Nei sei lavori, inoltre, viene utilizzato (in gran misura) lo stesso gruppo di artisti, affiancando giovani già di successo (come Teresa Romano e Zoran Todorovich) con cantanti di fama internazionale (Dmitra Theodossiou, Francesco Meli, Michele Pertusi) e specializzati nei ruoli specifici. Ciò consente di offrire allo stesso artista più rappresentazioni, riduzione i cachet per singola esecuzione.
Giuseppe Pennisi
Il Festival dello Sferisterio a Macerata (29 luglio-10 agosto) è un primo significativo banco di prova poiché il Direttore Artistico Pierluigi Pizzi si è posto come obiettivo di offrire un cartellone vario (cinque opere ed un oratorio in forma scenica; quindi sei distinti spettacoli nell’arco di due settimane) , con interpreti di alta qualità ma a costi contenuti. Non è un festival monografico dedicato ad un autore (come quelli di Torre del Lago e di Pesaro imperniati rispettivamente su Puccini e Rossini) ma un festival “a tema”. Dopo “l’iniziazione”, “la seduzione” e “l’inganno” , nel 2010 il tema è “La Gran Gloria di Dio”. Da quattro anni, il Festival chiude i bilanci in leggero attivo, attirando quindi sponsor; può contare su circa 30.000 presenze (alta la percentuale di stranieri) ed un milione di euro d’incassi. E’ ancora da vedere se e come questa estate la crisi economica , che ha influito sulla biglietteria di festival all’estero di rango internazionale (come quelli di Aix en Provence e Salisburgo), avrà effetti sugli incassi.
Il Festival ha tre luoghi scenici: l’Auditorium San Paolo (ove avverrà l’inaugurazione con I Vespri della Beata Vergine di Monteverdi); la vasta Arena Sferisterio ed il piccolo e delizioso Teatro Lauro Rossi (capolavoro settecentesco dei Fratelli Bibiena). Dopo la serata inaugurale si seguono due strade parallele improntate a forte unità stilistica. La prima è centrata su tre notissimi melodrammi del XIX secolo: Faust di Gounod, La forza del destino e I Lombardi alla prima crociata di Verdi. Tanti sono i punti di contatto fra le tre opere, a cominciare dall’eterno conflitto tra il bene e il male, che Pizzi in persona assicurerà la continuità narrativa dei tre titoli, con un comune dispositivo scenico e designo dei costumi, utilizzando un unico coreografo (Gheorghe Iancu), un maestro concertatore francese (Jean-Luc Tingaud per Faust) ed uno solo italiano (Daniele Callegari) per le due opere verdiane.
Analogo procedimento al Lauro Rossi, secondo un’idea drammaturgica di Massimo Gasparon, autore di regia, scene e costumi, vengono apparentate concettualmente due opere fra loro distanti nel tempo ma di sorprendente affinità nell’impianto musicale e nello sviluppo delle trame. Si tratta di Juditha triumphans di Vivaldi del 1716 e di Attila di Verdi del 1846. La direzione musicale è posta nelle mani di Riccardo Frizza. Per rafforzare il carattere di questa operazione, la versione di Attila sarà proposta in una forma per così dire 'cameristica', in modo che le due opere abbiano uno stesso stile musicale e rappresentativo, e possano convivere in uno stesso dispositivo scenico. Economie , quindi, nelle scene e nei costumi.
Nei sei lavori, inoltre, viene utilizzato (in gran misura) lo stesso gruppo di artisti, affiancando giovani già di successo (come Teresa Romano e Zoran Todorovich) con cantanti di fama internazionale (Dmitra Theodossiou, Francesco Meli, Michele Pertusi) e specializzati nei ruoli specifici. Ciò consente di offrire allo stesso artista più rappresentazioni, riduzione i cachet per singola esecuzione.
sabato 24 luglio 2010
Quando è la Germania a dar pensieri all'Eurozona FFwemagazine 24 luglio
Focus
Come ai tempi di Bismark "troppo grande e troppo piccola"
Quando è la Germania
a dar pensieri all'Eurozona
di Giuseppe Pennisi E alla fine, a poco più di dieci anni dalla creazione dell’unione monetaria, la Germania pare essere il pericolo maggiore alla stabilità della zona dell’euro. Questa ipotesi, che comincia a circolare anche nei corridoi della Banca centrale europea, ribalta l’assunto fatto per lustri da decine di anime belle, quello secondo cui i rischi all’unificazione monetaria europea sarebbe venuti dal “Club Med” (Italia, Spagna, Portogallo), a cui si è aggiunta la Grecia – società proclive all’inflazione, pubbliche amministrazioni votate all’intrallazzo, Governi amanti della spesa pubblica.
Cosa porta a ritenere che il quadro si sia ribaltato? Vediamo alcuni dati. La Germania sta uscendo dalla crisi a un tasso di crescita (il 2% l’anno) pari quasi al doppio della media dell’area dell’euro, un saggio d’aumento della produzione industriale che in maggio è stato del 12,4% (rispetto ai livelli segnati 12 mesi prima), un saldo attivo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti di 150 miliardi di euro nell’ultimo anno (ossia pari a 5% del Pil), circa 200 miliardi di export l’anno. In effetti sono le esportazioni a tirare la Repubblica Federale fuori dalla crisi. Ciò non vuole dire, però, che le esportazioni tedesche trainano dalla stagnazione il resto d’Europa. La Germania di oggi, infatti, condivide molte delle caratteristiche che aveva quando Otto Bismarck ne era il Cancelliere. È tanto grande che ciò che avviene nei suoi confini ha implicazioni molto serie per il resto d’Europa. Non è, però, sufficientemente grande da poter risolvere i problemi del resto d’Europa. Il Cancelliere Merkel è perfettamente consapevole del parallelismo; al pari di Bismarck cura i problemi tedeschi prima di quelli del resto d’Europa. In fin dei conti, la hanno eletta i tedeschi ed essi risponde.
Cose note, si potrebbe dire. Ed effetti, c’è solo un aspetto che merita di essere approfondito. Come mai la Germania che ha dovuto anche assorbire tre milioni di lavoratori che in 50 anni di comunismo non avevano proprio raggiunto alti livelli d’efficienza riesce a trainare se stessa con l’export? Grazie alla capacità delle sue industrie manifatturiere nelle chimica, nell’elettronica, nella metalmeccanica? È senza dubbio una componente importante. Ce ne è pure una seconda: negli ultimi dieci anni i salari medi reali non sono cresciuti, e negli ultimi tre anni sono diminuiti, mentre in molti altri paesi dell’Eurozona sono aumentati. Lo documento dati Ocse ed Ue nonché un recente studio della Banca centrale spagnola. Ciò vuol dire che il costo del lavoro per unità di prodotto è diminuito rispetto ad altri paesi dell’area dell’euro. In altri termini, l’euro tedesco si è deprezzato e, di conseguenza, il “made in Germany” ha un vantaggio competitivo rispetto a gran parte dell’Eurozona. Possono gli altri paesi neutralizzare questo effetto? Torniamo al parallelo con la Germania di Bismarck, al tempo stesso troppo grande e troppo piccola. Tuttavia, se l’andamento non cambia, il divario aumenta. E sarà difficile restare sotto lo stesso tetto monetario.
24 luglio 2010
Come ai tempi di Bismark "troppo grande e troppo piccola"
Quando è la Germania
a dar pensieri all'Eurozona
di Giuseppe Pennisi E alla fine, a poco più di dieci anni dalla creazione dell’unione monetaria, la Germania pare essere il pericolo maggiore alla stabilità della zona dell’euro. Questa ipotesi, che comincia a circolare anche nei corridoi della Banca centrale europea, ribalta l’assunto fatto per lustri da decine di anime belle, quello secondo cui i rischi all’unificazione monetaria europea sarebbe venuti dal “Club Med” (Italia, Spagna, Portogallo), a cui si è aggiunta la Grecia – società proclive all’inflazione, pubbliche amministrazioni votate all’intrallazzo, Governi amanti della spesa pubblica.
Cosa porta a ritenere che il quadro si sia ribaltato? Vediamo alcuni dati. La Germania sta uscendo dalla crisi a un tasso di crescita (il 2% l’anno) pari quasi al doppio della media dell’area dell’euro, un saggio d’aumento della produzione industriale che in maggio è stato del 12,4% (rispetto ai livelli segnati 12 mesi prima), un saldo attivo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti di 150 miliardi di euro nell’ultimo anno (ossia pari a 5% del Pil), circa 200 miliardi di export l’anno. In effetti sono le esportazioni a tirare la Repubblica Federale fuori dalla crisi. Ciò non vuole dire, però, che le esportazioni tedesche trainano dalla stagnazione il resto d’Europa. La Germania di oggi, infatti, condivide molte delle caratteristiche che aveva quando Otto Bismarck ne era il Cancelliere. È tanto grande che ciò che avviene nei suoi confini ha implicazioni molto serie per il resto d’Europa. Non è, però, sufficientemente grande da poter risolvere i problemi del resto d’Europa. Il Cancelliere Merkel è perfettamente consapevole del parallelismo; al pari di Bismarck cura i problemi tedeschi prima di quelli del resto d’Europa. In fin dei conti, la hanno eletta i tedeschi ed essi risponde.
