ACEA : LABORATORIO DELLA RIFORMA DEI SERVIZI PUBBLICI LOCALI
Giuseppe Pennisi
Le mura di Roma sono state coperte da manifesti dello schieramento politico all’opposizione contro la “privatizzazione” dell’Acea. E’ necessario fare chiarezza al di là delle informazioni quotidiane, necessariamente relative soltanto ad aspetti puntuali di una tematica molto vasta e complessa. I punti salienti sono due:
• In primo luogo, non si tratta di “privatizzazione” ma di diminuzione eventuale del peso , nell’azionariato, del Comune, che resta comunque l’azionista di riferimento chiaramente al sedile del conducente.
• In secondo luogo, la misura non è il risultato di una decisione interamente italiana – si possono naturalmente avere idee differenti sulla proprietà e sulle modalità di gestione di un servizio di interesse dell’intera società come quello pertinente all’acqua (ed all’energia ed al trattamento di alcune scorie)- ma la conseguenza di una normativa europea , definita dai 27 dell’UE per rendere più efficiente il “capitalismo municipale” e dare ad esso una serie di regole comuni come minimo denominatore nell’Unione.
• In terzo luogo, la stessa Banca d’Italia (che non ha competenze regolamentari in materia ma ha comunque il compito di dare indirizzo in materia economica), sottolinea da anni , tramite una serie di studi, la necessità di rispondere positivamente all’UE e migliorare la qualità del servizio.
In effetti, la norma di base (una legge di recepimento di regolamenti e direttive UE9 ha il nome del Ministro per le Politiche Comunitarie, Andrea Ronchi, non del Ministro dell’Economia e delle Finanze o di quello dello Sviluppo Economico. Ronchi ha sottolineato in tempi non sospetti (lo scorso novembre) che la normativa che porta il suo nome è “una riforma vera che metterà in moto investimenti veri” e ci pone al passa con il resto dell’UE. E’ in ogni caso riforma che interessa da vicino noi tutti. I servizi pubblici locali – acqua, trasporti di massa, rifiuti urbani – riguardano la vita quotidiana di tutti noi e sono spesso al centro di roventi polemiche nella gestione della “res pubblica”. Sono frequenti gli avvertimenti del “Mr. Prezzi” del Ministero dello Sviluppo Economico a fare attenzione ad eventuali ritocchi (all’insù) di alcune tariffe di servizi pubblici. Il settore, poi, ha un ruolo crescente nell’economia del Paese. Il servizio studi della Banca d’Italia ha diramato di recente una serie di interessanti monografie (in italiano ed inglese) relative sia a tematiche generali (la regolamentazione attuale e quella che si profila in prospettiva, la trasformazione del “capitalismo municipale” costituito non più da piccole aziende ma da grandi imprese, l’impiego della finanza di progetto e le sue implicazioni) sia a comparti specifici (trasporto pubblico locale, rifiuti urbani, distribuzione di gas naturale, il servizio idrico, taxi ed autonoleggio, e via discorrendo) . Le analisi- disponibili anche su supporto elettronico – rappresentano un contributo importante. Non solamente si tratta di studi basati su dati aggiornati ma gettano nuova luce sulla questione di fondo: nel Paese in cui Giovanni Montemartini inventò, in età giolittiana, le municipalizzate – gli abbiamo dedicato un museo a Via Ostiense ma i suoi libri sono introvabili in Italia pur se in traduzione in inglese fanno ancora testo nelle università americane – è più urgente, in questo primo scorcio di XXI secolo, liberalizzare o privatizzare al fine di migliorare il servizio e rendere il settore competitivo su scala europea ed internazionale?
