Falstaff senza fronzoli trionfa a Vienna
Di Giuseppe Pennisi
InSCENA
A Vienna è in repertorio un'edizione di Falstaff firmata dal regista italiano Marco Arturo Marelli, i cui allestimenti sono diventati leggendari all'estero. L'artista cura anche le scene e le luci, mentre i costumi sono di Dagmar Niefind. Il direttore d'orchestra è Asher Fisch e il protagonista dell'opera è Ambrogio Maestri, affiancato da un cast internazionale con una dizione perfetta. Dopo qualche anno dal debutto la Staatsoper trabocca in ogni ordine di posti ogni volta che l'opera va in scena (è in repertorio ogni anno). L'impostazione di Marelli diverge da quella di Zeffirelli, vista di recente a Roma perché il suo è un Falstaff senza fronzoli. La scena è unica e caratterizzata da una pedana scoscesa che si alza per mostrare l'Osteria della Giarrettiera e si trasforma nella piazzetta di Windsor e poi nella casa di Ford e nella foresta. Marelli non riproduce i tempi shakespeariani: Falstaff, Bardolfo e Pistola sono in costumi cinquecenteschi, ma il resto della compagnia richiama un imprecisato ventesimo secolo (deliziosa Mrs. Qickly in un abito viola da Regina Madre). Il ritmo è veloce anche se si avverte la melanconia della giovinezza lontana. Asher Fisch concerta con bacchetta precisa e Ambrogio Maestri è un Falstaff perfetto sia sotto il profilo scenico sia vocale; agilissimo nonostante la sua corporatura, riempie il teatro con la sua voce. Di livello eccezionale il gruppo delle donne: Krassimira Stoyanova, Theodora Georghiu, Jane Henschel e Nadia Krasteva; buono quello degli uomini. (riproduzione riservata)
venerdì 26 febbraio 2010
giovedì 25 febbraio 2010
Portare in Europa un'Italia più forte Il Velino 25 febbraio
Roma, 25 feb (Velino) - In Italia, l’approssimarsi di importanti scadenze elettorali è, ormai, anticipato dal tintillar di manette. Sembra sia diventata una consuetudine che sta ad altri, meglio attrezzati del vostro “chroniquer”, commentare in dettaglio.
Tuttavia, occorre distinguere tra reati, misfatti e malcostume. Un volta provati, i reati vanno sanzionati a norma di codice, non tramite una campagna di stampa diretta ad influenzare opinione pubblica e magistratura giudicante. Più difficile l’area delle trasgressioni che potrebbero essere chiamate misfatti; i perimetri sono a volte incerti; i confini pure; non è chiaro se consistano in reati veri e propri oppure in inosservanza di norme sociali e di prassi oppure ancora di codici etici. In questi casi, la cautela non è mai troppa poiché una magistratura “etica” ed una stampa “etica” rischiano di non svolgere la loro funzione con obiettività e di scivolare invece sulla china degli autoritarismo che hanno caratterizzato nella stessa Europa (che si gloria di essere la culla della democrazia) il Ventesimo Secolo. Ancora più difficile sapere come trattare il malcostume, la rete di camarille diffuse che, nel nostro Paese come altrove, plasmano spesso il comportamento sia di individui sia di collegi (che proprio perché plurali) dovrebbero contenere nella loro stessa composizione antidoti nei confronti di comportamenti opportunistici e particolaristici.
Un rimedio possibile consiste, prendendo a prestito quello che può sembrare uno slogan elettorale, nel “portare l’euro in Italia dopo che abbiamo portato l’Italia nell’euro”. Non che l’Ue sia priva di “misfatti” e di “malcostume”: le cronache tappezzate di vicende poco edificanti che caratterizzano gli altri Stati dell’Unione e le stesse istituzioni europee. Tuttavia, in Europa si stanno adottando, faticosamente, procedure e – quel che più conta- prassi per contenerle ed eliderle, ove non per estirparle. Il metodo delle best practices, o migliori prassi, è un percorso utile da seguire che, gradualmente ed in via incrementale, può combattere quel malcostume in cui spesso si alimentano i misfatti.
Vale la pena portare “l’euro in Italia” – inteso come prassi migliore delle nostre- solo se la moneta unica è il riflesso ed il simbolo di un’Europa forte ed autorevole. Sono anni che si tratta di questo tema in vari modi e guisa – oggi 25 febbraio, ad esempio, all’Istituto Affari Internazionali se ne discute nel contesto dell’efficacia delle missioni europee di pace – sottolineando principalmente l’esigenza di un’Europa “politica” che si giustapponga a quella tecnica.
Nel vero e proprio fiume di parole, spesso non seguito da proposte concrete, vale la pena esaminare con attenzione la misura , concretissima, lanciata dall’ex-Direttore Generale del Fondo monetario Michel Camdessus: fondere la Banca europea degli investimenti (Bei) e la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers) e dotare l’Ue di un unico strumento finanziario in grado di effettuare prestiti per 10-14 miliardi di euro l’anno – un volume analogo a quello della Banca mondiale. In tali modo, sarà più facile lanciare quei programmi internazionali d’investimento a lungo termini attorno a cui creare, come si è visto su Il Velino nei giorni scorsi, il nucleo delle global rules per il dopo-crisi.
(Giuseppe Pennisi) 25 feb 2010 19:20
Tuttavia, occorre distinguere tra reati, misfatti e malcostume. Un volta provati, i reati vanno sanzionati a norma di codice, non tramite una campagna di stampa diretta ad influenzare opinione pubblica e magistratura giudicante. Più difficile l’area delle trasgressioni che potrebbero essere chiamate misfatti; i perimetri sono a volte incerti; i confini pure; non è chiaro se consistano in reati veri e propri oppure in inosservanza di norme sociali e di prassi oppure ancora di codici etici. In questi casi, la cautela non è mai troppa poiché una magistratura “etica” ed una stampa “etica” rischiano di non svolgere la loro funzione con obiettività e di scivolare invece sulla china degli autoritarismo che hanno caratterizzato nella stessa Europa (che si gloria di essere la culla della democrazia) il Ventesimo Secolo. Ancora più difficile sapere come trattare il malcostume, la rete di camarille diffuse che, nel nostro Paese come altrove, plasmano spesso il comportamento sia di individui sia di collegi (che proprio perché plurali) dovrebbero contenere nella loro stessa composizione antidoti nei confronti di comportamenti opportunistici e particolaristici.
Un rimedio possibile consiste, prendendo a prestito quello che può sembrare uno slogan elettorale, nel “portare l’euro in Italia dopo che abbiamo portato l’Italia nell’euro”. Non che l’Ue sia priva di “misfatti” e di “malcostume”: le cronache tappezzate di vicende poco edificanti che caratterizzano gli altri Stati dell’Unione e le stesse istituzioni europee. Tuttavia, in Europa si stanno adottando, faticosamente, procedure e – quel che più conta- prassi per contenerle ed eliderle, ove non per estirparle. Il metodo delle best practices, o migliori prassi, è un percorso utile da seguire che, gradualmente ed in via incrementale, può combattere quel malcostume in cui spesso si alimentano i misfatti.
Vale la pena portare “l’euro in Italia” – inteso come prassi migliore delle nostre- solo se la moneta unica è il riflesso ed il simbolo di un’Europa forte ed autorevole. Sono anni che si tratta di questo tema in vari modi e guisa – oggi 25 febbraio, ad esempio, all’Istituto Affari Internazionali se ne discute nel contesto dell’efficacia delle missioni europee di pace – sottolineando principalmente l’esigenza di un’Europa “politica” che si giustapponga a quella tecnica.
Nel vero e proprio fiume di parole, spesso non seguito da proposte concrete, vale la pena esaminare con attenzione la misura , concretissima, lanciata dall’ex-Direttore Generale del Fondo monetario Michel Camdessus: fondere la Banca europea degli investimenti (Bei) e la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers) e dotare l’Ue di un unico strumento finanziario in grado di effettuare prestiti per 10-14 miliardi di euro l’anno – un volume analogo a quello della Banca mondiale. In tali modo, sarà più facile lanciare quei programmi internazionali d’investimento a lungo termini attorno a cui creare, come si è visto su Il Velino nei giorni scorsi, il nucleo delle global rules per il dopo-crisi.
(Giuseppe Pennisi) 25 feb 2010 19:20
CLT - Vienna, il Falstaff italiano che da sette anni trionfa all’Opera Il Velino 25 febbraio
CLT - Vienna, il Falstaff italiano che da sette anni trionfa all’Opera
Vienna, il Falstaff italiano che da sette anni trionfa all’Opera
Vienna, 25 feb (Velino) - Il mese scorso il “Falstaff” curato da Franco Zeffirelli ha inaugurato la stagione del Teatro dell’Opera di Roma. Era il nono della carriera per l’87enne regista, autore anche di scene e costumi, ma le varie versioni sono tutte evoluzione di quello che predispose nel 1956 nella lontana Tel Aviv (con Serafin al podio), è stato in scena al Metroplitan per oltre 40 anni ed è stato riprodotto in due dvd. A Roma si era già visto negli anni ‘60 e ’70 e in occasione dello spettacolo inaugurale sono state rifatte le magnifiche scene e i bellissimi costumi sui bozzetti originali, essendo quel materiale andato distrutto. Allo Staatsoper di Vienna, che quest’anno mette in scena una trentina di titoli, c’è invece un’edizione di “Falstaff” che tiene banco da sette anni. Ha debuttato nel 2003, viene replicata da allora per una decina di sere ogni stagione ed è firmata da un regista italiano, Marco Arturo Marelli (i cui allestimenti purtroppo non si vedono quasi mai in Italia, anche se sono diventati leggendari all’estero), che cura anche le scene e le luci. I costumi sono di Dagmar Niefind, il direttore d’orchestra, Asher Fisch, è il medesimo che ha concertato a Roma e il protagonista è l’italianissimo Ambrogio Maestri, affiancato da un cast internazionale con una dizione perfetta.
L’impostazione di Marelli è molto differente da quella di Zeffirelli. In primo luogo il suo è un “Falstaff” senza fronzoli: una scena unica, con una pedana scoscesa che si alza per mostrare l’Osteria della Giarrettiera e che con un minimo di attrezzeria diventa la piazzetta di Windsor, la casa di Ford e la foresta. Scelta che oltre a contenere i costi riduce i tempi per i cambi di scena. Lo spettacolo, in due parti, dura circa un’ora meno di quello romano, principalmente per l’eliminazione di un intervallo. A differenza di Zeffirelli, Marelli non cerca di riprodurre i tempi shakespeariani e la vicenda non è in un’epoca definita: Falstaff, Bardolfo e Pistola sono in costumi cinquecenteschi, ma il resto della compagnia è un imprecisato XX Secolo (deliziosa Mrs. Qickly in un abito viola da Regina Madre). Il ritmo è veloce e non mancano le gag, ma l’allestimento è intriso della melanconia della giovinezza ormai lontana. Fisch, travolto a Roma dall’esuberanza zeffirelliana, concerta con bacchetta precisa curando gli impasti tra voci ed orchestra. Lo agevola il cast, che nell’edizione romana turbato da protagonisti ormai al capolinea sotto il profilo vocale. A 40 anni Ambrogio Maestri è un Falstaff perfetto sotto il profilo sia scenico sia vocale, agilissimo nonostante la sua corporatura, riempie il teatro con la sua voce. Di livello eccezionale, il gruppo delle donne: Krassimira Stoyanova, Teodora Georghiu, Jane Henschel e Nadia Krasteva. Buono quello degli uomini: Boaz Daniel, Georgely Némethy, Benedikt Kobel, Herwig Pecoraro, Janusz Monarchia. Un allestimento che non solamente dopo sette anni regge bene, ma che ancora spinge alcuni spettatori, che lo hanno già visto in passato, a tornare a vederlo ancora.