Cose note, si potrebbe dire. Ed effetti, c’è solo un aspetto che merita di essere approfondito. Come mai la Germania che ha dovuto anche assorbire tre milioni di lavoratori che in 50 anni di comunismo non avevano proprio raggiunto alti livelli d’efficienza riesce a trainare se stessa con l’export? Grazie alla capacità delle sue industrie manifatturiere nelle chimica, nell’elettronica, nella metalmeccanica? È senza dubbio una componente importante. Ce ne è pure una seconda: negli ultimi dieci anni i salari medi reali non sono cresciuti, e negli ultimi tre anni sono diminuiti, mentre in molti altri paesi dell’Eurozona sono aumentati. Lo documento dati Ocse ed Ue nonché un recente studio della Banca centrale spagnola. Ciò vuol dire che il costo del lavoro per unità di prodotto è diminuito rispetto ad altri paesi dell’area dell’euro. In altri termini, l’euro tedesco si è deprezzato e, di conseguenza, il “made in Germany” ha un vantaggio competitivo rispetto a gran parte dell’Eurozona. Possono gli altri paesi neutralizzare questo effetto? Torniamo al parallelo con la Germania di Bismarck, al tempo stesso troppo grande e troppo piccola. Tuttavia, se l’andamento non cambia, il divario aumenta. E sarà difficile restare sotto lo stesso tetto monetario.
24 luglio 2010
Il sogno 101 Il Foglio 24 luglio
Giacinto Scelsi
(con un saggio introduttivo di Quirino Principe ed un omaggio di Sylvano Bussotti)
514 pp. Quodlibet , Fermo 2010 €38
Circa un anno fa, Il Foglio pubblicò un piccolo ritratto di Giacinto Scelsi, dandy per eccellenza della cultura italiana del Novecento a cui- particolare curioso- nell’autunno del 1947, l’allora ventottenne Giulio Andreotti, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, dedicò un lettera personale (manoscritta) di ringraziamento per il suo contributo alla Nazione . Scelsi ha attraversato tutto il Novecento (dalla nascita a La Spezia nel 1905 alla morte a Roma nel 1988), ha soggiornato a lungo a Parigi ( in stretto contatto con Jean Cocteau, Henri Michaux, Virginia Woolf, Walter Klein, Nikita Magaloff e Pierre Monteux) e, prudentemente, si è trasferito con la moglie in Svizzera durante il secondo conflitto mondiale per tornare a Roma a guerra terminata. E’diventato notissimo a livello internazionale sia nel mondo della musica– nel 2007 a Salisburgo gli è stato dedicato un intero festival – che in quello delle arti figurative. Schivo di carattere, in Italia è rimasto in una ristretta ma variegata cerchia di “addetti ai lavori” – musicisti, artisti e (immaginate!) cultori di spiritualismo orientale e di tecnologie d’avanguardia per coniugare i suoni dell’Asia con l’elettronica. Scelsi è ancora un enigma, nonostante la sua musica abbia influenzato intere generazioni in tutto il mondo ed il suo interesse per lo spiritualismo orientale sia stato precursore di movimenti sviluppatisi in Europa e negli Usa negli Anni Serranta.
“Il sogno 101”è la sua autobiografia. Un’autobiografia assolutamente non convenzionale come lo è stato il dandy per tutta la vita . La prima parte è una raccolta di scritti inediti (musicali, filosofici e mistici, nonché profili delle numerose persone con cui Scelsi è venuto in contatto); gran parte di questi lavori sono venuti alla luce riorganizzando il suo enorme archivio ed aprendolo agli studiosi. La seconda parte è un poema visionario, registrato nel 1980 su nastro ma mai pubblicato, in cui Scelsi traccia “l’autobiografia della sua prossima incarnazione”, un viaggio astratto verso l’eterno e l’immateriale dove luce, suono, forme ed immaterialità acquistano una dimensione onirica. L’opera, accompagnata da un ricco e rigoroso apparato critico per contestualizzarla nell’evoluzione biografica, storica ed artistica dell’avventura umana di Scelsi, ci interessa perché il suo autore, mai considerato parte dell’”intellighentsia” che ha egemonizzato l’Italia per alcuni decenni, ha rischiato di essere coperto da una coltre di oblio se una Fondazione creata per ricordarlo non tenesse aperto un museo in quella che fu la sua abitazione ed organizzasse raffinati concerti nella palazzina che, ai piedi del Campidoglio, sovrasta il Foro. La pubblicazione dell’autobiografia prova che in Italia non c’è stata per decenni solo un’”intellighenstia” alla carbonara ma anche una che gustava il Meursault bianco (per l’ateo Balzac il vino che induce al dubbio sull’esistenza di Dio) ed era considerata all’avanguardia nel resto d’Europa mentre il secolo crudele passava da una tragedia ad un’altra.
(con un saggio introduttivo di Quirino Principe ed un omaggio di Sylvano Bussotti)
514 pp. Quodlibet , Fermo 2010 €38
Circa un anno fa, Il Foglio pubblicò un piccolo ritratto di Giacinto Scelsi, dandy per eccellenza della cultura italiana del Novecento a cui- particolare curioso- nell’autunno del 1947, l’allora ventottenne Giulio Andreotti, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, dedicò un lettera personale (manoscritta) di ringraziamento per il suo contributo alla Nazione . Scelsi ha attraversato tutto il Novecento (dalla nascita a La Spezia nel 1905 alla morte a Roma nel 1988), ha soggiornato a lungo a Parigi ( in stretto contatto con Jean Cocteau, Henri Michaux, Virginia Woolf, Walter Klein, Nikita Magaloff e Pierre Monteux) e, prudentemente, si è trasferito con la moglie in Svizzera durante il secondo conflitto mondiale per tornare a Roma a guerra terminata. E’diventato notissimo a livello internazionale sia nel mondo della musica– nel 2007 a Salisburgo gli è stato dedicato un intero festival – che in quello delle arti figurative. Schivo di carattere, in Italia è rimasto in una ristretta ma variegata cerchia di “addetti ai lavori” – musicisti, artisti e (immaginate!) cultori di spiritualismo orientale e di tecnologie d’avanguardia per coniugare i suoni dell’Asia con l’elettronica. Scelsi è ancora un enigma, nonostante la sua musica abbia influenzato intere generazioni in tutto il mondo ed il suo interesse per lo spiritualismo orientale sia stato precursore di movimenti sviluppatisi in Europa e negli Usa negli Anni Serranta.
“Il sogno 101”è la sua autobiografia. Un’autobiografia assolutamente non convenzionale come lo è stato il dandy per tutta la vita . La prima parte è una raccolta di scritti inediti (musicali, filosofici e mistici, nonché profili delle numerose persone con cui Scelsi è venuto in contatto); gran parte di questi lavori sono venuti alla luce riorganizzando il suo enorme archivio ed aprendolo agli studiosi. La seconda parte è un poema visionario, registrato nel 1980 su nastro ma mai pubblicato, in cui Scelsi traccia “l’autobiografia della sua prossima incarnazione”, un viaggio astratto verso l’eterno e l’immateriale dove luce, suono, forme ed immaterialità acquistano una dimensione onirica. L’opera, accompagnata da un ricco e rigoroso apparato critico per contestualizzarla nell’evoluzione biografica, storica ed artistica dell’avventura umana di Scelsi, ci interessa perché il suo autore, mai considerato parte dell’”intellighentsia” che ha egemonizzato l’Italia per alcuni decenni, ha rischiato di essere coperto da una coltre di oblio se una Fondazione creata per ricordarlo non tenesse aperto un museo in quella che fu la sua abitazione ed organizzasse raffinati concerti nella palazzina che, ai piedi del Campidoglio, sovrasta il Foro. La pubblicazione dell’autobiografia prova che in Italia non c’è stata per decenni solo un’”intellighenstia” alla carbonara ma anche una che gustava il Meursault bianco (per l’ateo Balzac il vino che induce al dubbio sull’esistenza di Dio) ed era considerata all’avanguardia nel resto d’Europa mentre il secolo crudele passava da una tragedia ad un’altra.
TORRE DEL LAGO: INCANTA BUTTERFLY Milano Finaza 24 luglio
Giuseppe Pennisi
Dopo le polemiche sull’allestimento scenico di “La Fanciulla del West”, “Madama Butterfly”) ha trionfato del Festival Pucciniano a Torre del Lago (dove è in scena sino al 22 agosto). E’ una “Butterfly” particolare. Sia la regia (Vivien A. Hewitt) sia la direzione d’orchestra (Eve Queler) sono affidate a professioniste di grande valore. Eve Queler ha 79 anni; ha diretto raramente in Italia, ma è stata per decenni la Regina della Carnigie Hall a New York ed ha concertato ardue e rare opere wagneriane (quali “Rienzi”), nonché altri lavori affrontati da pochi. In questa edizione di “Butterfly” fornisce una vera e propria lezione di concertazione di una scrittura orchestrale estremamente complessa. Unitamente alla protagonista (Amarilli Nizza , una delle migliori Butterfly su piazza), la Hewitt e la Queler hanno dato una lettura del libretto e della partitura, al tempo stesso, più sensuale e più struggente del consueto . E’ giapponese l’autore delle semplicissime ed efficacissime scene ,Kan Yasuda. Lo spettacolo torna a Torre del Lago (dove ha debuttato nel 2005) dopo essere stato visto negli Stati Uniti, Germania e Giappone poiché pur se pensato per uno spazio all’aperto, si adatta facilmente a teatri al chiuso. Ciò consente non solo economie ma anche affinamenti. Nell’arco di cinque anni, questo allestimento della “tragedia giapponese” è diventato ancora più affascinante. Di buon livello, Massimiliano Pisapia (Pinkerton), Fabio Capitanucci (Sharpless) e gli altri sette solisti.