In Italia, il settore comprende circa 370 imprese, con 200.000 addetti. Alcune imprese sono di grandi dimensioni (si pensi a Hera, Iride, Gesac, Aem-Asm, Acea) : risultano da un processo di aggregazione degli ultimi venti anni. I Comuni, le Province ed in certi casi le Regioni sono tra i maggiori azionisti – una delle monografie analizza dieci tra i principali casi aziendali ed individua i percorsi “virtuosi” (spesso associati ad un nocciolo duro energetico caratterizzato da alta redditività). Accanto ai “giganti” c’è una miriade di piccole e medie aziende. Complessivamente, formano oltre l’1% del pil nazionale ma in alcune Regioni rappresentano il 6% del valore aggiunto prodotto in loco. Il “capitalismo municipale”, inoltre, è internazionalizzato; l’azionista di maggioranza della società che gestisce gli aeroporti campani è una multinazionale d’origine britannica. Le società miste pubblico-privato, ed in particolare quelle con soci stranieri presentano indici di redditività superiore di quelle unicamente municipali specialmente in termine di margine operativo lordo. Un’analisi di dieci “Big” del settore delinea vincoli che frenano anche i “grandi” e che impediscono la crescita dei “piccoli”: da un canto, il disegno regolamentare è inadeguato poiché le tariffe non coprono i costi e sono comunque state fissate (anche a ragione della metodologia prevista per legge) a livelli eccessivamente bassi (scoraggiando partner privati, soprattutto quelli stranieri); da un altro, la separazione tra proprietà/controllo (quasi sempre pubblica) e gestione non è sempre sufficientemente netta quanto sarebbe auspicabile. Lo studio suggerisce “una separazione dei ruoli – di rappresentanza delle esigenze dei consumatori da quella della politica locale e dall’interesse ai risultati economici- attraverso forme di privatizzazione dei gestori con una diluizione delle partecipazioni degli enti locali. A indicazioni analoghe è giunto tempo fa uno studio del Dipartimento di Economia dell’Università di Roma “La Sapienza”: “una scelta radicale” - “una gestione pubblica separata dalla fornitura del servizio, almeno sino al momento in cui non sarà risolto il nodo degli assetti gestionali” .
Non è, però, un percorso semplice. La liberalizzazione e la privatizzazione dei servizi pubblici locali è sia nel programma con il quale l’attuale maggioranza si è presentata al corpo elettorale sia nelle “sette missioni” dell’azione di governo, delineata all’inizio della legislatura in corso. Un’analisi del Censis afferma che ciò corrispondeva, in linea di massima, agli umori della società civile. Nonostante la crisi finanziaria ed economica internazionale (che ha inciso non poco sui programmi di tutti i Governi e sulle loro priorità), La nuova varata rappresenta un passo importante verso una più netta separazione tra proprietario/controllore e gestore da scegliesi in seguito a “procedure competitive ad evidenza pubblica”. Una scuola di pensiero, molto presente in studi Ocse oltre che nelle monografie della Banca d’Italia è che la liberalizzazione (il vero “cuore” della riforma) non solo deve precedere la privatizzazione ma ne è un’efficace alternativa. Lo sostiene anche una recente rassegna commissionata dalla Fondazione Bertelsmann e presentata ad una congresso internazionale a Berlino a cui hanno partecipato circa 600 esperti.
Un tema innovativo affrontato, a questo riguardo, nei lavori della Banca d’Italia è il ruolo della finanza di progetto, uno strumento relativamente nuovo nell’esperienza italiana (nonostante che all’inizio del XIX secolo ebbe i propri primordi proprio nel nostro territorio – la ferrovia Napoli-Portici nel Regno delle Due Sicilie), ma che negli ultimi anni ha avuto una diffusione molto rapida proprio nel campo dei servizi pubblici locali. L’analisi del servizio studi della Banca d’Italia sottolinea che “la gran parte delle opere – realizzate con questo strumento – ha riguardato iniziative locali per opere poco complesse con contenute interazioni tra costruzione dell’opera e successiva gestione della stessa. E’ uno strumento con molte potenzialità per una privatizzazione graduale coniugata con liberalizzazioni a tappe, secondo un percorso definito quale stabilito nella normativa che prevede una transizione che, per i settori dell’acqua, dei trasporti locali su gomma e dei rifiuti, avverrà in cinque anni (tra la fine del 2010 e la fine del 2015). In realtà. I tempi lunghi riguardano solamente lo società quotate in Borsa (come l’Acea) che entro il 2013 dovranno restare nelle mani dell’azionista pubblico di riferimento per una quota massima del 40% ed entro il 2015 per una quota massima del 30%.
Il Campidoglio lanciando la proposta di riduzione della propria partecipazione al capitale Acea (anche e soprattutto al fine di attirare nuovi investimenti e migliorare il servizio) ha fatto da battistrada di quanto dovrà essere fatto da molte amministrazioni, non solo del Nord. A riguardo occorre ricordare che non solo l’Acquedotto Pugliese, nato in età giolittiana, ha la fama di un colabrodo ma che l’Acquedotto Emiliano-romagnolo (iniziato degli ingegneri al seguito delle truppe napoleoniche) non è da meno e le sue perdite sono una delle determinanti del “bradisisma” nella Pianura Padana.
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