(Hans Sachs) 25 feb 2010 11:49
Vienna, il Falstaff italiano che da sette anni trionfa all’Opera
Vienna, 25 feb (Velino) - Il mese scorso il “Falstaff” curato da Franco Zeffirelli ha inaugurato la stagione del Teatro dell’Opera di Roma. Era il nono della carriera per l’87enne regista, autore anche di scene e costumi, ma le varie versioni sono tutte evoluzione di quello che predispose nel 1956 nella lontana Tel Aviv (con Serafin al podio), è stato in scena al Metroplitan per oltre 40 anni ed è stato riprodotto in due dvd. A Roma si era già visto negli anni ‘60 e ’70 e in occasione dello spettacolo inaugurale sono state rifatte le magnifiche scene e i bellissimi costumi sui bozzetti originali, essendo quel materiale andato distrutto. Allo Staatsoper di Vienna, che quest’anno mette in scena una trentina di titoli, c’è invece un’edizione di “Falstaff” che tiene banco da sette anni. Ha debuttato nel 2003, viene replicata da allora per una decina di sere ogni stagione ed è firmata da un regista italiano, Marco Arturo Marelli (i cui allestimenti purtroppo non si vedono quasi mai in Italia, anche se sono diventati leggendari all’estero), che cura anche le scene e le luci. I costumi sono di Dagmar Niefind, il direttore d’orchestra, Asher Fisch, è il medesimo che ha concertato a Roma e il protagonista è l’italianissimo Ambrogio Maestri, affiancato da un cast internazionale con una dizione perfetta.
L’impostazione di Marelli è molto differente da quella di Zeffirelli. In primo luogo il suo è un “Falstaff” senza fronzoli: una scena unica, con una pedana scoscesa che si alza per mostrare l’Osteria della Giarrettiera e che con un minimo di attrezzeria diventa la piazzetta di Windsor, la casa di Ford e la foresta. Scelta che oltre a contenere i costi riduce i tempi per i cambi di scena. Lo spettacolo, in due parti, dura circa un’ora meno di quello romano, principalmente per l’eliminazione di un intervallo. A differenza di Zeffirelli, Marelli non cerca di riprodurre i tempi shakespeariani e la vicenda non è in un’epoca definita: Falstaff, Bardolfo e Pistola sono in costumi cinquecenteschi, ma il resto della compagnia è un imprecisato XX Secolo (deliziosa Mrs. Qickly in un abito viola da Regina Madre). Il ritmo è veloce e non mancano le gag, ma l’allestimento è intriso della melanconia della giovinezza ormai lontana. Fisch, travolto a Roma dall’esuberanza zeffirelliana, concerta con bacchetta precisa curando gli impasti tra voci ed orchestra. Lo agevola il cast, che nell’edizione romana turbato da protagonisti ormai al capolinea sotto il profilo vocale. A 40 anni Ambrogio Maestri è un Falstaff perfetto sotto il profilo sia scenico sia vocale, agilissimo nonostante la sua corporatura, riempie il teatro con la sua voce. Di livello eccezionale, il gruppo delle donne: Krassimira Stoyanova, Teodora Georghiu, Jane Henschel e Nadia Krasteva. Buono quello degli uomini: Boaz Daniel, Georgely Némethy, Benedikt Kobel, Herwig Pecoraro, Janusz Monarchia. Un allestimento che non solamente dopo sette anni regge bene, ma che ancora spinge alcuni spettatori, che lo hanno già visto in passato, a tornare a vederlo ancora.
(Hans Sachs) 25 feb 2010 11:49
mercoledì 24 febbraio 2010
L’ITALIA ED IL NOBEL MUNDELL Il Tempo 24 febbraio
L’ITALIA ED IL NOBEL MUNDELL
Giuseppe Pennisi
Sono stato – alcuni decenni fa- allievo del Premio Nobel Prof. Robert Mudell. Il “Prof” ha sempre apprezzato che avessimo differenze di gusti (lui appassionato di whiskey, io di gin & tonic) e che in classe dissentissi su alcuni dei suoi punti. Mi auguro che lo apprezzi anche ora.
Il 22 febbraio, Robert Mundell (che da anni passa diversi mesi nella regione del Chianti e conosce molto bene il nostro Paese) ha dato un’intervista ad un’agenzia di stampa internazionale (ripresa dai maggiori quotidiani europei) in cui afferma che l’Italia minaccia di essere il secondo pilastro (dopo la Grecia) dell’unione monetaria europea a crollare (ed a portare con sé non soltanto l’euro ma anche quel che resta dell’Europa in via d’integrazione). Le parole di Mundell pesano sui mercati : è l’autore della “teoria dell’area valutaria ottimale” che tutti gli studenti di economia , prima o poi, imparano. Mundell ed ha sempre mostrato una grande integrità intellettuale. Ad esempio, si è distaccato dal coro proprio sull’euro: ha criticato più volte la costruzione a tavolino della moneta unica perché l’unione da essa risultante non corrispondeva a quella “ottimale” con effettiva grande mobilità di capitale e lavoro e flessibilità di remunerazione dei fattori di produzione (rendite finanziarie e salari). E’ stato, inoltre, molto severo nei confronto del percorso verso l’euro dei Governi Prodi, Amato e D’Alema poiché contrassegnato non da riduzioni di spesa ma da aumenti della pressione tributaria e contributiva. Mi sono trovato spesso d’accordo con queste analisi con l’esito di essere considerato un “euro perplesso” od un “euroscettico”.ù
Dissento adesso dalla previsione apocalittica di Mundell per queste ragioni: a) l’Italia ha dato prova di sapere tenere ben salda e ben dritta la barra della finanza pubblica durante la grave recessione del 2009, una contrazione del pil del 5%, (una virtù che Mundell ammette) e non c’è ragione da ritenere che sbandi nel 2010 o nel 2011; b) la recessione (riducendo il pil) comporta inevitabilmente un aumento tra stock di debito pubblico e reddito nazionale, ma , a fronte del fenomeno, gli italiani (che Mundell conosce bene) hanno dato prova di essere ottimi risparmiatori , aumentando addirittura il rapporto tra risparmio delle famiglie e reddito disponibile; c) c’è senza dubbio un rischio esterno – ed Il Tempo è stato il primo quotidiano a sottolinearlo- che un’ondata d’inflazione dagli Usa provochi un aumento dei tassi d’interesse tale da minare la sostenibilità del debito, ma speriamo che i vari G (8-14-20) scongiurino una tattica “obaniana” che sarebbe di breve respiro). A queste determinanti si aggiunge la slavina giudiziaria-mediatica che presentando all’estero l’Italia come è Paese intriso di corruzione acuisce il pessimismo degli osservatori internazionali, specialmente di quelli finanziari.
Cosa fare per fugare le prospettive apocalittiche di Mundell (e di altri che si sono subito accodati)? In primo luogo, approvare le norme anti-corruzione. In secondo luogo, ridurre il “grasso” che ancora c’è nelle spese delle pubbliche amministrazioni. In terzo luogo, in parallelo con tale smaltimento, abbassare la pressione fiscale contributiva.
E dare un bel bicchiere di Chianti al caro “Prof”:
Giuseppe Pennisi
Sono stato – alcuni decenni fa- allievo del Premio Nobel Prof. Robert Mudell. Il “Prof” ha sempre apprezzato che avessimo differenze di gusti (lui appassionato di whiskey, io di gin & tonic) e che in classe dissentissi su alcuni dei suoi punti. Mi auguro che lo apprezzi anche ora.
Il 22 febbraio, Robert Mundell (che da anni passa diversi mesi nella regione del Chianti e conosce molto bene il nostro Paese) ha dato un’intervista ad un’agenzia di stampa internazionale (ripresa dai maggiori quotidiani europei) in cui afferma che l’Italia minaccia di essere il secondo pilastro (dopo la Grecia) dell’unione monetaria europea a crollare (ed a portare con sé non soltanto l’euro ma anche quel che resta dell’Europa in via d’integrazione). Le parole di Mundell pesano sui mercati : è l’autore della “teoria dell’area valutaria ottimale” che tutti gli studenti di economia , prima o poi, imparano. Mundell ed ha sempre mostrato una grande integrità intellettuale. Ad esempio, si è distaccato dal coro proprio sull’euro: ha criticato più volte la costruzione a tavolino della moneta unica perché l’unione da essa risultante non corrispondeva a quella “ottimale” con effettiva grande mobilità di capitale e lavoro e flessibilità di remunerazione dei fattori di produzione (rendite finanziarie e salari). E’ stato, inoltre, molto severo nei confronto del percorso verso l’euro dei Governi Prodi, Amato e D’Alema poiché contrassegnato non da riduzioni di spesa ma da aumenti della pressione tributaria e contributiva. Mi sono trovato spesso d’accordo con queste analisi con l’esito di essere considerato un “euro perplesso” od un “euroscettico”.ù
Dissento adesso dalla previsione apocalittica di Mundell per queste ragioni: a) l’Italia ha dato prova di sapere tenere ben salda e ben dritta la barra della finanza pubblica durante la grave recessione del 2009, una contrazione del pil del 5%, (una virtù che Mundell ammette) e non c’è ragione da ritenere che sbandi nel 2010 o nel 2011; b) la recessione (riducendo il pil) comporta inevitabilmente un aumento tra stock di debito pubblico e reddito nazionale, ma , a fronte del fenomeno, gli italiani (che Mundell conosce bene) hanno dato prova di essere ottimi risparmiatori , aumentando addirittura il rapporto tra risparmio delle famiglie e reddito disponibile; c) c’è senza dubbio un rischio esterno – ed Il Tempo è stato il primo quotidiano a sottolinearlo- che un’ondata d’inflazione dagli Usa provochi un aumento dei tassi d’interesse tale da minare la sostenibilità del debito, ma speriamo che i vari G (8-14-20) scongiurino una tattica “obaniana” che sarebbe di breve respiro). A queste determinanti si aggiunge la slavina giudiziaria-mediatica che presentando all’estero l’Italia come è Paese intriso di corruzione acuisce il pessimismo degli osservatori internazionali, specialmente di quelli finanziari.
Cosa fare per fugare le prospettive apocalittiche di Mundell (e di altri che si sono subito accodati)? In primo luogo, approvare le norme anti-corruzione. In secondo luogo, ridurre il “grasso” che ancora c’è nelle spese delle pubbliche amministrazioni. In terzo luogo, in parallelo con tale smaltimento, abbassare la pressione fiscale contributiva.