Dopo le polemiche sull’allestimento scenico di “La Fanciulla del West”, “Madama Butterfly”) ha trionfato del Festival Pucciniano a Torre del Lago (dove è in scena sino al 22 agosto). E’ una “Butterfly” particolare. Sia la regia (Vivien A. Hewitt) sia la direzione d’orchestra (Eve Queler) sono affidate a professioniste di grande valore. Eve Queler ha 79 anni; ha diretto raramente in Italia, ma è stata per decenni la Regina della Carnigie Hall a New York ed ha concertato ardue e rare opere wagneriane (quali “Rienzi”), nonché altri lavori affrontati da pochi. In questa edizione di “Butterfly” fornisce una vera e propria lezione di concertazione di una scrittura orchestrale estremamente complessa. Unitamente alla protagonista (Amarilli Nizza , una delle migliori Butterfly su piazza), la Hewitt e la Queler hanno dato una lettura del libretto e della partitura, al tempo stesso, più sensuale e più struggente del consueto . E’ giapponese l’autore delle semplicissime ed efficacissime scene ,Kan Yasuda. Lo spettacolo torna a Torre del Lago (dove ha debuttato nel 2005) dopo essere stato visto negli Stati Uniti, Germania e Giappone poiché pur se pensato per uno spazio all’aperto, si adatta facilmente a teatri al chiuso. Ciò consente non solo economie ma anche affinamenti. Nell’arco di cinque anni, questo allestimento della “tragedia giapponese” è diventato ancora più affascinante. Di buon livello, Massimiliano Pisapia (Pinkerton), Fabio Capitanucci (Sharpless) e gli altri sette solisti.
E NELLA ZONA EURO SI FANNO I CONTI : DIVIDERSI COSTA TROPPO Avvenire 24 luglio
Giuseppe Pennisi
E’ tutto calmo sul fronte dell’Eurozona? Lo dicono in molti, specialmente sui quotidiani finanziari. Ma guardano principalmente ad un dato: il rafforzamento del cambio dell’euro sul dollaro degli ultimi giorni. Nel frattempo, uno dei libri più venduti in Francia questa estate è il saggio di Alain Cotta “Sortir de l’Euro ou Mourir à Petit Feu” (“Uscire dell’euro o essere grigliati a fuoco lento”). La Repubblica Federale Tedesca ha appena presentato una bozza di articolare per mettere “ad amministrazione controllata” le politiche di bilancio dei Paesi i cui disavanzi e debiti mettono a rischio la moneta unica. Sulla base di dati Ocse e Bce, Simon Tilford, capo economista del pensatoio liberale “Centre for European Reform” ha dimostrato che negli ultimi dieci anni la Germania ha deprezzato il proprio euro rispetto a quelli di altri Paesi dell’area in quanto in termini reali i salari tedeschi, ed il costo del lavoro per unità di prodotto, è diminuito mentre in molti altri (Spagna, Portogallo,Francia, Italia) è aumentato. Prima o poi la sfasatura potrebbe comportare una separazione, più o meno consensuale.
I “Padri Fondatori” dell’euro seguirono l’esempio di Donna Letizia (al secolo Maria Letizia Ramolino), madre di Napoleone, rimasta nei libri di storia per l’intercalare “finché dura…” (lo ripeteva ogni volta una corona si posava sulla testa di uno dei suoi figli o delle sue figlie). Sul retro di ciascuna banconota della valuta unica , c’è un codice di identificazione di 11 cifre precedute da una lettera in maiuscolo (S per l’Italia) per individuare la Zecca che la ha emessa. Nelle pandette della Banca centrale europea (Bce), sono indicate, tra parentesi, anche le lettere identificatrici dei Paesi che fanno parte dell’Ue ma non dell’unione monetaria: se e quando sono in condizione di entrarvi e decidono di farlo, tutto è pronto per individuare cosa è stata stampato dalle Zecche di ciascuno di loro.
Ancora più palese la procedura per le monete metalliche (da quelle dei centesimi a quelle di uno o due euro) : ciascuna ha una “faccia nazionale” che mostra a tutto tondo quale Zecca dell’Eurozona la ha coniata. Le anime belle affermano che si tratta unicamente di “eleganza burocratica” per non fare del tutto perdere l’identità nazionale. Le anime un po’ meno pie sostengono che il marchingegno è un metodo di controllo per il Sistema Europeo di Banche Centrali (Sebc) e per la Bce al fine di evitare che qualche Zecca aumenti la massa monetaria più del dovuto ed inietti inflazione. Le anime maligne sussurrano che in effetti i “Padri Fondatori” hanno la memoria lunga: hanno visto il crollo di una dozzina di unioni monetarie (grandi e piccole) dalla fine della seconda guerra mondiale ed alcuni di loro rammentano quello dell’unione monetaria latina, nata tanto bene tra Italia, Francia, Belgio e Svizzera da tirarsi dietro Spagna,Grecia, Bulgaria, Austro-Ungheria, Stato Ponteficio, Serbia, San Marino e pure i lontanissimi Venezuela e Indie Occidentali danesi - prima di implodere ed essere sciolta (non- come si legge in molti manuali anche universitari- con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, ma nel 1927). I codici sarebbero una precauzione. Il rovescio della medaglia (per restare in tema) è che l’euro sarebbe un rischio calcolato:in caso di sfascio, si sa a quale Zecca rivolgersi per convertire gli euro nelle nuove monete di questo o quel Paese.
E’ un rischio immaginario? Nelle settimane tra fine aprile ed inizio maggio, quando la “crisi greca” era al suo apice, la secessione di uno o più Paesi dall’euro non è parsa un’eventualità puramente accademica. Si è davvero temuto per la tenuta dell’unione monetaria; e per questo motivo nel fine settimana dell’8-9 maggio è stata approntata una batteria di misure in sua difesa. Si è trattato di un episodio sporadico senza seguito o conseguenze? O dell’annuncio di una lunga estate calda che potrebbe sfociare in nuove tensioni nell’aria dell’euro? Oppure, dell’inizio di un progressivo processo di sgretolamento? Ad un Forum organizzato da “Il Sole-24 Ore” e moderato da Luigi Zingales dell’Università di Chicago molti si sono espressi in favore di un doppio euro: un euro 1 che sarebbe il nucleo duro dell’unione monetaria ed un euro 2 legato al prima da un accordo di cambio analogo a quello chiamato giornalisticamente Sistema monetario europeo (Sme), in vigore dal 1978 al 1999. Di recente, Charles Goodhart , della London School of Economics (a lungo principale consigliere economico della Bank of England) , ha , senza mezzi termini, fatto capire che si stanno facendo simulazioni (ovviamente riservate) di vari scenari.
Le banche del Sebc e la Bce negano decisamente d’essere al lavoro a simulare gli effetti di una ( o più) secessioni (od espulsioni) dall’euro. Gli operatori diffidano: ciò spiega in parte il crollo delle Borse, e dell’euro, il 29 giugno. Il nodo più difficile consiste nello stimare “i costi di transazione” sia per chi se ne va (o è cacciato) sia per chi resta. C’è, infatti, poca evidenza empirica in quanto nulla si sa del caso più recente: il collasso dell’unione monetaria dell’Urss. Ci sono dati limitati della fine di due unioni monetarie: quella tra Singapore e Malesia nel 1965 e quella dell’Africa Orientale (Kenya, Tanzania , Uganda) nel 1977 (si sta tentando di costruirne una nuova dal 2013). In ambedue i casi, i costi furono elevatissimi per tutte le parti in causa. E non solo per loro: la Banca mondiale, ad esempio, dovette faticare per farsi rimborsare i prestiti fatti ai servizi comuni (telecomunicazioni, ferrovie, compagnia aera, trasporti fluviali e sui laghi) istituiti dai tre Paesi dell’Africa Orientale.
Nessuno è riuscito a quantizzarlo con un minimo di attendibilità, ma il costo di uscire dall’euro (o di essere espulsi) è altissimo. Questo è l’argomento principale contro i suggerimenti di costruire un “nucleo duro” a cui legare il resto dell’area con un meccanismo di flessibilità controllata analogo allo Sme .
E’ tutto calmo sul fronte dell’Eurozona? Lo dicono in molti, specialmente sui quotidiani finanziari. Ma guardano principalmente ad un dato: il rafforzamento del cambio dell’euro sul dollaro degli ultimi giorni. Nel frattempo, uno dei libri più venduti in Francia questa estate è il saggio di Alain Cotta “Sortir de l’Euro ou Mourir à Petit Feu” (“Uscire dell’euro o essere grigliati a fuoco lento”). La Repubblica Federale Tedesca ha appena presentato una bozza di articolare per mettere “ad amministrazione controllata” le politiche di bilancio dei Paesi i cui disavanzi e debiti mettono a rischio la moneta unica. Sulla base di dati Ocse e Bce, Simon Tilford, capo economista del pensatoio liberale “Centre for European Reform” ha dimostrato che negli ultimi dieci anni la Germania ha deprezzato il proprio euro rispetto a quelli di altri Paesi dell’area in quanto in termini reali i salari tedeschi, ed il costo del lavoro per unità di prodotto, è diminuito mentre in molti altri (Spagna, Portogallo,Francia, Italia) è aumentato. Prima o poi la sfasatura potrebbe comportare una separazione, più o meno consensuale.