E dare un bel bicchiere di Chianti al caro “Prof”:
PER RIPARTIRE VA SUPERATA L’OCCUPAZIONE “USA E GETTA” Avvenire 24 febbraio
PER RIPARTIRE VA SUPERATA L’OCCUPAZIONE “USA E GETTA”
Giuseppe Pennisi
Le exit strategy dalla crisi in corso devono mirare non solamente a nuove regole globali per la finanza ma anche ad un programma di lungo periodo per l’occupazione. La riduzione del numero degli occupati in Italia (ad un tasso del – 2,2% annuo) è inferiore a quella che si registra in altri Paesi dell’area Ocse (come gli Usa, la Francia, la Germania e la Gran Bretagna). Anche la percentuale di coloro che cercano lavoro senza trovarlo al 7,8% delle forze di lavoro appare meno grave della media che si registra nell’unione monetaria (poco più del 10%) ma si accompagna a due fenomeni noti agli specialisti ma in gran parte ignorati dal grande pubblico: a) la contrazione delle forze di lavoro (dal 59% delle persone di età tra i 15 ed i 64 anni al 57,5% all’ultima conta) con circa 300.000 persone che non lavorano e, in gran misura disillusi, non cercano più un’occupazione; b) l’aumento dei lavoratori disposable, un elegante termine tecnico anglosassone per dire “usa e getta”. Il primo fenomeno è caratteristico di tutti i Paesi afflitti dalla recessione: qualsiasi manuale di macro-economia degli ultimi trent’anni spiega perché, a fronte di una contrazione delle opportunità di occupazione, alcune fasce (donne, certi gruppi di giovani , anziani) si ritirano dalle forze di lavoro per tornare alle faccende domestiche od agli studi od anticipare l’inizio della quiescenza. Molto italiano, invece, il secondo fenomeno. Un’analisi di Bruno Contini e Elisa Grand dell’Università di Torino (pubblicata dall’istituto tedesco di ricerche sul lavoro- IZA Discussion Paper No. 4724 ma ancora inedita in Italia) sottolinea come sia più grave di quanto rilevato durante il rallentamento economico all’inizio degli Anni Novanta e prima delle varie riforme del mercato del lavoro (dal “pacchetto Treu” alla “Legge Biagi”): su 100 giovani che entrano nel mercato del lavoro, 70 ci sono ancora se il loro primo impiego dura più di un anno, ma ne restano 50 (o occupati o a cercare lavoro) se il loro primo contratto è di meno di tre mesi. L’altra metà (di questo gruppo) finisce in attività “non rintracciabili e spesso irregolari” (il “sommerso” di ogni ordine e grado). Un’analisi comparata di 121 Paesi (nell’arco di tempo 1974-2004, ossia prima dell’attuale crisi) pubblicata sul numero di febbraio della Review of Development Economics ammonisce come il fenomeno del lavoro usa e getta ha non solo non desiderabili implicazioni sociali ma frena la crescita economica.
Senza dubbio, le riforme del mercato del lavoro degli ultimi 20 anni hanno traghettato l’Italia verso una maggiore flessibilità in entrata ed hanno contribuito all’aumento dell’occupazione registrato tra il 2002 ed il 2008. Tuttavia, articolate su oltre 50 fattispecie di rapporti di lavoro, hanno frammentato il mercato del lavoro e spesso gettano uno stigma negativo su chi non riesce ad avere contratti superiori ad un anno, tenendo lui o lei ai margini e facendoli scivolare nel sommerso.
La strategia per superare il fenomeno consiste nell’andare verso un contratto unico- se del caso “a punti” con un periodo di prova relativamente e effettuato anche presso differenti datori di lavoro (ed appropriatamente monitorato per contenere comportamenti opportunistici). In Parlamento, ci sono varie proposte , in gran misura variazioni del modello attuato in Francia. Occorre dare loro priorità nei lavori legislativi. Non si può eludere il problema, senza mettere a repentaglio non solo l’equità ma anche lo sviluppo.
Giuseppe Pennisi
Le exit strategy dalla crisi in corso devono mirare non solamente a nuove regole globali per la finanza ma anche ad un programma di lungo periodo per l’occupazione. La riduzione del numero degli occupati in Italia (ad un tasso del – 2,2% annuo) è inferiore a quella che si registra in altri Paesi dell’area Ocse (come gli Usa, la Francia, la Germania e la Gran Bretagna). Anche la percentuale di coloro che cercano lavoro senza trovarlo al 7,8% delle forze di lavoro appare meno grave della media che si registra nell’unione monetaria (poco più del 10%) ma si accompagna a due fenomeni noti agli specialisti ma in gran parte ignorati dal grande pubblico: a) la contrazione delle forze di lavoro (dal 59% delle persone di età tra i 15 ed i 64 anni al 57,5% all’ultima conta) con circa 300.000 persone che non lavorano e, in gran misura disillusi, non cercano più un’occupazione; b) l’aumento dei lavoratori disposable, un elegante termine tecnico anglosassone per dire “usa e getta”. Il primo fenomeno è caratteristico di tutti i Paesi afflitti dalla recessione: qualsiasi manuale di macro-economia degli ultimi trent’anni spiega perché, a fronte di una contrazione delle opportunità di occupazione, alcune fasce (donne, certi gruppi di giovani , anziani) si ritirano dalle forze di lavoro per tornare alle faccende domestiche od agli studi od anticipare l’inizio della quiescenza. Molto italiano, invece, il secondo fenomeno. Un’analisi di Bruno Contini e Elisa Grand dell’Università di Torino (pubblicata dall’istituto tedesco di ricerche sul lavoro- IZA Discussion Paper No. 4724 ma ancora inedita in Italia) sottolinea come sia più grave di quanto rilevato durante il rallentamento economico all’inizio degli Anni Novanta e prima delle varie riforme del mercato del lavoro (dal “pacchetto Treu” alla “Legge Biagi”): su 100 giovani che entrano nel mercato del lavoro, 70 ci sono ancora se il loro primo impiego dura più di un anno, ma ne restano 50 (o occupati o a cercare lavoro) se il loro primo contratto è di meno di tre mesi. L’altra metà (di questo gruppo) finisce in attività “non rintracciabili e spesso irregolari” (il “sommerso” di ogni ordine e grado). Un’analisi comparata di 121 Paesi (nell’arco di tempo 1974-2004, ossia prima dell’attuale crisi) pubblicata sul numero di febbraio della Review of Development Economics ammonisce come il fenomeno del lavoro usa e getta ha non solo non desiderabili implicazioni sociali ma frena la crescita economica.
Senza dubbio, le riforme del mercato del lavoro degli ultimi 20 anni hanno traghettato l’Italia verso una maggiore flessibilità in entrata ed hanno contribuito all’aumento dell’occupazione registrato tra il 2002 ed il 2008. Tuttavia, articolate su oltre 50 fattispecie di rapporti di lavoro, hanno frammentato il mercato del lavoro e spesso gettano uno stigma negativo su chi non riesce ad avere contratti superiori ad un anno, tenendo lui o lei ai margini e facendoli scivolare nel sommerso.
La strategia per superare il fenomeno consiste nell’andare verso un contratto unico- se del caso “a punti” con un periodo di prova relativamente e effettuato anche presso differenti datori di lavoro (ed appropriatamente monitorato per contenere comportamenti opportunistici). In Parlamento, ci sono varie proposte , in gran misura variazioni del modello attuato in Francia. Occorre dare loro priorità nei lavori legislativi. Non si può eludere il problema, senza mettere a repentaglio non solo l’equità ma anche lo sviluppo.
lunedì 22 febbraio 2010
Musica, a Salisburgo standing ovation per la Sinfonica Romana IlVelino 22 febbraio
CLT -
Roma, 22 feb (Velino) - Salisburgo è, per eccellenza, una delle capitali delle musica. Non ha più di 100.000 abitanti (erano appena 8.000 all’epoca in cui Mozart era bambino), ma in una settimana di fine febbraio (quindi, fuori stagione e con molti alberghi chiusi) il locale Landestheatre aveva in scena due opere, “Tosca” e il “Franco Tiratore”, oltre a due spettacoli di balletti. Nei teatri scavati nella montagna erano in corso le prove del “Crepuscolo degli Dei” di Wagner, che sarà messo in scena a Pasqua nell’edizione curata dai Berliner Philarmoniker e diretta da Sir Simon Rattle e la riscoperta di opere napoletane dirette da Riccardo Muti e Fabio Biondi in occasione della Pentecoste. Inoltre, concerti ogni sera e anche la mattina tra cui uno in Cattedrale, ieri, diretto da Ivor Bolton. In questo ambiente dove si respira musica, è ancora più importante il successo riscosso dall’Orchestra Sinfonica di Roma (OSR), diretta da Francesco La Vecchia che l’ha creata circa otto anni fa, con due concerti tenuti in poche ore: sabato sera alle 19,30 e domenica mattina alle 11: un vero e proprio tour de force.
I giovani professori dell’OSR, guidati da La Vecchia, si rivolgevano, infatti, a un pubblico accorto e che quasi ogni giorno può fare confronti tra varie formazioni sinfoniche, cameristiche e operistiche. Un pubblico, dunque, non certo incline a facile entusiasmi e a rispondere con vere e proprie standing ovation – tutta la sala in piedi ad applaudire – e richieste di bis. Al primo programma, che ricalcava quello di Graz e prevedeva “Quadri di un’esposizione” di Mussorsgkj, nell’orchestrazione di Ravel e i poemi sinfonici “Le fontane di Roma”e “I pini di Roma” di Respighi, su grande richiesta del pubblico, La Vecchia e l’OSR hanno aggiunto il “Notturno op.70” di Martucci e la sinfonia da “I Vespri Siciliani” di Verdi. Al secondo, articolato su musica strumentale di Martucci e numeri strumentali da opere del grande repertorio italiano, la risposta alla richiesta di bis è stato l’ultimo movimento de “I pini di Roma”, la marcia dei soldati romani e dei consoli sulla Via Appia. Il successo della OSR a Salisburgo è particolarmente significativo: dimostra come un complesso privato italiano, composto per lo più da giovani, sia diventato competitivo sulla scena internazionale e supera per qualità orchestre più note e pubblicizzate. Vuol dire che la sinfonica italiana e romana sta acquistando un ruolo europeo e diventando parte integrante dell’immagine dell’Italia nel mondo. È argomento su cui occorre riflettere, in un momento in cui si sta rimettendo mano alla normativa sulle arti dal vivo e di cui si tornerà a parlare al termine di questa tournée della OSF.
(Hans Sachs) 22 feb 2010 11:03
Roma, 22 feb (Velino) - Salisburgo è, per eccellenza, una delle capitali delle musica. Non ha più di 100.000 abitanti (erano appena 8.000 all’epoca in cui Mozart era bambino), ma in una settimana di fine febbraio (quindi, fuori stagione e con molti alberghi chiusi) il locale Landestheatre aveva in scena due opere, “Tosca” e il “Franco Tiratore”, oltre a due spettacoli di balletti. Nei teatri scavati nella montagna erano in corso le prove del “Crepuscolo degli Dei” di Wagner, che sarà messo in scena a Pasqua nell’edizione curata dai Berliner Philarmoniker e diretta da Sir Simon Rattle e la riscoperta di opere napoletane dirette da Riccardo Muti e Fabio Biondi in occasione della Pentecoste. Inoltre, concerti ogni sera e anche la mattina tra cui uno in Cattedrale, ieri, diretto da Ivor Bolton. In questo ambiente dove si respira musica, è ancora più importante il successo riscosso dall’Orchestra Sinfonica di Roma (OSR), diretta da Francesco La Vecchia che l’ha creata circa otto anni fa, con due concerti tenuti in poche ore: sabato sera alle 19,30 e domenica mattina alle 11: un vero e proprio tour de force.
I giovani professori dell’OSR, guidati da La Vecchia, si rivolgevano, infatti, a un pubblico accorto e che quasi ogni giorno può fare confronti tra varie formazioni sinfoniche, cameristiche e operistiche. Un pubblico, dunque, non certo incline a facile entusiasmi e a rispondere con vere e proprie standing ovation – tutta la sala in piedi ad applaudire – e richieste di bis. Al primo programma, che ricalcava quello di Graz e prevedeva “Quadri di un’esposizione” di Mussorsgkj, nell’orchestrazione di Ravel e i poemi sinfonici “Le fontane di Roma”e “I pini di Roma” di Respighi, su grande richiesta del pubblico, La Vecchia e l’OSR hanno aggiunto il “Notturno op.70” di Martucci e la sinfonia da “I Vespri Siciliani” di Verdi. Al secondo, articolato su musica strumentale di Martucci e numeri strumentali da opere del grande repertorio italiano, la risposta alla richiesta di bis è stato l’ultimo movimento de “I pini di Roma”, la marcia dei soldati romani e dei consoli sulla Via Appia. Il successo della OSR a Salisburgo è particolarmente significativo: dimostra come un complesso privato italiano, composto per lo più da giovani, sia diventato competitivo sulla scena internazionale e supera per qualità orchestre più note e pubblicizzate. Vuol dire che la sinfonica italiana e romana sta acquistando un ruolo europeo e diventando parte integrante dell’immagine dell’Italia nel mondo. È argomento su cui occorre riflettere, in un momento in cui si sta rimettendo mano alla normativa sulle arti dal vivo e di cui si tornerà a parlare al termine di questa tournée della OSF.
(Hans Sachs) 22 feb 2010 11:03
domenica 21 febbraio 2010
ROMA LA CANTA A SALISBURGO Il Tempo 20 febbraio
Dopo averle suonate a Milano
Giuseppe Pennisi
Anche in una fase di stagnazione, il settore della cultura e dello spettacolo è sempre stato- con la pubblica amministrazione – al tempo stesso il grande stabilizzatore ed il volano dell’economia romana. Senza tenere conto del turismo culturale, nel settore lavorano 60.000 persone. La spesa per concerti a Roma è il 16% del totale nazionale, il 12% quella per prosa e danza, l’11% quella per biglietti per il cinema. Nel mondo del “dopo crisi”, lo dicono un saggio di successo di Jacques Attali ed un lavoro analitico del Premio Nobel Heckman, la cultura sarà ancora più di prima una determinante dello sviluppo. E Roma ha tutte le premesse per diventare il vero motore del settore in Italia. Non solamente la cinematografia - uno dei rari comparti dell’economia italiana che attira investimenti diretti dall’estero - è in fase di rilancio (anche grazie agli sforzi del giovane nuovo direttore generale del settore al Ministero dei Beni e delle Attività Culturali), ma la sinfonica sta acquisendo un ruolo europeo sia per l’ampiezza e qualità dell’offerta sia come ambasciatore di Roma nel resto del mondo.
Quando si pensa alla sinfonica, la mente va immediatamente all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, alla sua esperienza centenaria ed ai programmi resi possibili da un budget attorno ai 40 milioni di euro (per oltre la metà di provenienza pubblica), e non al resto dell’offerta romana. Da diversi anni, infatti, sono scese in campo alcune orchestre universitarie e, soprattutto, l’Orchestra Sinfonica di Roma (OSR), una vera e propria innovazione nel panorama non unicamente italiano ma dell’Europa continentale e per questo oggetto di studio di pensatoi economici come l’IBL e l’Astrid e di analisi da parte dei due principali periodici di management dello spettacolo, rispettivamente della Gran Bretagna e del Nord America: è interamente privata, sostenuta da una fondazione senza fini di lucro (la Fondazione Roma) e dai propri abbonati. Pratica una politica di prezzi tale da attirare giovani e fasce a reddito medio-basso; in meno di nove anni di vita ha acquisito un notevole prestigio internazionale , con tournée in Cina, Belgio, Germania, Gran Bretagna, Grecia, Polonia, Spagna, Russia, San Pietroburgo, ed America Latina.
Le ha suonate a Milano , deve per due decenni La Verdi è stata privata, ma dopo una serie di complicate vicende e vertenze (mancati pagamenti di contributi agli orchestrali, strumentisti maturi con contratti da stagisti, disavanzi che facevano temere il ricorso a procedure fallimentari) è diventata una fondazione semi-pubblica con la partecipazione della Regione, del Comune e della Provincia nella sua gestione. L’OSF è andata a cantarle Salisburgo, dove – basta scorrere la stampa austriaca e tedesca – il Festival di Pasqua è a rischio a ragione di uno scandalo finanziario che travaglia l’organizzazione e compromette la molto attesa messa in scena del wagneriano Gotterdammerung. Già venti anni fa, uno dei maggiori studiosi dell’economia dell’arte (lo svizzero Bruno Frei) in un libro tradotto anche in Italia (Muse e Mercati, Il Mulino) aveva indicato come l’altissimo finanziamento pubblico e la lunga mano della politica (sia alta sia bassa) compromettesse la gestione del maggiore Festival austriaco. L’OSR è in tournée in Austria (Graz, Salisburgo, Vienna- dove suonerà nella sala d’oro del Musikverein sede dei Wiener Philarmoniker che raramente fanno accedere altre orchestre e quesi mai complessi sinfonici stranieri) sino al 24 febbraio con un programma concertistico molto romano e con conferenze su come si gestisce un complesso sinfonico privato. Non una tournée solo musicale: studi econometrici mostrano che iniziative di questa natura sono uno dei modi più efficaci per esaltare l’immagine della casa madre (in questo caso Roma) nel resto del mondo.
Giuseppe Pennisi
Anche in una fase di stagnazione, il settore della cultura e dello spettacolo è sempre stato- con la pubblica amministrazione – al tempo stesso il grande stabilizzatore ed il volano dell’economia romana. Senza tenere conto del turismo culturale, nel settore lavorano 60.000 persone. La spesa per concerti a Roma è il 16% del totale nazionale, il 12% quella per prosa e danza, l’11% quella per biglietti per il cinema. Nel mondo del “dopo crisi”, lo dicono un saggio di successo di Jacques Attali ed un lavoro analitico del Premio Nobel Heckman, la cultura sarà ancora più di prima una determinante dello sviluppo. E Roma ha tutte le premesse per diventare il vero motore del settore in Italia. Non solamente la cinematografia - uno dei rari comparti dell’economia italiana che attira investimenti diretti dall’estero - è in fase di rilancio (anche grazie agli sforzi del giovane nuovo direttore generale del settore al Ministero dei Beni e delle Attività Culturali), ma la sinfonica sta acquisendo un ruolo europeo sia per l’ampiezza e qualità dell’offerta sia come ambasciatore di Roma nel resto del mondo.
Quando si pensa alla sinfonica, la mente va immediatamente all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, alla sua esperienza centenaria ed ai programmi resi possibili da un budget attorno ai 40 milioni di euro (per oltre la metà di provenienza pubblica), e non al resto dell’offerta romana. Da diversi anni, infatti, sono scese in campo alcune orchestre universitarie e, soprattutto, l’Orchestra Sinfonica di Roma (OSR), una vera e propria innovazione nel panorama non unicamente italiano ma dell’Europa continentale e per questo oggetto di studio di pensatoi economici come l’IBL e l’Astrid e di analisi da parte dei due principali periodici di management dello spettacolo, rispettivamente della Gran Bretagna e del Nord America: è interamente privata, sostenuta da una fondazione senza fini di lucro (la Fondazione Roma) e dai propri abbonati. Pratica una politica di prezzi tale da attirare giovani e fasce a reddito medio-basso; in meno di nove anni di vita ha acquisito un notevole prestigio internazionale , con tournée in Cina, Belgio, Germania, Gran Bretagna, Grecia, Polonia, Spagna, Russia, San Pietroburgo, ed America Latina.
Le ha suonate a Milano , deve per due decenni La Verdi è stata privata, ma dopo una serie di complicate vicende e vertenze (mancati pagamenti di contributi agli orchestrali, strumentisti maturi con contratti da stagisti, disavanzi che facevano temere il ricorso a procedure fallimentari) è diventata una fondazione semi-pubblica con la partecipazione della Regione, del Comune e della Provincia nella sua gestione. L’OSF è andata a cantarle Salisburgo, dove – basta scorrere la stampa austriaca e tedesca – il Festival di Pasqua è a rischio a ragione di uno scandalo finanziario che travaglia l’organizzazione e compromette la molto attesa messa in scena del wagneriano Gotterdammerung. Già venti anni fa, uno dei maggiori studiosi dell’economia dell’arte (lo svizzero Bruno Frei) in un libro tradotto anche in Italia (Muse e Mercati, Il Mulino) aveva indicato come l’altissimo finanziamento pubblico e la lunga mano della politica (sia alta sia bassa) compromettesse la gestione del maggiore Festival austriaco. L’OSR è in tournée in Austria (Graz, Salisburgo, Vienna- dove suonerà nella sala d’oro del Musikverein sede dei Wiener Philarmoniker che raramente fanno accedere altre orchestre e quesi mai complessi sinfonici stranieri) sino al 24 febbraio con un programma concertistico molto romano e con conferenze su come si gestisce un complesso sinfonico privato. Non una tournée solo musicale: studi econometrici mostrano che iniziative di questa natura sono uno dei modi più efficaci per esaltare l’immagine della casa madre (in questo caso Roma) nel resto del mondo.
venerdì 19 febbraio 2010
Musica/ La Sinfonica romana alla frontiera della vecchia Europa Il Velino 19 febbraio
CLT -
Graz, 19 feb (Velino) - In un momento in cui si sta predisponendo una nuova normativa per le fondazioni liriche e sinfoniche, è significativo che l’Orchestra sinfonica di Roma, unico complesso sinfonico interamente privato, sia stata invitata a suonare nella Stefaniensaal, una sala ricoperta di stucchi dorati nella capitale della Stiria, Graz. La Stiria, un tempo regno indipendente, è stata per secoli la frontiera più avanzata dell’Occidente rispetto all’Impero ottomano, che nel Seicento giunse a prendere d’assedio Vienna. Per quanto fondata (pare) dalle legioni romani, il nome viene dallo slavo “gradec”, piccolo castello; in effetti, una rocca domina l’elegante città di 280 mila abitanti dove il Medioevo dei vicoli del centro storico più antico sboccano nel barocco austriaco e nel liberty di quella che oggi è, per popolazione, la seconda città dell’Austria e ha una vivace vita industriale, commerciale e culturale. Questo per sottolineare come a Graz , in uno dei Laender più orientale dell’Austria, si respiri cultura occidentale. È la prima volta che una grande orchestra italiana, anche se giovane (otto anni di vita, età media degli orchestrali sui 30 anni) è stata invitata per un concerto che, nonostante fosse “fuori abbonamento”, ha riempito quasi tutti i 1.200 posti della sala (una dimensione enorme per una città di meno di 300 mila abitanti) e con un programma che accostava un poema sinfonico notissimo (“Quadri da un’esposizione” di Modest Mussorgskij, nell’orchestrazione di Maurice Ravel) con due grandi capolavori del “Novecento storico” italiano come “Le Fontane di Roma” e “I Pini di Roma” di Ottorino Respighi.