I “Padri Fondatori” dell’euro seguirono l’esempio di Donna Letizia (al secolo Maria Letizia Ramolino), madre di Napoleone, rimasta nei libri di storia per l’intercalare “finché dura…” (lo ripeteva ogni volta una corona si posava sulla testa di uno dei suoi figli o delle sue figlie). Sul retro di ciascuna banconota della valuta unica , c’è un codice di identificazione di 11 cifre precedute da una lettera in maiuscolo (S per l’Italia) per individuare la Zecca che la ha emessa. Nelle pandette della Banca centrale europea (Bce), sono indicate, tra parentesi, anche le lettere identificatrici dei Paesi che fanno parte dell’Ue ma non dell’unione monetaria: se e quando sono in condizione di entrarvi e decidono di farlo, tutto è pronto per individuare cosa è stata stampato dalle Zecche di ciascuno di loro.
Ancora più palese la procedura per le monete metalliche (da quelle dei centesimi a quelle di uno o due euro) : ciascuna ha una “faccia nazionale” che mostra a tutto tondo quale Zecca dell’Eurozona la ha coniata. Le anime belle affermano che si tratta unicamente di “eleganza burocratica” per non fare del tutto perdere l’identità nazionale. Le anime un po’ meno pie sostengono che il marchingegno è un metodo di controllo per il Sistema Europeo di Banche Centrali (Sebc) e per la Bce al fine di evitare che qualche Zecca aumenti la massa monetaria più del dovuto ed inietti inflazione. Le anime maligne sussurrano che in effetti i “Padri Fondatori” hanno la memoria lunga: hanno visto il crollo di una dozzina di unioni monetarie (grandi e piccole) dalla fine della seconda guerra mondiale ed alcuni di loro rammentano quello dell’unione monetaria latina, nata tanto bene tra Italia, Francia, Belgio e Svizzera da tirarsi dietro Spagna,Grecia, Bulgaria, Austro-Ungheria, Stato Ponteficio, Serbia, San Marino e pure i lontanissimi Venezuela e Indie Occidentali danesi - prima di implodere ed essere sciolta (non- come si legge in molti manuali anche universitari- con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, ma nel 1927). I codici sarebbero una precauzione. Il rovescio della medaglia (per restare in tema) è che l’euro sarebbe un rischio calcolato:in caso di sfascio, si sa a quale Zecca rivolgersi per convertire gli euro nelle nuove monete di questo o quel Paese.
E’ un rischio immaginario? Nelle settimane tra fine aprile ed inizio maggio, quando la “crisi greca” era al suo apice, la secessione di uno o più Paesi dall’euro non è parsa un’eventualità puramente accademica. Si è davvero temuto per la tenuta dell’unione monetaria; e per questo motivo nel fine settimana dell’8-9 maggio è stata approntata una batteria di misure in sua difesa. Si è trattato di un episodio sporadico senza seguito o conseguenze? O dell’annuncio di una lunga estate calda che potrebbe sfociare in nuove tensioni nell’aria dell’euro? Oppure, dell’inizio di un progressivo processo di sgretolamento? Ad un Forum organizzato da “Il Sole-24 Ore” e moderato da Luigi Zingales dell’Università di Chicago molti si sono espressi in favore di un doppio euro: un euro 1 che sarebbe il nucleo duro dell’unione monetaria ed un euro 2 legato al prima da un accordo di cambio analogo a quello chiamato giornalisticamente Sistema monetario europeo (Sme), in vigore dal 1978 al 1999. Di recente, Charles Goodhart , della London School of Economics (a lungo principale consigliere economico della Bank of England) , ha , senza mezzi termini, fatto capire che si stanno facendo simulazioni (ovviamente riservate) di vari scenari.
Le banche del Sebc e la Bce negano decisamente d’essere al lavoro a simulare gli effetti di una ( o più) secessioni (od espulsioni) dall’euro. Gli operatori diffidano: ciò spiega in parte il crollo delle Borse, e dell’euro, il 29 giugno. Il nodo più difficile consiste nello stimare “i costi di transazione” sia per chi se ne va (o è cacciato) sia per chi resta. C’è, infatti, poca evidenza empirica in quanto nulla si sa del caso più recente: il collasso dell’unione monetaria dell’Urss. Ci sono dati limitati della fine di due unioni monetarie: quella tra Singapore e Malesia nel 1965 e quella dell’Africa Orientale (Kenya, Tanzania , Uganda) nel 1977 (si sta tentando di costruirne una nuova dal 2013). In ambedue i casi, i costi furono elevatissimi per tutte le parti in causa. E non solo per loro: la Banca mondiale, ad esempio, dovette faticare per farsi rimborsare i prestiti fatti ai servizi comuni (telecomunicazioni, ferrovie, compagnia aera, trasporti fluviali e sui laghi) istituiti dai tre Paesi dell’Africa Orientale.
Nessuno è riuscito a quantizzarlo con un minimo di attendibilità, ma il costo di uscire dall’euro (o di essere espulsi) è altissimo. Questo è l’argomento principale contro i suggerimenti di costruire un “nucleo duro” a cui legare il resto dell’area con un meccanismo di flessibilità controllata analogo allo Sme .
venerdì 23 luglio 2010
*Lo stress dell'Eurozona Il Velino 22 luglio
ECO -
Roma, 22 lug (Il Velino) -
Venerdì 23 luglio vengono pubblicati i risultati dello stress test su 91 istituti di credito che le autorità europee considerano rappresentative per avere un quadro della situazione degli istituti di credito europei dopo la crisi iniziata nel luglio di tre anni fa e da cui speriamo di stare per uscire. E’ un’analisi importante che farà certamente discutere per diverse settimane. In primo luogo, molti esperti americani, e non pochi europei, affermano che stress test di questa natura sono poco appropriati per effettuare una buona diagnosi e trovare un’efficace terapia. In secondo luogo, numerosi Stati dell’Ue, ed in particolare dell’Eurozona punteranno il dito su qualcosa che, nel mondo bancario, è già nota: lo stato di grande difficoltà in cui versano le Landesbank (casse di risparmio dei singoli Laender) tedesche non tanto in quanto contagiate dai suprime Usa ma perché, al pari dei nostri banchi meridionali di un tempo, basate su un complesso intreccio tra finanza, impresa e politica locale. La polemica sulla Landesbank non potrà non aprire il capitolo degli aiuti di stato, non tanto alle imprese quanto alla finanza. E scatenare un putiferio sul fallimento non del mercato o del non mercato ma delle regole; a riguardo si raccomanda vivamente la lettura del volume di Jonathan Macey Corporate Governance – Quando le regole falliscono, appena pubblicato nella bella collana IBL Libri dell’Istituto Bruno Leoni. Il pericolo che si entri in discussioni di lana caprina tra barracuda esperti mentre si dovrebbe riflettere su due elementi: a) i servizi finanziari contribuiscono alla crescita economica meno di quanto comunemente si pensa (lo documenta il lavoro “The Future of Finance” pubblicato all’inizio di luglio dalla London School of Economics); b) ciò detto, lo stress test al credito potrebbe essere una utile misura approssimativa di un più vasto e più profondo stress test ad un’Eurozona sempre più asimmetrica in cui sta aumentando il divario tra la Germania (ed il “nucleo duro” che la circonda) ed il resto dell’area dell’euro. La Germania ha un tasso di crescita (il 2% l’anno) pari quasi al doppio della media dell’area dell’euro, un saggio d’aumento della produzione industriale che in maggio è stato del 12,4% (rispetto ai livelli segnati 12 mesi prima), un saldo attivo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti di 150 miliardi di euro nell’ultimo anno (ossia pari a 5% del Pil), circa 200 miliardi di export l’anno. In effetti sono le esportazioni a tirare la Repubblica Federale fuori dalla crisi. Ciò non è solo l’esito della capacità delle sue industrie manifatturiere nelle chimica, nell’elettronica, nella metalmeccanica? E' anche il risultato del fatto che negli ultimi dieci anni, nella Repubblica Federale, i salari medi reali non sono cresciuti, e negli ultimi tre anni sono diminuiti, mentre in molti altri Paesi dell’Eurozona sono aumentati. Lo documentano dati Ocse ed Ue nonché un recente studio della Banca centrale spagnola. Ciò vuol dire che il costo del lavoro per unità di prodotto è diminuito rispetto ad altri Paesi dell’area dell’euro. In altri termini, l’euro tedesco si è deprezzato e, di conseguenza, il “made in Germany” ha un vantaggio competitivo rispetto a gran parte dell’Eurozona. E’ questo tema di fondo che va sviscerato prendendo spunto dallo stress test – e da ciò che dirà sulle Landesbank.