Esecuzioni salutate favorevolmente da un pubblico avvertito e preparato, cui non manca l’offerta musicale, visto che il teatro dell’Opera ha una stagione in cui una ventina di titoli si alternano su 90 rappresentazioni, un’importante orchestra sinfonica e uno stabile di prosa (lo Stefaniensaal) con un cartellone vasto e variegato. È la prima volta che un’orchestra sinfonica italiana si esibisce alla lussuosa Stefaniensaal. È un caso che gli austriaci dell’avamposto occidentale della Stiria abbiano scelto l’orchestra più giovane sia come data di nascita del complesso sia come profilo di età degli orchestrali? Non proprio. Da Graz, inclusa dall’Unesco tra il “patrimonio dell’umanità” e designata dalla Commissione Europea come “Capitale Europea della Cultura” per il 2003, parte un’indicazione anche all’Italia: nel momento in cui si sta rimettendo mano al sostegno pubblico delle arti dal vivo, occorre ridurre il supporto che per inerzia viene dato a polverosi pozzi senza fondo e pensare invece a meccanismi di matching grants in cui sia aiutato che si è meritato l’apprezzamento internazionale (distante dalle nostre questioni di bottega) e riesce, con la propria qualità artistica e con la propria serietà amministrativa, ad attirare sponsor e pubblico.
(Hans Sachs) 19 feb 2010 16:46
Graz, 19 feb (Velino) - In un momento in cui si sta predisponendo una nuova normativa per le fondazioni liriche e sinfoniche, è significativo che l’Orchestra sinfonica di Roma, unico complesso sinfonico interamente privato, sia stata invitata a suonare nella Stefaniensaal, una sala ricoperta di stucchi dorati nella capitale della Stiria, Graz. La Stiria, un tempo regno indipendente, è stata per secoli la frontiera più avanzata dell’Occidente rispetto all’Impero ottomano, che nel Seicento giunse a prendere d’assedio Vienna. Per quanto fondata (pare) dalle legioni romani, il nome viene dallo slavo “gradec”, piccolo castello; in effetti, una rocca domina l’elegante città di 280 mila abitanti dove il Medioevo dei vicoli del centro storico più antico sboccano nel barocco austriaco e nel liberty di quella che oggi è, per popolazione, la seconda città dell’Austria e ha una vivace vita industriale, commerciale e culturale. Questo per sottolineare come a Graz , in uno dei Laender più orientale dell’Austria, si respiri cultura occidentale. È la prima volta che una grande orchestra italiana, anche se giovane (otto anni di vita, età media degli orchestrali sui 30 anni) è stata invitata per un concerto che, nonostante fosse “fuori abbonamento”, ha riempito quasi tutti i 1.200 posti della sala (una dimensione enorme per una città di meno di 300 mila abitanti) e con un programma che accostava un poema sinfonico notissimo (“Quadri da un’esposizione” di Modest Mussorgskij, nell’orchestrazione di Maurice Ravel) con due grandi capolavori del “Novecento storico” italiano come “Le Fontane di Roma” e “I Pini di Roma” di Ottorino Respighi.
Esecuzioni salutate favorevolmente da un pubblico avvertito e preparato, cui non manca l’offerta musicale, visto che il teatro dell’Opera ha una stagione in cui una ventina di titoli si alternano su 90 rappresentazioni, un’importante orchestra sinfonica e uno stabile di prosa (lo Stefaniensaal) con un cartellone vasto e variegato. È la prima volta che un’orchestra sinfonica italiana si esibisce alla lussuosa Stefaniensaal. È un caso che gli austriaci dell’avamposto occidentale della Stiria abbiano scelto l’orchestra più giovane sia come data di nascita del complesso sia come profilo di età degli orchestrali? Non proprio. Da Graz, inclusa dall’Unesco tra il “patrimonio dell’umanità” e designata dalla Commissione Europea come “Capitale Europea della Cultura” per il 2003, parte un’indicazione anche all’Italia: nel momento in cui si sta rimettendo mano al sostegno pubblico delle arti dal vivo, occorre ridurre il supporto che per inerzia viene dato a polverosi pozzi senza fondo e pensare invece a meccanismi di matching grants in cui sia aiutato che si è meritato l’apprezzamento internazionale (distante dalle nostre questioni di bottega) e riesce, con la propria qualità artistica e con la propria serietà amministrativa, ad attirare sponsor e pubblico.
(Hans Sachs) 19 feb 2010 16:46
giovedì 18 febbraio 2010
TROPPE LEGGI, NESSUNA LEGGE, Il Tempo 18 febbraio
TROPPE LEGGI, NESSUNA LEGGE
Giuseppe Pennisi
Per evitare la campagna elettorale in corso sia all’insegna di scandali veri e presunti, occorre ricordarsi delle lezioni di economia politica, e di politica legislativa, impartite da due economisti in pectore ma che, a ragione dei casi della vita, fecero mestieri ben differenti: il Gen. George Clark ed Alessandro Manzoni.
Nel maggio 1944, dopo l’ingresso trionfale a Roma, il Gen. Clark venne scortato a vedere i “Palazzi del Potere”. Non poteva mancare l’enorme edificio in quel di Via Venti Settembre, di cui oggi ha lo studio il Prof. On. Giulio Tremonti. Dopo aver camminato per corridoi coperti di cicche di sigarette e dall’intonaco scrostato, arrivò, con il piccolo corteo, allo scalone di marmo che ora porta agli uffici del Ministro, a saloni con mobili d’epoca, soffitti istoriati. Chiese di cosa si trattava; gli venne risposto che erano i locali della Corte dei Conti (che in effetti albergava colà). Si fece spiegare di cosa di trattasse. Gli venne illustrato il sistema dei controlli amministrativi (Corte dei Conti, inclusa). Dopo avere proferito un termine molto anglosassone (da non pronunciare in pubblico, e , quindi, da non tradurre) disse: “Che cosa meravigliosa! Peccato che in America non ce lo possiamo permettere”. Ai suoi fidi, aggiunse che con meccanismi analoghi forse gli Usa non avrebbero vinto la guerra.
Don Lisander aveva messo già a confronto la Lombardia piena di regole e di grida sotto il dominio spagnolo: la corruttela imperversa pure nei conventi, le attività economiche vanno a ramengo, manca il pane, imperversano le pandemie, le filature tessili sono sull’orlo della rovina. Traversato l’Adda, Renzo tocca con mano la differenza quando arriva nella Repubblica: le regole sono poche e chiare, l’industria di suo cugino prospera, viene bloccata pure la peste. Una dozzina di anni fa, l’attuale inquilino di Via Venti Settembre scrisse un saggio su “Lo Stato Criminogeno” in cui si documentava come la montagna di norme (spesso contraddittorie) inducono a cercare scorciatoie od a scavalcare leggi e decreti. Da allora, nonostante le promesse di ridurre tale macigno sull’economia del Paese, la montagna è diventata un proprio Himalaya: o si dispone di deroghe (suscitando quanto meno il livore di chi deve seguire il percorso formale previsto per tutti) o si resta immobili (come il figlio di Guglielmo Tell allo scoccare della freccia fatale).
Cosa fare? In queste settimane l’attenzione è sulle deroghe per la Protezione Civile ed i Grandi Eventi. Pochi sanno che la tutela del patrimonio archeologico (dalla Roma Antica a Pompei) è in gran parte nella mani di commissari che operano sulla base di ordinanze che prevedono deroghe a questo ed a quello. Poveri malcapitati che ogni giorno rischiano di essere trattati da criminali da colleghi invidiosi oppure da quei controllori che avrebbero fatto perdere la guerra al Gen.Clark o diffondere le malattie infettive della Milano sotto il giogo spagnolo. La soluzione è una sola: una normativa costituzionale come la “sunset legislation” anglosassone – nessuna legge può restare in vita più di 5-7 anni se approvato di nuovo dal Legislativo.
Giuseppe Pennisi
Per evitare la campagna elettorale in corso sia all’insegna di scandali veri e presunti, occorre ricordarsi delle lezioni di economia politica, e di politica legislativa, impartite da due economisti in pectore ma che, a ragione dei casi della vita, fecero mestieri ben differenti: il Gen. George Clark ed Alessandro Manzoni.
Nel maggio 1944, dopo l’ingresso trionfale a Roma, il Gen. Clark venne scortato a vedere i “Palazzi del Potere”. Non poteva mancare l’enorme edificio in quel di Via Venti Settembre, di cui oggi ha lo studio il Prof. On. Giulio Tremonti. Dopo aver camminato per corridoi coperti di cicche di sigarette e dall’intonaco scrostato, arrivò, con il piccolo corteo, allo scalone di marmo che ora porta agli uffici del Ministro, a saloni con mobili d’epoca, soffitti istoriati. Chiese di cosa si trattava; gli venne risposto che erano i locali della Corte dei Conti (che in effetti albergava colà). Si fece spiegare di cosa di trattasse. Gli venne illustrato il sistema dei controlli amministrativi (Corte dei Conti, inclusa). Dopo avere proferito un termine molto anglosassone (da non pronunciare in pubblico, e , quindi, da non tradurre) disse: “Che cosa meravigliosa! Peccato che in America non ce lo possiamo permettere”. Ai suoi fidi, aggiunse che con meccanismi analoghi forse gli Usa non avrebbero vinto la guerra.
Don Lisander aveva messo già a confronto la Lombardia piena di regole e di grida sotto il dominio spagnolo: la corruttela imperversa pure nei conventi, le attività economiche vanno a ramengo, manca il pane, imperversano le pandemie, le filature tessili sono sull’orlo della rovina. Traversato l’Adda, Renzo tocca con mano la differenza quando arriva nella Repubblica: le regole sono poche e chiare, l’industria di suo cugino prospera, viene bloccata pure la peste. Una dozzina di anni fa, l’attuale inquilino di Via Venti Settembre scrisse un saggio su “Lo Stato Criminogeno” in cui si documentava come la montagna di norme (spesso contraddittorie) inducono a cercare scorciatoie od a scavalcare leggi e decreti. Da allora, nonostante le promesse di ridurre tale macigno sull’economia del Paese, la montagna è diventata un proprio Himalaya: o si dispone di deroghe (suscitando quanto meno il livore di chi deve seguire il percorso formale previsto per tutti) o si resta immobili (come il figlio di Guglielmo Tell allo scoccare della freccia fatale).
Cosa fare? In queste settimane l’attenzione è sulle deroghe per la Protezione Civile ed i Grandi Eventi. Pochi sanno che la tutela del patrimonio archeologico (dalla Roma Antica a Pompei) è in gran parte nella mani di commissari che operano sulla base di ordinanze che prevedono deroghe a questo ed a quello. Poveri malcapitati che ogni giorno rischiano di essere trattati da criminali da colleghi invidiosi oppure da quei controllori che avrebbero fatto perdere la guerra al Gen.Clark o diffondere le malattie infettive della Milano sotto il giogo spagnolo. La soluzione è una sola: una normativa costituzionale come la “sunset legislation” anglosassone – nessuna legge può restare in vita più di 5-7 anni se approvato di nuovo dal Legislativo.
mercoledì 17 febbraio 2010
Da dove ripartire per le global rules Il Velino 17 febbraio
Da dove ripartire per le global rules
Roma, 17 feb (Velino) - C’è un aspetto dei problemi che in queste settimane travagliano l’Unione Monetaria Europea (UME) e che per semplicità possiamo chiamare “la crisi greca” che né gli uomini politici né la stampa sembrano avere colto: la certificazione che la strada del “grande negoziato” per giungere a “nuove regole” (pur solamente regionali, non necessariamente “globali”) non è solamente in salita ma è, in pratica, bloccata come un vicolo cielo.
Dalla “crisi greca” emerge che almeno un governo, quella della Repubblica Ellenica, ha taroccato i conti pur di avere un certificato di “ritrovata verginità”, l’accesso all’UME, di avere continuato a imbrogliarli anno dopo anno senza che gli occhialuti ed arcigni censori dell’Eurostat, della commissione Europea, della Banca Centrale Europea, del Fondo Monetario Internazionale, di avere operato presumibilmente in combutta con alcune delle maggiori banche multinazionali. In questo contesto è anche difficile cominciare a pensare ad un negoziato che, come qualsiasi altra trattativa, deve basarsi su un minimo di fiducia reciproca. In effetti, come ribadito in altre occasioni su Il Velino, manca l’elemento di base: quello che Richard Gardner chiamò la diplomazia del dollaro e della sterlina grazie al quale, dopo la seconda guerra mondiale, si misero le premesse per superare la frammentazione e gli opportunismi di breve termini caratteristici dell’economia mondiale dall’inizio del 20simo secolo. Non c’è una diplomazia del dollaro e dell’euro o meglio ancora una diplomazia del dollaro, dell’euro e dello yuan che, sulla base, di alcuni principi condivisi possa costruire i pilastri delle global rules. (segue)
Occorre allora rinunciare a quello che è stato, negli ultimi due anni, l’obiettivo di fondo del G20, del G8 e di altri vari G? Non necessariamente. Forse, bisogna mettersi su un percorso differente, forse meno ambizioso ma probabilmente più costruttivo.
Nel “dopo-crisi” saranno necessari grandi, anzi grandissimi, investimenti a lungo termine in campi come l’energia, il capitale umano, le infrastrutture, l’ambiente. Nessuno investitore, pubblico o privato, potrà da solo far fronte a questo compito. Sarà necessaria la collaborazione tra il settore pubblico ed il settore privato a livello non solo interno ma anche internazionale. Questi investimenti avranno bisogno di “regole” di concorrenza, trasparenza, uniformità contabile e via discorrendo. Tali regole potranno essere l’avvio del cammino, non breve e non semplice, verso le global rules.
Roma, 17 feb (Velino) - C’è un aspetto dei problemi che in queste settimane travagliano l’Unione Monetaria Europea (UME) e che per semplicità possiamo chiamare “la crisi greca” che né gli uomini politici né la stampa sembrano avere colto: la certificazione che la strada del “grande negoziato” per giungere a “nuove regole” (pur solamente regionali, non necessariamente “globali”) non è solamente in salita ma è, in pratica, bloccata come un vicolo cielo.
Dalla “crisi greca” emerge che almeno un governo, quella della Repubblica Ellenica, ha taroccato i conti pur di avere un certificato di “ritrovata verginità”, l’accesso all’UME, di avere continuato a imbrogliarli anno dopo anno senza che gli occhialuti ed arcigni censori dell’Eurostat, della commissione Europea, della Banca Centrale Europea, del Fondo Monetario Internazionale, di avere operato presumibilmente in combutta con alcune delle maggiori banche multinazionali. In questo contesto è anche difficile cominciare a pensare ad un negoziato che, come qualsiasi altra trattativa, deve basarsi su un minimo di fiducia reciproca. In effetti, come ribadito in altre occasioni su Il Velino, manca l’elemento di base: quello che Richard Gardner chiamò la diplomazia del dollaro e della sterlina grazie al quale, dopo la seconda guerra mondiale, si misero le premesse per superare la frammentazione e gli opportunismi di breve termini caratteristici dell’economia mondiale dall’inizio del 20simo secolo. Non c’è una diplomazia del dollaro e dell’euro o meglio ancora una diplomazia del dollaro, dell’euro e dello yuan che, sulla base, di alcuni principi condivisi possa costruire i pilastri delle global rules. (segue)
Occorre allora rinunciare a quello che è stato, negli ultimi due anni, l’obiettivo di fondo del G20, del G8 e di altri vari G? Non necessariamente. Forse, bisogna mettersi su un percorso differente, forse meno ambizioso ma probabilmente più costruttivo.
Nel “dopo-crisi” saranno necessari grandi, anzi grandissimi, investimenti a lungo termine in campi come l’energia, il capitale umano, le infrastrutture, l’ambiente. Nessuno investitore, pubblico o privato, potrà da solo far fronte a questo compito. Sarà necessaria la collaborazione tra il settore pubblico ed il settore privato a livello non solo interno ma anche internazionale. Questi investimenti avranno bisogno di “regole” di concorrenza, trasparenza, uniformità contabile e via discorrendo. Tali regole potranno essere l’avvio del cammino, non breve e non semplice, verso le global rules.
martedì 16 febbraio 2010
[Un'orchestra (privata) di giovani porta l'Italia in giro per il mondo] Ffwebmagazine 16 febbraio
La Storia Rss
[Un'orchestra (privata) di giovani porta l'Italia in giro per il mondo]
Un'altra dimostrazione che, anche per la cultura, "non è tempo di piagnistei"
Un'orchestra (privata) di giovani
porta l'Italia in giro per il mondo
di Giuseppe Pennisi Dal 17 al 24 febbraio si svolgerà la tournèe in Austria dell’Orchestra Sinfonica di Roma, diretta dal Maestro Francesco La Vecchia, e patrocinata dalla Fondazione Roma. Tappe a Graz, alla Mozart Saal dell’Universitat Salzburg e chiusura il 23 febbraio nella prestigiosa sala del Musikverein di Vienna. L’Osr, dopo la tournèe dello scorso anno culminata con la standing ovation nella sala dei Berliner Philharmoniker a Berlino, porta in Austria un programma che include i Quadri da un’esposizione di Modest Mussorgskj e le Fontane e i Pini di Roma di Ottorino Respighi. Programma che verrà replicato a Graz, Salisburgo e Vienna. In aggiunta, presenterà un matineé tutto italiano a Salisburgo: Colore Orientale op. 44, Notturno op. 70 e Tarantella op. 44 di Giuseppe Martucci, l’Intermezzo da “Manon Lescaut” di Giacomo Puccini, la Sinfonia da i “Vespri Siciliani” di Giuseppe Verdi e la Sinfonia da “Guglielmo Tell” di Gioachino Rossini.L’Osf, da molti snobbata quando circa otto anni fa è nata a conclusione di un corso di formazione per giovani orchestrali, porta quindi, senza un euro di contributo pubblico, la cultura italiana nel mondo.Quando è iniziata l’avventura dell’orchestra, pensare di fare nascere una formazione sinfonica privata con un gruppo di giovani appena usciti dai conservatori, era considerato poco credibile. Pure perché “i ragazzi” e il loro animatore, Francesco La Vecchia, non andavano con il cappello in mano dalle pubbliche amministrazioni, ma speravano di farcela con il contributo di privati e con gli incassi. Il progetto era di portare altri giovani ad ascoltare la “musica colta” con una politica di bassi prezzi, coniugando il repertorio più popolare, del Settecento e dell’Ottocento con la sinfonica del Novecento, e con qualche spruzzo di contemporaneità.La Fondazione Roma è il mecenate che ha creduto nel progetto: stanzia quasi 5 milioni d’euro l’anno (a titolo di raffronto il bilancio dell’Accademia di Santa Cecilia sfiora i 50 milioni d’euro l’anno, di cui due terzi da enti pubblici). Ora l’Osr ha una stagione da novembre a giugno all’auditorium di Via della Conciliazione (1800 posti) a Roma: vi suona le domeniche pomeriggio alle 17,30 ed i lunedì sera alle 20,30. La sala strabocca di giovani (e anche d’anziani) a ragione della politica di prezzi orientata proprio a loro. La vera carica innovativa è nei programmi che combinano Nono con Schubert, Stravinskij con Bruckner, Casella con Brahms, Ciacovskil con Malipiero, Liszt con Shostakovich, Mahler con Dukas eseguiti da una formazione stabile di 90 strumentisti di cui due terzi circa hanno attorno ai 30 anni d’età. Una ventata d’aria nuova che mancava nella capitale da quando è stata chiusa la sezione romana dell’orchestra sinfonica della Rai. Una ventata che ha innescato competizione in un comparto spesso refrattario tanto alla concorrenza quanto alla cooperazione tra istituzioni. I costi di produzione sono tenuti bassi da un organico amministrativo all’osso. L’autorevolezza si è imposta a ragione della consacrazione internazionale. Da un canto direttori stranieri di livello (come Gunter Neuhold, Lior Shamdal, Amos Talmon) hanno spesso guidato l’Osr. Da un altro, orchestre straniere importanti come i Berliner Sinfoniker sono state ospiti dell’Osr. Da un altro ancora, l’orchestra è stata invitata ripetutamente ad esibirsi all’estero.«Con il progetto Orchestra Sinfonica, la Fondazione Roma – afferma il suo Presidente, il professor Emmanuele F.M. Emanuele – ha voluto dotare la Capitale d’Italia di una grande orchestra che si affiancasse alle storiche istituzioni cittadine, allineando Roma al livello di altre grandi metropoli europee e nordamericane che contano non meno di tre, quattro o cinque (quando non addirittura dieci) Enti dediti alla produzione musicale con complessi orchestrali stabili. Con questa iniziativa abbiamo contribuito a creare occupazione in un settore, quello della musica, che risentiva da troppo tempo di vuoti e lacune lasciati sia dal lato pubblico che da quello privato. Il progetto, con tutto il valore sociale che esso contiene, è ormai giunto a piena maturità e notorietà internazionale. Lo testimoniano l’afflato con cui il lavoro dei giovani professori d’orchestra è seguito e sostenuto, così come questa nuova opportunità, che segue le ultime tournèe in Cina e Germania, di testimoniare la produzione musicale italiana nelle sedi estere più prestigiose».L’esperienza e il successo dalla Osr mostrano che c’è uno sprazzo di luce da cui emergono indicazioni precise. Serve una maggiore collaborazione tra pubblico e privato. Il ministro Bondi sta lavorando ad una revisione della normativa sugli sgravi fiscali per le donazioni alle attività culturali. Occorre pensare a un sistema di “matching grants”: il contributo pubblico affianca quello privato in misura a esso equivalente. I Festival di Aix-en-Provence e Glyndebourne si finanziano, ad esempio, per un terzo grazie al mecenatismo, per un terzo grazie al supporto pubblico, e per un terzo grazie alla biglietteria, le tournée e la vendita di spettacoli.Serve una più intensa cooperazione tra istituzioni al fine d’effettuare sinergie e proporre una gamma più vasta di offerta agli spettatori. Serve un incoraggiamento speciale per le orchestre giovani e per quelle che si dirigono a un pubblico giovane. E serve prendere esempio infine da Piero Bargellini, sindaco di Firenze, quando nel novembre 1966, agli Uffizi con il fango sino alle ginocchia disse a voce alta: «Non è tempo di piagnistei».