(Giuseppe Pennisi) 22 lug 2010 20:28
Roma, 22 lug (Il Velino) -
Venerdì 23 luglio vengono pubblicati i risultati dello stress test su 91 istituti di credito che le autorità europee considerano rappresentative per avere un quadro della situazione degli istituti di credito europei dopo la crisi iniziata nel luglio di tre anni fa e da cui speriamo di stare per uscire. E’ un’analisi importante che farà certamente discutere per diverse settimane. In primo luogo, molti esperti americani, e non pochi europei, affermano che stress test di questa natura sono poco appropriati per effettuare una buona diagnosi e trovare un’efficace terapia. In secondo luogo, numerosi Stati dell’Ue, ed in particolare dell’Eurozona punteranno il dito su qualcosa che, nel mondo bancario, è già nota: lo stato di grande difficoltà in cui versano le Landesbank (casse di risparmio dei singoli Laender) tedesche non tanto in quanto contagiate dai suprime Usa ma perché, al pari dei nostri banchi meridionali di un tempo, basate su un complesso intreccio tra finanza, impresa e politica locale. La polemica sulla Landesbank non potrà non aprire il capitolo degli aiuti di stato, non tanto alle imprese quanto alla finanza. E scatenare un putiferio sul fallimento non del mercato o del non mercato ma delle regole; a riguardo si raccomanda vivamente la lettura del volume di Jonathan Macey Corporate Governance – Quando le regole falliscono, appena pubblicato nella bella collana IBL Libri dell’Istituto Bruno Leoni. Il pericolo che si entri in discussioni di lana caprina tra barracuda esperti mentre si dovrebbe riflettere su due elementi: a) i servizi finanziari contribuiscono alla crescita economica meno di quanto comunemente si pensa (lo documenta il lavoro “The Future of Finance” pubblicato all’inizio di luglio dalla London School of Economics); b) ciò detto, lo stress test al credito potrebbe essere una utile misura approssimativa di un più vasto e più profondo stress test ad un’Eurozona sempre più asimmetrica in cui sta aumentando il divario tra la Germania (ed il “nucleo duro” che la circonda) ed il resto dell’area dell’euro. La Germania ha un tasso di crescita (il 2% l’anno) pari quasi al doppio della media dell’area dell’euro, un saggio d’aumento della produzione industriale che in maggio è stato del 12,4% (rispetto ai livelli segnati 12 mesi prima), un saldo attivo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti di 150 miliardi di euro nell’ultimo anno (ossia pari a 5% del Pil), circa 200 miliardi di export l’anno. In effetti sono le esportazioni a tirare la Repubblica Federale fuori dalla crisi. Ciò non è solo l’esito della capacità delle sue industrie manifatturiere nelle chimica, nell’elettronica, nella metalmeccanica? E' anche il risultato del fatto che negli ultimi dieci anni, nella Repubblica Federale, i salari medi reali non sono cresciuti, e negli ultimi tre anni sono diminuiti, mentre in molti altri Paesi dell’Eurozona sono aumentati. Lo documentano dati Ocse ed Ue nonché un recente studio della Banca centrale spagnola. Ciò vuol dire che il costo del lavoro per unità di prodotto è diminuito rispetto ad altri Paesi dell’area dell’euro. In altri termini, l’euro tedesco si è deprezzato e, di conseguenza, il “made in Germany” ha un vantaggio competitivo rispetto a gran parte dell’Eurozona. E’ questo tema di fondo che va sviscerato prendendo spunto dallo stress test – e da ciò che dirà sulle Landesbank.
(Giuseppe Pennisi) 22 lug 2010 20:28
martedì 20 luglio 2010
Per evitare una nuova Grecia servono regole più rigide Ffwebmagazibne 15 luglio
Il governo tedesco, intanto, sta già elaborando una proposta per l'area euro
Per evitare una "nuova Grecia",
servono regole più rigide
di Giuseppe Pennisi
Non riguarda, fortunatamente, l’Italia grazie alla barra dritta che tiene da lustri la nostra politica di bilancio e alla duttilità mostrata dalle parti sociali nel collaborare con il Governo in materia di politica dei prezzi e dei redditi. Tuttavia, ha implicazioni sul modo di fare politica economica anche in Italia.
Si tratta del documento, in fase finale di elaborazione, approntato dal Governo della Repubblica Federale Tedesca in materia di procedure “europee” da mettere in atto nei confronti di Stati dell’area dell’euro a forte indebitamento e a elevato stock di debito in rapporto al Pil. Ed è un documento che sta suscitando notevole dibattito all’estero, anche se da noi pare se ne occupino pochi specialisti nonostante le sue ricadute politiche oltre che economiche.
Il documento ha origine dal “caso Grecia” e guarda nel breve periodo ai “casi Spagna e Portogallo”. Prende avvio dalla constatazione che la barriera di difesa europea ha “il respiro corto”: può essere utile a evitare una crisi di uno Stato ma non una serie di crisi. Altro assunto: i creditori privati che hanno rischiato - nella prospettiva però di lauti rendimenti, prestando a Stati in difficoltà - devono essere chiamati a fare la loro parte.
In breve, nell’eventualità della minaccia d’insolvenza (come stava per verificarsi per la Grecia), il documento propone una combinazione «di riscadenzamento e di ristrutturazione del debito, con evidente riduzione del suo valore nominale», di aiuti da parte del Fondo monetario e di una specie di “amministrazione controllata” della politica di bilancio non solo da parte del resto degli Stati e delle istituzioni dell’Eurozona (Bce in prima fila) ma anche di un “club di Berlino” di istituzioni finanziarie centrali, che funzionerebbe come il “club di Parigi” – da lustri cassa di compensazione e di risoluzioni di problemi tra i creditori dei Paesi in via di sviluppo maggiormente indebitati.
La proposta indubbiamente ingegnosa solleva anche numerosi problemi: richiede una modifica dei trattati per prevedere “amministrazioni controllate” di Stati sovrani che non vogliano o non possano seguire le regole del patto di crescita e di stabilità.
Difficile dire se e come verrà accolta. È però indicativa di un clima: di fronte alla minaccia di crolli nell’area dell’euro, si irrigidiscono le regole. La Francia si sta mostrando sostanzialmente d’accordo con l’approccio.
Per l’Italia l’implicazione immediata consiste in una politica economica fortemente e genuinamente condivisa, anche se per tale condivisione è necessario un franco e animato dibattito. Non dimentichiamo che se abbassiamo la guardia potremo finire anche noi nell’elenco degli Stati a rischio.
15 luglio 2010
Per evitare una "nuova Grecia",
servono regole più rigide
di Giuseppe Pennisi
Non riguarda, fortunatamente, l’Italia grazie alla barra dritta che tiene da lustri la nostra politica di bilancio e alla duttilità mostrata dalle parti sociali nel collaborare con il Governo in materia di politica dei prezzi e dei redditi. Tuttavia, ha implicazioni sul modo di fare politica economica anche in Italia.
Si tratta del documento, in fase finale di elaborazione, approntato dal Governo della Repubblica Federale Tedesca in materia di procedure “europee” da mettere in atto nei confronti di Stati dell’area dell’euro a forte indebitamento e a elevato stock di debito in rapporto al Pil. Ed è un documento che sta suscitando notevole dibattito all’estero, anche se da noi pare se ne occupino pochi specialisti nonostante le sue ricadute politiche oltre che economiche.
Il documento ha origine dal “caso Grecia” e guarda nel breve periodo ai “casi Spagna e Portogallo”. Prende avvio dalla constatazione che la barriera di difesa europea ha “il respiro corto”: può essere utile a evitare una crisi di uno Stato ma non una serie di crisi. Altro assunto: i creditori privati che hanno rischiato - nella prospettiva però di lauti rendimenti, prestando a Stati in difficoltà - devono essere chiamati a fare la loro parte.
In breve, nell’eventualità della minaccia d’insolvenza (come stava per verificarsi per la Grecia), il documento propone una combinazione «di riscadenzamento e di ristrutturazione del debito, con evidente riduzione del suo valore nominale», di aiuti da parte del Fondo monetario e di una specie di “amministrazione controllata” della politica di bilancio non solo da parte del resto degli Stati e delle istituzioni dell’Eurozona (Bce in prima fila) ma anche di un “club di Berlino” di istituzioni finanziarie centrali, che funzionerebbe come il “club di Parigi” – da lustri cassa di compensazione e di risoluzioni di problemi tra i creditori dei Paesi in via di sviluppo maggiormente indebitati.
La proposta indubbiamente ingegnosa solleva anche numerosi problemi: richiede una modifica dei trattati per prevedere “amministrazioni controllate” di Stati sovrani che non vogliano o non possano seguire le regole del patto di crescita e di stabilità.
Difficile dire se e come verrà accolta. È però indicativa di un clima: di fronte alla minaccia di crolli nell’area dell’euro, si irrigidiscono le regole. La Francia si sta mostrando sostanzialmente d’accordo con l’approccio.
Per l’Italia l’implicazione immediata consiste in una politica economica fortemente e genuinamente condivisa, anche se per tale condivisione è necessario un franco e animato dibattito. Non dimentichiamo che se abbassiamo la guardia potremo finire anche noi nell’elenco degli Stati a rischio.
15 luglio 2010
lunedì 19 luglio 2010
LA LUNGA ESTATE CALDA DELL’EURO Il Velino luglio
Giuseppe Pennisi
Siamo nel mezzo di quella che verrà ricordata come la lunga estate calda dell’euro. Non è come quella del 1997 quando la lira era appena rientrata negli accordi di cambio europei e ci si chiedeva se Roma, Madrid e Lisbona (allora chiamate , ironicamente , il “club Med”) avrebbero fatto parte della moneta unica in via di costituzione. Ha analogie con l’estate del 1992 quando il firmato di Maastricht era stata parafato da pochi mesi, ma ci si chiedeva se l’unione monetaria sarebbe mai venuta in vita. Allora i dubbi riguardavano soprattutto la lira e la miccia venne innescata nei confronti dell’Italia (ritenuta non in grado di tener fede ai propri impegni). Adesso la miccia è stata attizzata dalla Grecia e da un deficit spaventoso (e nascosto per anni), che riflette una scarsa produttività.
Quanto il piano di salvataggio era in fase di elaborazione, ho sottolineato come l’ombrello esteso all’intera area dell’euro sia carente. In primo luogo, l’impegno complessivo Ue-Fmi è modesto (1000 miliardi di dollari equivalenti) in un mercato dove almeno 15.000 miliardi di dollari passano quotidianamente di mano. In secondo luogo, l’ombrello a due gambe (Ue e Fmi) è molto simile a quelli messi in atto alla fine degli Anni Ottanta (crisi debitoria principalmente dell’America Latina) e degli Anni Novanta (crisi Asiatica e Russa. Tuttavia, quelli degli Anni Ottanta e Novanta prevedevano quasi sempre una svalutazione ma nell’area dell’euro, ciò non può essere attuato (per non mettere a repentaglio l’unione monetaria). Tanto a Washington quanto a Bruxelles l’ombrello viene visto essenzialmente come una misura – ponte che avrebbe principalmente l’obiettivo di meglio organizzare un’insolvenza parziale. In passato, tali misure-ponte hanno funzionato quando a) l’impegno di tutti i partecipanti è stato di lungo periodo (e ci sono legittimi dubbi che tutti i protagonisti restino in campo per anni, anche a ragione dei problemi specifici di finanza pubblica di ciascuno), b) la struttura per la gestione dei fondi è stata semplice (Fmi, Banca Mondiale da un lato; Paese “assistito”, dall’altro) ed ha mostrato difficoltà quando a Fmi. Banca Mondiale venivano associate altre istituzioni (Banche regionali come l’Interamericana e l’Asiatica), mentre si tratteggia non una rete di accordi bilaterali (per la Grecia se metterebbero in piedi dagli 8 ai 18); c) si è operato sul cambio (strumento che , come si è detto, non è, utilizzabile).
Degli aiuti messi in campo, il maggior beneficiario non sarà la Grecia , ma le banche (francesi, tedesche e greche, in quest’ordine) le cui casse sono gonfie di obbligazioni emesse dal Tesoro dell’Ellade (o da banche ed aziende a partecipazione statale. Il secondo beneficiario sarà il Governo Papandreu: un’analisi di circa 140 Paesi, in un arco di tempo che va dagli Anni Cinquanta all’inizio di questo secolo, indica che, di norma, 18 mesi dopo un’insolvenza alle scadenze del debito,l’Esecutivo passa il testimone e viene sostituito o da un Governo tecnico o da una nuova coalizione (spesso in seguito ad elezioni anticipate). I perdenti rischiano di essere non sono i greci che dovranno assorbire un pesantissimo programma di stabilizzazione, ma anche i contribuenti dei Paesi che partecipano al salvataggio. Il trabocchetto principale consiste nel fatto che gli aiuti possono soprattutto avere l’effetto non di evitare ma di ritardare l’insolvenza – secondo un copione che si è già visto nel caso dell’Argentina. Ciò metterebbe a serio rischio l’intera unione monetaria: dalla fine della seconda guerra mondiale, l’unione monetaria europea è la sola ad essere stata partorita, mentre sono defunte le aree della sterlina e del franco (in pratica, due unioni monetarie) e le unioni monetarie dell’Africa Orientale , della Malesia e Singapore, dell’ ex-Urs, nonché quelle, unilaterali, tra gli Stati Uniti ed Argentina, tra gli Stati ed alcuni Paesi dei Balcani e tra gli Stati Uniti ed alcuni Stati dell’America centrale che avevano adottato il dollaro Usa come loro moneta. Per non citare che i casi più noti.
Per saperne di più
Buchheit L.C., Mutugulati G. How to restructure Greek Debt Duke University
De Grawe P. Crisis in the Eurozone and how to deal with it CEPS Policy Brief n. 204
Utzig S. "The Financial Crisis and the Regulation of Credit Rating Agencies: A European Banking Perspective" ADBI Working Paper n. 188
Siamo nel mezzo di quella che verrà ricordata come la lunga estate calda dell’euro. Non è come quella del 1997 quando la lira era appena rientrata negli accordi di cambio europei e ci si chiedeva se Roma, Madrid e Lisbona (allora chiamate , ironicamente , il “club Med”) avrebbero fatto parte della moneta unica in via di costituzione. Ha analogie con l’estate del 1992 quando il firmato di Maastricht era stata parafato da pochi mesi, ma ci si chiedeva se l’unione monetaria sarebbe mai venuta in vita. Allora i dubbi riguardavano soprattutto la lira e la miccia venne innescata nei confronti dell’Italia (ritenuta non in grado di tener fede ai propri impegni). Adesso la miccia è stata attizzata dalla Grecia e da un deficit spaventoso (e nascosto per anni), che riflette una scarsa produttività.
Quanto il piano di salvataggio era in fase di elaborazione, ho sottolineato come l’ombrello esteso all’intera area dell’euro sia carente. In primo luogo, l’impegno complessivo Ue-Fmi è modesto (1000 miliardi di dollari equivalenti) in un mercato dove almeno 15.000 miliardi di dollari passano quotidianamente di mano. In secondo luogo, l’ombrello a due gambe (Ue e Fmi) è molto simile a quelli messi in atto alla fine degli Anni Ottanta (crisi debitoria principalmente dell’America Latina) e degli Anni Novanta (crisi Asiatica e Russa. Tuttavia, quelli degli Anni Ottanta e Novanta prevedevano quasi sempre una svalutazione ma nell’area dell’euro, ciò non può essere attuato (per non mettere a repentaglio l’unione monetaria). Tanto a Washington quanto a Bruxelles l’ombrello viene visto essenzialmente come una misura – ponte che avrebbe principalmente l’obiettivo di meglio organizzare un’insolvenza parziale. In passato, tali misure-ponte hanno funzionato quando a) l’impegno di tutti i partecipanti è stato di lungo periodo (e ci sono legittimi dubbi che tutti i protagonisti restino in campo per anni, anche a ragione dei problemi specifici di finanza pubblica di ciascuno), b) la struttura per la gestione dei fondi è stata semplice (Fmi, Banca Mondiale da un lato; Paese “assistito”, dall’altro) ed ha mostrato difficoltà quando a Fmi. Banca Mondiale venivano associate altre istituzioni (Banche regionali come l’Interamericana e l’Asiatica), mentre si tratteggia non una rete di accordi bilaterali (per la Grecia se metterebbero in piedi dagli 8 ai 18); c) si è operato sul cambio (strumento che , come si è detto, non è, utilizzabile).
Degli aiuti messi in campo, il maggior beneficiario non sarà la Grecia , ma le banche (francesi, tedesche e greche, in quest’ordine) le cui casse sono gonfie di obbligazioni emesse dal Tesoro dell’Ellade (o da banche ed aziende a partecipazione statale. Il secondo beneficiario sarà il Governo Papandreu: un’analisi di circa 140 Paesi, in un arco di tempo che va dagli Anni Cinquanta all’inizio di questo secolo, indica che, di norma, 18 mesi dopo un’insolvenza alle scadenze del debito,l’Esecutivo passa il testimone e viene sostituito o da un Governo tecnico o da una nuova coalizione (spesso in seguito ad elezioni anticipate). I perdenti rischiano di essere non sono i greci che dovranno assorbire un pesantissimo programma di stabilizzazione, ma anche i contribuenti dei Paesi che partecipano al salvataggio. Il trabocchetto principale consiste nel fatto che gli aiuti possono soprattutto avere l’effetto non di evitare ma di ritardare l’insolvenza – secondo un copione che si è già visto nel caso dell’Argentina. Ciò metterebbe a serio rischio l’intera unione monetaria: dalla fine della seconda guerra mondiale, l’unione monetaria europea è la sola ad essere stata partorita, mentre sono defunte le aree della sterlina e del franco (in pratica, due unioni monetarie) e le unioni monetarie dell’Africa Orientale , della Malesia e Singapore, dell’ ex-Urs, nonché quelle, unilaterali, tra gli Stati Uniti ed Argentina, tra gli Stati ed alcuni Paesi dei Balcani e tra gli Stati Uniti ed alcuni Stati dell’America centrale che avevano adottato il dollaro Usa come loro moneta. Per non citare che i casi più noti.
Per saperne di più
Buchheit L.C., Mutugulati G. How to restructure Greek Debt Duke University
De Grawe P. Crisis in the Eurozone and how to deal with it CEPS Policy Brief n. 204
Utzig S. "The Financial Crisis and the Regulation of Credit Rating Agencies: A European Banking Perspective" ADBI Working Paper n. 188
Festival Puccini, una “Fanciulla” da ascoltare ma a occhi chiusi Il Velino 19 luglio
CLT -
Roma, 19 lug (Il Velino) - Nella California delle febbre dell’oro, Minnie gestisce un “saloon” per minatori; si trinca whisky , ci si azzuffa e si spara, ma in un’atmosfera da Cral (ossia da dopolavoro) poiché tra una rissa e l’altra, la bella giovane ostessa da tutti desiderata tiene lezioni di alfabetizzazione e spiega la Bibbia. Lo sceriffo Jack vorrebbe portarsela a letto, ma la fanciulla lo respinge sia perché non ha “ancora dato il primo bacio”, sia in quanto innamoratasi dello “straniero” Dick (che in lingua inglese è anche un modo educato per indicare chi sa utilizzare a pieno il proprio fallo) da desiderare di andare con lui sotto le lenzuola. Dick è un ladrone in fuga, ma Minnie non lo sa. Finisce col pernottare (su un divano) nella casa della ragazza. Lo sceriffo lo scopre, Minnie ingaggia con lui una partita di poker dove mette in palio la vita di Dick o la propria verginità. Barando, vince e salva temporaneamente il ladrone di cui è innamorata. Braccato, quest’ultimo finirebbe sulla forca se non arrivasse , a cavallo, Minnie con due Colt cariche di piombo e un discorso persuasivo ai minatori: “Quest’uomo è mio, come è di Dio”. Liberi, cavalcano insieme lontani dalla California.