16 febbraio 2010
[Un'orchestra (privata) di giovani porta l'Italia in giro per il mondo]
Un'altra dimostrazione che, anche per la cultura, "non è tempo di piagnistei"
Un'orchestra (privata) di giovani
porta l'Italia in giro per il mondo
di Giuseppe Pennisi Dal 17 al 24 febbraio si svolgerà la tournèe in Austria dell’Orchestra Sinfonica di Roma, diretta dal Maestro Francesco La Vecchia, e patrocinata dalla Fondazione Roma. Tappe a Graz, alla Mozart Saal dell’Universitat Salzburg e chiusura il 23 febbraio nella prestigiosa sala del Musikverein di Vienna. L’Osr, dopo la tournèe dello scorso anno culminata con la standing ovation nella sala dei Berliner Philharmoniker a Berlino, porta in Austria un programma che include i Quadri da un’esposizione di Modest Mussorgskj e le Fontane e i Pini di Roma di Ottorino Respighi. Programma che verrà replicato a Graz, Salisburgo e Vienna. In aggiunta, presenterà un matineé tutto italiano a Salisburgo: Colore Orientale op. 44, Notturno op. 70 e Tarantella op. 44 di Giuseppe Martucci, l’Intermezzo da “Manon Lescaut” di Giacomo Puccini, la Sinfonia da i “Vespri Siciliani” di Giuseppe Verdi e la Sinfonia da “Guglielmo Tell” di Gioachino Rossini.L’Osf, da molti snobbata quando circa otto anni fa è nata a conclusione di un corso di formazione per giovani orchestrali, porta quindi, senza un euro di contributo pubblico, la cultura italiana nel mondo.Quando è iniziata l’avventura dell’orchestra, pensare di fare nascere una formazione sinfonica privata con un gruppo di giovani appena usciti dai conservatori, era considerato poco credibile. Pure perché “i ragazzi” e il loro animatore, Francesco La Vecchia, non andavano con il cappello in mano dalle pubbliche amministrazioni, ma speravano di farcela con il contributo di privati e con gli incassi. Il progetto era di portare altri giovani ad ascoltare la “musica colta” con una politica di bassi prezzi, coniugando il repertorio più popolare, del Settecento e dell’Ottocento con la sinfonica del Novecento, e con qualche spruzzo di contemporaneità.La Fondazione Roma è il mecenate che ha creduto nel progetto: stanzia quasi 5 milioni d’euro l’anno (a titolo di raffronto il bilancio dell’Accademia di Santa Cecilia sfiora i 50 milioni d’euro l’anno, di cui due terzi da enti pubblici). Ora l’Osr ha una stagione da novembre a giugno all’auditorium di Via della Conciliazione (1800 posti) a Roma: vi suona le domeniche pomeriggio alle 17,30 ed i lunedì sera alle 20,30. La sala strabocca di giovani (e anche d’anziani) a ragione della politica di prezzi orientata proprio a loro. La vera carica innovativa è nei programmi che combinano Nono con Schubert, Stravinskij con Bruckner, Casella con Brahms, Ciacovskil con Malipiero, Liszt con Shostakovich, Mahler con Dukas eseguiti da una formazione stabile di 90 strumentisti di cui due terzi circa hanno attorno ai 30 anni d’età. Una ventata d’aria nuova che mancava nella capitale da quando è stata chiusa la sezione romana dell’orchestra sinfonica della Rai. Una ventata che ha innescato competizione in un comparto spesso refrattario tanto alla concorrenza quanto alla cooperazione tra istituzioni. I costi di produzione sono tenuti bassi da un organico amministrativo all’osso. L’autorevolezza si è imposta a ragione della consacrazione internazionale. Da un canto direttori stranieri di livello (come Gunter Neuhold, Lior Shamdal, Amos Talmon) hanno spesso guidato l’Osr. Da un altro, orchestre straniere importanti come i Berliner Sinfoniker sono state ospiti dell’Osr. Da un altro ancora, l’orchestra è stata invitata ripetutamente ad esibirsi all’estero.«Con il progetto Orchestra Sinfonica, la Fondazione Roma – afferma il suo Presidente, il professor Emmanuele F.M. Emanuele – ha voluto dotare la Capitale d’Italia di una grande orchestra che si affiancasse alle storiche istituzioni cittadine, allineando Roma al livello di altre grandi metropoli europee e nordamericane che contano non meno di tre, quattro o cinque (quando non addirittura dieci) Enti dediti alla produzione musicale con complessi orchestrali stabili. Con questa iniziativa abbiamo contribuito a creare occupazione in un settore, quello della musica, che risentiva da troppo tempo di vuoti e lacune lasciati sia dal lato pubblico che da quello privato. Il progetto, con tutto il valore sociale che esso contiene, è ormai giunto a piena maturità e notorietà internazionale. Lo testimoniano l’afflato con cui il lavoro dei giovani professori d’orchestra è seguito e sostenuto, così come questa nuova opportunità, che segue le ultime tournèe in Cina e Germania, di testimoniare la produzione musicale italiana nelle sedi estere più prestigiose».L’esperienza e il successo dalla Osr mostrano che c’è uno sprazzo di luce da cui emergono indicazioni precise. Serve una maggiore collaborazione tra pubblico e privato. Il ministro Bondi sta lavorando ad una revisione della normativa sugli sgravi fiscali per le donazioni alle attività culturali. Occorre pensare a un sistema di “matching grants”: il contributo pubblico affianca quello privato in misura a esso equivalente. I Festival di Aix-en-Provence e Glyndebourne si finanziano, ad esempio, per un terzo grazie al mecenatismo, per un terzo grazie al supporto pubblico, e per un terzo grazie alla biglietteria, le tournée e la vendita di spettacoli.Serve una più intensa cooperazione tra istituzioni al fine d’effettuare sinergie e proporre una gamma più vasta di offerta agli spettatori. Serve un incoraggiamento speciale per le orchestre giovani e per quelle che si dirigono a un pubblico giovane. E serve prendere esempio infine da Piero Bargellini, sindaco di Firenze, quando nel novembre 1966, agli Uffizi con il fango sino alle ginocchia disse a voce alta: «Non è tempo di piagnistei».
16 febbraio 2010
lunedì 15 febbraio 2010
- Roma, al Teatro dell’Opera arriva il “papavero” bolscevico Il Velino 15 febbraio
Dopo tante polemiche (vere o presunte) sulla lottizzazione al Teatro dell’Opera (nonché sul centinaio di aziende in cui il Comune di Roma è azionista o totalitario o di riferimento), si è dovuto aspettare che in Campidoglio ci fosse una giunta di centrodestra per vedere nella sede principale della fondazione (il Teatro Costanzi) uno spettacolo davvero bolscevico. Talmente bolscevico che dopo essere stato uno dei lavori più eseguiti in quella che era l’Urss dagli anni Venti agli anni Sessanta, dopo la morte di Stalin sparì dal Bolshoi. Tanto che non esiste più la coreografia originaria e ne è stata inventata una nuova sulla base di appunti, brevi filmati e foto d’epoca. Si tratta de “Il papavero rosso”su musica di Reinhold Glière, ucraino, comunista e patriota sino al midollo, insignito di tutti i premi dell’Unione Sovietica ma sino ad ora del tutto sconosciuto in Occidente e quasi ignoto nella Federazione Russa. Pare che la produzione del balletto (tre atti per complessive tre ore e un quarto di spettacolo) sia stata fortissimamente voluta da Carla Fracci e Bebbe Menegatti. Non è stato trovato nessun altro teatro che lo co-producesse o noleggiasse, tanto che è legittimo chiedersi se, per un teatro in serie difficoltà finanziarie e il cui bilancio preventivo non è stato approvato senza aperti dissensi, fosse appropriato imbarcarsi in tale intrapresa.
“Il papavero rosso” vide la luce nel 1927 al Bolshoi di Mosca, riscosse un clamoroso successo popolare e il favore del regime staliniano, fu replicato in Urss migliaia di volte fino al 1962, poi declinò senza approdare in Occidente, se si eccettua un’edizione americana in piena Seconda guerra mondiale, messa in scena principalmente per compiacere l’alleato sovietico. Pare, anzi, che la richiesta fosse venuta da Stalin in persona che amava il lavoro e lo trovava, negli anni in cui Shostakovich era perseguitato e la moglie di Prokofief chiusa in un campo di concentramento, un esempio di quella che dovesse essere la “musica dell’“avvenire”. La partitura di Glière, di ascendenze belghe e autore di sinfonie, concerti e di altri tre balletti, è un mélange di melodie occidentali (da balletto e commedia musicale anni Trenta), musica per quei tempi contemporanea (charleston, fox trot), danze popolari russe, orientalismi ed echi anche dell’Asia centrale. La solidarietà tra gli scaricatori e l’equipaggio sovietico dà vita a un singolare mix di toni rivoluzionari e romantici. La trama è ambientata nella Shangai degli anni Venti: si tratta della storia d’amore dall’esito tragico tra una danzatrice cinese e il comandante di un mercantile russo sullo sfondo di una rivolta dei portuali locali contro i loro sfruttatori, principalmente occidentali o cinesi al soldo di questi ultimi. Ovviamente, il miglior amico della danzatrice è il leader di un sindacato clandestino. Gli occidentali, “padroni” del porto, sono cocainomani, lussuriosi e pervertiti (si assiste a una vera e propria “ammucchiata”). I cinesi al loro servizio sadici drogati. Le prostitute cinesi, che dovrebbero corrompere i marinai russi, buone e patriote. I marinai biondi, belli e casti. In scena fumerie d’oppio, fiori di loto e complotti, danze siamesi e charleston. La protagonista viene uccisa da un cinese al servizio dei capitalisti occidentali. Ma, grazie a sua madre, Fata della Fecondità e della Sapienza, ascende al cielo mentre tutta la Cina danza al ritmo dell’Internazionale.
Dato che del balletto originale in tre atti con apoteosi finale, su libretto di Michail Kurilko e di Vasili Tikhomirov, si sono perdute quasi interamente le tracce, il giovane coreografo Nikolay Androsov, uno specialista in danze popolari russe, firma per il corpo di ballo diretto da Carla Fracci il nuovo allestimento attingendo alle successive versioni 1949 e 1957 di Lev Lashchilin, Vasili Tikhomirov e Leonid Lavronsky. Sul podio, il maestro Andrey Anikhanov, l’orchestrazione si avvale della collaborazione di Francesco Sodini. La regia è curata da Beppe Menegatti. Le scene e gli sgargianti costumi sono creati da Elena Puliti. Il disegno luci spetta a Mario De Amicis. Interpreti principali: Oksana Kucheruk e Gaia Straccamore che si danno il cambio nei panni della protagonista Tao-Hoa, Igor Yebra e Vito Mazzeo in quelli del suo amato eroe, Damiano Mongelli in quelli del sindacalista Ma Lee-Chen, di nuovo Vito Mazzeo e Manuel Paruccini in quelli del perfido Li Schan-Fu. Il personaggio di una divinità protettrice viene ritagliato appositamente per la signora Fracci. Nonostante le riserve, si tratta di uno “spettacolone” grandioso che può interessare chi volesse rendersi conto di cosa fosse un balletto sovietico, quando per questo genere di eventi Stalin non badava a spese e divertire specialmente i ragazzi. Resta un interrogativo di fondo: un tale sforzo vale la candela?
“Il papavero rosso” vide la luce nel 1927 al Bolshoi di Mosca, riscosse un clamoroso successo popolare e il favore del regime staliniano, fu replicato in Urss migliaia di volte fino al 1962, poi declinò senza approdare in Occidente, se si eccettua un’edizione americana in piena Seconda guerra mondiale, messa in scena principalmente per compiacere l’alleato sovietico. Pare, anzi, che la richiesta fosse venuta da Stalin in persona che amava il lavoro e lo trovava, negli anni in cui Shostakovich era perseguitato e la moglie di Prokofief chiusa in un campo di concentramento, un esempio di quella che dovesse essere la “musica dell’“avvenire”. La partitura di Glière, di ascendenze belghe e autore di sinfonie, concerti e di altri tre balletti, è un mélange di melodie occidentali (da balletto e commedia musicale anni Trenta), musica per quei tempi contemporanea (charleston, fox trot), danze popolari russe, orientalismi ed echi anche dell’Asia centrale. La solidarietà tra gli scaricatori e l’equipaggio sovietico dà vita a un singolare mix di toni rivoluzionari e romantici. La trama è ambientata nella Shangai degli anni Venti: si tratta della storia d’amore dall’esito tragico tra una danzatrice cinese e il comandante di un mercantile russo sullo sfondo di una rivolta dei portuali locali contro i loro sfruttatori, principalmente occidentali o cinesi al soldo di questi ultimi. Ovviamente, il miglior amico della danzatrice è il leader di un sindacato clandestino. Gli occidentali, “padroni” del porto, sono cocainomani, lussuriosi e pervertiti (si assiste a una vera e propria “ammucchiata”). I cinesi al loro servizio sadici drogati. Le prostitute cinesi, che dovrebbero corrompere i marinai russi, buone e patriote. I marinai biondi, belli e casti. In scena fumerie d’oppio, fiori di loto e complotti, danze siamesi e charleston. La protagonista viene uccisa da un cinese al servizio dei capitalisti occidentali. Ma, grazie a sua madre, Fata della Fecondità e della Sapienza, ascende al cielo mentre tutta la Cina danza al ritmo dell’Internazionale.