Questo il libretto de “La fanciulla del West” di Giacomo Puccini, che risente del clima puritano dell’America del 1910 dove andò in scena con enorme successo al Metropolitan. Il teatro newyorchese nel commissionarla sfoderò un cast d’eccezione: Arturo Toscanini, Emmy Destinn ed Enrico Caruso. La scrittura sia orchestrale sia vocale è quanto di più complesso composto da Puccini: coniuga lo stile della “giovane scuola” italiana con le innovazioni in gran misura radicali apportate da Debussy (“Pelléas et Melisande”) e Strauss (“Salomè”) proprio in quegli anni. Quindi, a un testo apparentemente per educande, corrisponde una musica intrisa di eros e rivolta al futuro. A ragione delle difficoltà di disporre di un’orchestra, una concertazione e soprattutto voci in grado di fare fronte alla terribile, ma ancora modernissima, partitura, “Fanciulla” è una delle opere meno rappresentate di Puccini. Al Festival Pucciniano di Torre del Lago (Lucca), la cui 56esima edizione di sta svolgendo in questi giorni, mancava da cinque anni. E’ stata riproposta in un nuovo allestimento anche perché ricorre il centenario dalla prima rappresentazione. Difficile capire perché non sia stato ripreso l’allestimento scenico presentato cinque anni fa: scene e costumi avevano una leggera visione espressionistica e la regia iperconvenzionale di Ivan Stefanutti non coglieva l’eros proveniente dalla buca d’orchestra e dalle voci, ma era, tutto sommato, una buona realizzazione del dramma in musica. Il nuovo allestimento scenico è stato affidato al pittore pisano Franco Adami: totem stilizzati multicolori in un contesto più da guerre stellari che da “febbre dell’oro”.
La regia , firmata da Kirsten Harms, è del tutto inesistente nei primi due atti e prende un po’ quota nel terzo. Difficile comprendere cosa avvenga in scena e perché dal momento che il tutto è corredato da momenti che vanno dal ridicolo (Dick porta un mazzo di rose rosse a Minnie nel bel mezzo del deserto delle California) al sublime (il finale da film di fantascienza). Il pubblico ha protestato. Vediamo se altri teatri (in primo luogo la Deustches Oper- Berlin, casa madre di Kisten Harms) la riprenderanno. Altrimenti, dopo tre repliche (sino al 7 agosto) andrà tutto allo sfascio. Nel valutare gli aspetti musicali, occorre tenere conto dell’acustica, non certo ottimale, di un teatro, per quanto in murature all’aperto a ridosso di un lago. In tali condizioni, è comunque arduo percepire le sottili raffinatezze orchestrali e vocali concepite per quella cassa armonica che era il “Met” della 34sima strada. Le scene hanno reso ancora più difficile il lavoro dei cantanti. Guidata con diligenza da Alberto Veronesi, l’Orchestra del Festival ha colto a pieno gli echi di Debussy, anche grazie alla riapertura di un “taglio” effettuato dopo le recite newyorkesi del 1910-11 ma non quelli, demoniaci, di Strauss (le dissonanze e i leitmotive). Daniela Dessì ancora una volta supera la difficile prova: è una Minnie in cui prevalgono gli accenti lirico-passionali su quelli drammatici. Fabio Armiliato ha incassato con valenza (meritandosi anche un applauso a scena aperta) la parte pensata per Caruso. Il ruolo di Jack è affidato al bravo Carlos Almanguer. Buoni gli interpreti dei 15 personaggi minori. Insomma, uno spettacolo da ascoltare ma… a occhi chiusi.
(Hans Sachs) 19 lug 2010 11:31
Roma, 19 lug (Il Velino) - Nella California delle febbre dell’oro, Minnie gestisce un “saloon” per minatori; si trinca whisky , ci si azzuffa e si spara, ma in un’atmosfera da Cral (ossia da dopolavoro) poiché tra una rissa e l’altra, la bella giovane ostessa da tutti desiderata tiene lezioni di alfabetizzazione e spiega la Bibbia. Lo sceriffo Jack vorrebbe portarsela a letto, ma la fanciulla lo respinge sia perché non ha “ancora dato il primo bacio”, sia in quanto innamoratasi dello “straniero” Dick (che in lingua inglese è anche un modo educato per indicare chi sa utilizzare a pieno il proprio fallo) da desiderare di andare con lui sotto le lenzuola. Dick è un ladrone in fuga, ma Minnie non lo sa. Finisce col pernottare (su un divano) nella casa della ragazza. Lo sceriffo lo scopre, Minnie ingaggia con lui una partita di poker dove mette in palio la vita di Dick o la propria verginità. Barando, vince e salva temporaneamente il ladrone di cui è innamorata. Braccato, quest’ultimo finirebbe sulla forca se non arrivasse , a cavallo, Minnie con due Colt cariche di piombo e un discorso persuasivo ai minatori: “Quest’uomo è mio, come è di Dio”. Liberi, cavalcano insieme lontani dalla California.
Questo il libretto de “La fanciulla del West” di Giacomo Puccini, che risente del clima puritano dell’America del 1910 dove andò in scena con enorme successo al Metropolitan. Il teatro newyorchese nel commissionarla sfoderò un cast d’eccezione: Arturo Toscanini, Emmy Destinn ed Enrico Caruso. La scrittura sia orchestrale sia vocale è quanto di più complesso composto da Puccini: coniuga lo stile della “giovane scuola” italiana con le innovazioni in gran misura radicali apportate da Debussy (“Pelléas et Melisande”) e Strauss (“Salomè”) proprio in quegli anni. Quindi, a un testo apparentemente per educande, corrisponde una musica intrisa di eros e rivolta al futuro. A ragione delle difficoltà di disporre di un’orchestra, una concertazione e soprattutto voci in grado di fare fronte alla terribile, ma ancora modernissima, partitura, “Fanciulla” è una delle opere meno rappresentate di Puccini. Al Festival Pucciniano di Torre del Lago (Lucca), la cui 56esima edizione di sta svolgendo in questi giorni, mancava da cinque anni. E’ stata riproposta in un nuovo allestimento anche perché ricorre il centenario dalla prima rappresentazione. Difficile capire perché non sia stato ripreso l’allestimento scenico presentato cinque anni fa: scene e costumi avevano una leggera visione espressionistica e la regia iperconvenzionale di Ivan Stefanutti non coglieva l’eros proveniente dalla buca d’orchestra e dalle voci, ma era, tutto sommato, una buona realizzazione del dramma in musica. Il nuovo allestimento scenico è stato affidato al pittore pisano Franco Adami: totem stilizzati multicolori in un contesto più da guerre stellari che da “febbre dell’oro”.
La regia , firmata da Kirsten Harms, è del tutto inesistente nei primi due atti e prende un po’ quota nel terzo. Difficile comprendere cosa avvenga in scena e perché dal momento che il tutto è corredato da momenti che vanno dal ridicolo (Dick porta un mazzo di rose rosse a Minnie nel bel mezzo del deserto delle California) al sublime (il finale da film di fantascienza). Il pubblico ha protestato. Vediamo se altri teatri (in primo luogo la Deustches Oper- Berlin, casa madre di Kisten Harms) la riprenderanno. Altrimenti, dopo tre repliche (sino al 7 agosto) andrà tutto allo sfascio. Nel valutare gli aspetti musicali, occorre tenere conto dell’acustica, non certo ottimale, di un teatro, per quanto in murature all’aperto a ridosso di un lago. In tali condizioni, è comunque arduo percepire le sottili raffinatezze orchestrali e vocali concepite per quella cassa armonica che era il “Met” della 34sima strada. Le scene hanno reso ancora più difficile il lavoro dei cantanti. Guidata con diligenza da Alberto Veronesi, l’Orchestra del Festival ha colto a pieno gli echi di Debussy, anche grazie alla riapertura di un “taglio” effettuato dopo le recite newyorkesi del 1910-11 ma non quelli, demoniaci, di Strauss (le dissonanze e i leitmotive). Daniela Dessì ancora una volta supera la difficile prova: è una Minnie in cui prevalgono gli accenti lirico-passionali su quelli drammatici. Fabio Armiliato ha incassato con valenza (meritandosi anche un applauso a scena aperta) la parte pensata per Caruso. Il ruolo di Jack è affidato al bravo Carlos Almanguer. Buoni gli interpreti dei 15 personaggi minori. Insomma, uno spettacolo da ascoltare ma… a occhi chiusi.
(Hans Sachs) 19 lug 2010 11:31
Festival Puccini, una “Fanciulla” da ascoltare ma a occhi chiusi Il Velino 19 luglio
CLT -
Roma, 19 lug (Il Velino) - Nella California delle febbre dell’oro, Minnie gestisce un “saloon” per minatori; si trinca whisky , ci si azzuffa e si spara, ma in un’atmosfera da Cral (ossia da dopolavoro) poiché tra una rissa e l’altra, la bella giovane ostessa da tutti desiderata tiene lezioni di alfabetizzazione e spiega la Bibbia. Lo sceriffo Jack vorrebbe portarsela a letto, ma la fanciulla lo respinge sia perché non ha “ancora dato il primo bacio”, sia in quanto innamoratasi dello “straniero” Dick (che in lingua inglese è anche un modo educato per indicare chi sa utilizzare a pieno il proprio fallo) da desiderare di andare con lui sotto le lenzuola. Dick è un ladrone in fuga, ma Minnie non lo sa. Finisce col pernottare (su un divano) nella casa della ragazza. Lo sceriffo lo scopre, Minnie ingaggia con lui una partita di poker dove mette in palio la vita di Dick o la propria verginità. Barando, vince e salva temporaneamente il ladrone di cui è innamorata. Braccato, quest’ultimo finirebbe sulla forca se non arrivasse , a cavallo, Minnie con due Colt cariche di piombo e un discorso persuasivo ai minatori: “Quest’uomo è mio, come è di Dio”. Liberi, cavalcano insieme lontani dalla California.
Questo il libretto de “La fanciulla del West” di Giacomo Puccini, che risente del clima puritano dell’America del 1910 dove andò in scena con enorme successo al Metropolitan. Il teatro newyorchese nel commissionarla sfoderò un cast d’eccezione: Arturo Toscanini, Emmy Destinn ed Enrico Caruso. La scrittura sia orchestrale sia vocale è quanto di più complesso composto da Puccini: coniuga lo stile della “giovane scuola” italiana con le innovazioni in gran misura radicali apportate da Debussy (“Pelléas et Melisande”) e Strauss (“Salomè”) proprio in quegli anni. Quindi, a un testo apparentemente per educande, corrisponde una musica intrisa di eros e rivolta al futuro. A ragione delle difficoltà di disporre di un’orchestra, una concertazione e soprattutto voci in grado di fare fronte alla terribile, ma ancora modernissima, partitura, “Fanciulla” è una delle opere meno rappresentate di Puccini. Al Festival Pucciniano di Torre del Lago (Lucca), la cui 56esima edizione di sta svolgendo in questi giorni, mancava da cinque anni. E’ stata riproposta in un nuovo allestimento anche perché ricorre il centenario dalla prima rappresentazione. Difficile capire perché non sia stato ripreso l’allestimento scenico presentato cinque anni fa: scene e costumi avevano una leggera visione espressionistica e la regia iperconvenzionale di Ivan Stefanutti non coglieva l’eros proveniente dalla buca d’orchestra e dalle voci, ma era, tutto sommato, una buona realizzazione del dramma in musica. Il nuovo allestimento scenico è stato affidato al pittore pisano Franco Adami: totem stilizzati multicolori in un contesto più da guerre stellari che da “febbre dell’oro”.
La regia , firmata da Kirsten Harms, è del tutto inesistente nei primi due atti e prende un po’ quota nel terzo. Difficile comprendere cosa avvenga in scena e perché dal momento che il tutto è corredato da momenti che vanno dal ridicolo (Dick porta un mazzo di rose rosse a Minnie nel bel mezzo del deserto delle California) al sublime (il finale da film di fantascienza). Il pubblico ha protestato. Vediamo se altri teatri (in primo luogo la Deustches Oper- Berlin, casa madre di Kisten Harms) la riprenderanno. Altrimenti, dopo tre repliche (sino al 7 agosto) andrà tutto allo sfascio. Nel valutare gli aspetti musicali, occorre tenere conto dell’acustica, non certo ottimale, di un teatro, per quanto in murature all’aperto a ridosso di un lago. In tali condizioni, è comunque arduo percepire le sottili raffinatezze orchestrali e vocali concepite per quella cassa armonica che era il “Met” della 34sima strada. Le scene hanno reso ancora più difficile il lavoro dei cantanti. Guidata con diligenza da Alberto Veronesi, l’Orchestra del Festival ha colto a pieno gli echi di Debussy, anche grazie alla riapertura di un “taglio” effettuato dopo le recite newyorkesi del 1910-11 ma non quelli, demoniaci, di Strauss (le dissonanze e i leitmotive). Daniela Dessì ancora una volta supera la difficile prova: è una Minnie in cui prevalgono gli accenti lirico-passionali su quelli drammatici. Fabio Armiliato ha incassato con valenza (meritandosi anche un applauso a scena aperta) la parte pensata per Caruso. Il ruolo di Jack è affidato al bravo Carlos Almanguer. Buoni gli interpreti dei 15 personaggi minori. Insomma, uno spettacolo da ascoltare ma… a occhi chiusi.
(Hans Sachs) 19 lug 2010 11:31
Roma, 19 lug (Il Velino) - Nella California delle febbre dell’oro, Minnie gestisce un “saloon” per minatori; si trinca whisky , ci si azzuffa e si spara, ma in un’atmosfera da Cral (ossia da dopolavoro) poiché tra una rissa e l’altra, la bella giovane ostessa da tutti desiderata tiene lezioni di alfabetizzazione e spiega la Bibbia. Lo sceriffo Jack vorrebbe portarsela a letto, ma la fanciulla lo respinge sia perché non ha “ancora dato il primo bacio”, sia in quanto innamoratasi dello “straniero” Dick (che in lingua inglese è anche un modo educato per indicare chi sa utilizzare a pieno il proprio fallo) da desiderare di andare con lui sotto le lenzuola. Dick è un ladrone in fuga, ma Minnie non lo sa. Finisce col pernottare (su un divano) nella casa della ragazza. Lo sceriffo lo scopre, Minnie ingaggia con lui una partita di poker dove mette in palio la vita di Dick o la propria verginità. Barando, vince e salva temporaneamente il ladrone di cui è innamorata. Braccato, quest’ultimo finirebbe sulla forca se non arrivasse , a cavallo, Minnie con due Colt cariche di piombo e un discorso persuasivo ai minatori: “Quest’uomo è mio, come è di Dio”. Liberi, cavalcano insieme lontani dalla California.
Questo il libretto de “La fanciulla del West” di Giacomo Puccini, che risente del clima puritano dell’America del 1910 dove andò in scena con enorme successo al Metropolitan. Il teatro newyorchese nel commissionarla sfoderò un cast d’eccezione: Arturo Toscanini, Emmy Destinn ed Enrico Caruso. La scrittura sia orchestrale sia vocale è quanto di più complesso composto da Puccini: coniuga lo stile della “giovane scuola” italiana con le innovazioni in gran misura radicali apportate da Debussy (“Pelléas et Melisande”) e Strauss (“Salomè”) proprio in quegli anni. Quindi, a un testo apparentemente per educande, corrisponde una musica intrisa di eros e rivolta al futuro. A ragione delle difficoltà di disporre di un’orchestra, una concertazione e soprattutto voci in grado di fare fronte alla terribile, ma ancora modernissima, partitura, “Fanciulla” è una delle opere meno rappresentate di Puccini. Al Festival Pucciniano di Torre del Lago (Lucca), la cui 56esima edizione di sta svolgendo in questi giorni, mancava da cinque anni. E’ stata riproposta in un nuovo allestimento anche perché ricorre il centenario dalla prima rappresentazione. Difficile capire perché non sia stato ripreso l’allestimento scenico presentato cinque anni fa: scene e costumi avevano una leggera visione espressionistica e la regia iperconvenzionale di Ivan Stefanutti non coglieva l’eros proveniente dalla buca d’orchestra e dalle voci, ma era, tutto sommato, una buona realizzazione del dramma in musica. Il nuovo allestimento scenico è stato affidato al pittore pisano Franco Adami: totem stilizzati multicolori in un contesto più da guerre stellari che da “febbre dell’oro”.
La regia , firmata da Kirsten Harms, è del tutto inesistente nei primi due atti e prende un po’ quota nel terzo. Difficile comprendere cosa avvenga in scena e perché dal momento che il tutto è corredato da momenti che vanno dal ridicolo (Dick porta un mazzo di rose rosse a Minnie nel bel mezzo del deserto delle California) al sublime (il finale da film di fantascienza). Il pubblico ha protestato. Vediamo se altri teatri (in primo luogo la Deustches Oper- Berlin, casa madre di Kisten Harms) la riprenderanno. Altrimenti, dopo tre repliche (sino al 7 agosto) andrà tutto allo sfascio. Nel valutare gli aspetti musicali, occorre tenere conto dell’acustica, non certo ottimale, di un teatro, per quanto in murature all’aperto a ridosso di un lago. In tali condizioni, è comunque arduo percepire le sottili raffinatezze orchestrali e vocali concepite per quella cassa armonica che era il “Met” della 34sima strada. Le scene hanno reso ancora più difficile il lavoro dei cantanti. Guidata con diligenza da Alberto Veronesi, l’Orchestra del Festival ha colto a pieno gli echi di Debussy, anche grazie alla riapertura di un “taglio” effettuato dopo le recite newyorkesi del 1910-11 ma non quelli, demoniaci, di Strauss (le dissonanze e i leitmotive). Daniela Dessì ancora una volta supera la difficile prova: è una Minnie in cui prevalgono gli accenti lirico-passionali su quelli drammatici. Fabio Armiliato ha incassato con valenza (meritandosi anche un applauso a scena aperta) la parte pensata per Caruso. Il ruolo di Jack è affidato al bravo Carlos Almanguer. Buoni gli interpreti dei 15 personaggi minori. Insomma, uno spettacolo da ascoltare ma… a occhi chiusi.
(Hans Sachs) 19 lug 2010 11:31
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