Dato che del balletto originale in tre atti con apoteosi finale, su libretto di Michail Kurilko e di Vasili Tikhomirov, si sono perdute quasi interamente le tracce, il giovane coreografo Nikolay Androsov, uno specialista in danze popolari russe, firma per il corpo di ballo diretto da Carla Fracci il nuovo allestimento attingendo alle successive versioni 1949 e 1957 di Lev Lashchilin, Vasili Tikhomirov e Leonid Lavronsky. Sul podio, il maestro Andrey Anikhanov, l’orchestrazione si avvale della collaborazione di Francesco Sodini. La regia è curata da Beppe Menegatti. Le scene e gli sgargianti costumi sono creati da Elena Puliti. Il disegno luci spetta a Mario De Amicis. Interpreti principali: Oksana Kucheruk e Gaia Straccamore che si danno il cambio nei panni della protagonista Tao-Hoa, Igor Yebra e Vito Mazzeo in quelli del suo amato eroe, Damiano Mongelli in quelli del sindacalista Ma Lee-Chen, di nuovo Vito Mazzeo e Manuel Paruccini in quelli del perfido Li Schan-Fu. Il personaggio di una divinità protettrice viene ritagliato appositamente per la signora Fracci. Nonostante le riserve, si tratta di uno “spettacolone” grandioso che può interessare chi volesse rendersi conto di cosa fosse un balletto sovietico, quando per questo genere di eventi Stalin non badava a spese e divertire specialmente i ragazzi. Resta un interrogativo di fondo: un tale sforzo vale la candela?
domenica 14 febbraio 2010
ACEA : LABORATORIO DELLA RIFORMA DEI SERVIZI PUBBLICI LOCALI Il Tempo 14 febbraio
ACEA : LABORATORIO DELLA RIFORMA DEI SERVIZI PUBBLICI LOCALI
Giuseppe Pennisi
Le mura di Roma sono state coperte da manifesti dello schieramento politico all’opposizione contro la “privatizzazione” dell’Acea. E’ necessario fare chiarezza al di là delle informazioni quotidiane, necessariamente relative soltanto ad aspetti puntuali di una tematica molto vasta e complessa. I punti salienti sono due:
• In primo luogo, non si tratta di “privatizzazione” ma di diminuzione eventuale del peso , nell’azionariato, del Comune, che resta comunque l’azionista di riferimento chiaramente al sedile del conducente.
• In secondo luogo, la misura non è il risultato di una decisione interamente italiana – si possono naturalmente avere idee differenti sulla proprietà e sulle modalità di gestione di un servizio di interesse dell’intera società come quello pertinente all’acqua (ed all’energia ed al trattamento di alcune scorie)- ma la conseguenza di una normativa europea , definita dai 27 dell’UE per rendere più efficiente il “capitalismo municipale” e dare ad esso una serie di regole comuni come minimo denominatore nell’Unione.
• In terzo luogo, la stessa Banca d’Italia (che non ha competenze regolamentari in materia ma ha comunque il compito di dare indirizzo in materia economica), sottolinea da anni , tramite una serie di studi, la necessità di rispondere positivamente all’UE e migliorare la qualità del servizio.
In effetti, la norma di base (una legge di recepimento di regolamenti e direttive UE9 ha il nome del Ministro per le Politiche Comunitarie, Andrea Ronchi, non del Ministro dell’Economia e delle Finanze o di quello dello Sviluppo Economico. Ronchi ha sottolineato in tempi non sospetti (lo scorso novembre) che la normativa che porta il suo nome è “una riforma vera che metterà in moto investimenti veri” e ci pone al passa con il resto dell’UE. E’ in ogni caso riforma che interessa da vicino noi tutti. I servizi pubblici locali – acqua, trasporti di massa, rifiuti urbani – riguardano la vita quotidiana di tutti noi e sono spesso al centro di roventi polemiche nella gestione della “res pubblica”. Sono frequenti gli avvertimenti del “Mr. Prezzi” del Ministero dello Sviluppo Economico a fare attenzione ad eventuali ritocchi (all’insù) di alcune tariffe di servizi pubblici. Il settore, poi, ha un ruolo crescente nell’economia del Paese. Il servizio studi della Banca d’Italia ha diramato di recente una serie di interessanti monografie (in italiano ed inglese) relative sia a tematiche generali (la regolamentazione attuale e quella che si profila in prospettiva, la trasformazione del “capitalismo municipale” costituito non più da piccole aziende ma da grandi imprese, l’impiego della finanza di progetto e le sue implicazioni) sia a comparti specifici (trasporto pubblico locale, rifiuti urbani, distribuzione di gas naturale, il servizio idrico, taxi ed autonoleggio, e via discorrendo) . Le analisi- disponibili anche su supporto elettronico – rappresentano un contributo importante. Non solamente si tratta di studi basati su dati aggiornati ma gettano nuova luce sulla questione di fondo: nel Paese in cui Giovanni Montemartini inventò, in età giolittiana, le municipalizzate – gli abbiamo dedicato un museo a Via Ostiense ma i suoi libri sono introvabili in Italia pur se in traduzione in inglese fanno ancora testo nelle università americane – è più urgente, in questo primo scorcio di XXI secolo, liberalizzare o privatizzare al fine di migliorare il servizio e rendere il settore competitivo su scala europea ed internazionale?
In Italia, il settore comprende circa 370 imprese, con 200.000 addetti. Alcune imprese sono di grandi dimensioni (si pensi a Hera, Iride, Gesac, Aem-Asm, Acea) : risultano da un processo di aggregazione degli ultimi venti anni. I Comuni, le Province ed in certi casi le Regioni sono tra i maggiori azionisti – una delle monografie analizza dieci tra i principali casi aziendali ed individua i percorsi “virtuosi” (spesso associati ad un nocciolo duro energetico caratterizzato da alta redditività). Accanto ai “giganti” c’è una miriade di piccole e medie aziende. Complessivamente, formano oltre l’1% del pil nazionale ma in alcune Regioni rappresentano il 6% del valore aggiunto prodotto in loco. Il “capitalismo municipale”, inoltre, è internazionalizzato; l’azionista di maggioranza della società che gestisce gli aeroporti campani è una multinazionale d’origine britannica. Le società miste pubblico-privato, ed in particolare quelle con soci stranieri presentano indici di redditività superiore di quelle unicamente municipali specialmente in termine di margine operativo lordo. Un’analisi di dieci “Big” del settore delinea vincoli che frenano anche i “grandi” e che impediscono la crescita dei “piccoli”: da un canto, il disegno regolamentare è inadeguato poiché le tariffe non coprono i costi e sono comunque state fissate (anche a ragione della metodologia prevista per legge) a livelli eccessivamente bassi (scoraggiando partner privati, soprattutto quelli stranieri); da un altro, la separazione tra proprietà/controllo (quasi sempre pubblica) e gestione non è sempre sufficientemente netta quanto sarebbe auspicabile. Lo studio suggerisce “una separazione dei ruoli – di rappresentanza delle esigenze dei consumatori da quella della politica locale e dall’interesse ai risultati economici- attraverso forme di privatizzazione dei gestori con una diluizione delle partecipazioni degli enti locali. A indicazioni analoghe è giunto tempo fa uno studio del Dipartimento di Economia dell’Università di Roma “La Sapienza”: “una scelta radicale” - “una gestione pubblica separata dalla fornitura del servizio, almeno sino al momento in cui non sarà risolto il nodo degli assetti gestionali” .
Non è, però, un percorso semplice. La liberalizzazione e la privatizzazione dei servizi pubblici locali è sia nel programma con il quale l’attuale maggioranza si è presentata al corpo elettorale sia nelle “sette missioni” dell’azione di governo, delineata all’inizio della legislatura in corso. Un’analisi del Censis afferma che ciò corrispondeva, in linea di massima, agli umori della società civile. Nonostante la crisi finanziaria ed economica internazionale (che ha inciso non poco sui programmi di tutti i Governi e sulle loro priorità), La nuova varata rappresenta un passo importante verso una più netta separazione tra proprietario/controllore e gestore da scegliesi in seguito a “procedure competitive ad evidenza pubblica”. Una scuola di pensiero, molto presente in studi Ocse oltre che nelle monografie della Banca d’Italia è che la liberalizzazione (il vero “cuore” della riforma) non solo deve precedere la privatizzazione ma ne è un’efficace alternativa. Lo sostiene anche una recente rassegna commissionata dalla Fondazione Bertelsmann e presentata ad una congresso internazionale a Berlino a cui hanno partecipato circa 600 esperti.
Un tema innovativo affrontato, a questo riguardo, nei lavori della Banca d’Italia è il ruolo della finanza di progetto, uno strumento relativamente nuovo nell’esperienza italiana (nonostante che all’inizio del XIX secolo ebbe i propri primordi proprio nel nostro territorio – la ferrovia Napoli-Portici nel Regno delle Due Sicilie), ma che negli ultimi anni ha avuto una diffusione molto rapida proprio nel campo dei servizi pubblici locali. L’analisi del servizio studi della Banca d’Italia sottolinea che “la gran parte delle opere – realizzate con questo strumento – ha riguardato iniziative locali per opere poco complesse con contenute interazioni tra costruzione dell’opera e successiva gestione della stessa. E’ uno strumento con molte potenzialità per una privatizzazione graduale coniugata con liberalizzazioni a tappe, secondo un percorso definito quale stabilito nella normativa che prevede una transizione che, per i settori dell’acqua, dei trasporti locali su gomma e dei rifiuti, avverrà in cinque anni (tra la fine del 2010 e la fine del 2015). In realtà. I tempi lunghi riguardano solamente lo società quotate in Borsa (come l’Acea) che entro il 2013 dovranno restare nelle mani dell’azionista pubblico di riferimento per una quota massima del 40% ed entro il 2015 per una quota massima del 30%.
Il Campidoglio lanciando la proposta di riduzione della propria partecipazione al capitale Acea (anche e soprattutto al fine di attirare nuovi investimenti e migliorare il servizio) ha fatto da battistrada di quanto dovrà essere fatto da molte amministrazioni, non solo del Nord. A riguardo occorre ricordare che non solo l’Acquedotto Pugliese, nato in età giolittiana, ha la fama di un colabrodo ma che l’Acquedotto Emiliano-romagnolo (iniziato degli ingegneri al seguito delle truppe napoleoniche) non è da meno e le sue perdite sono una delle determinanti del “bradisisma” nella Pianura Padana.
Giuseppe Pennisi
Le mura di Roma sono state coperte da manifesti dello schieramento politico all’opposizione contro la “privatizzazione” dell’Acea. E’ necessario fare chiarezza al di là delle informazioni quotidiane, necessariamente relative soltanto ad aspetti puntuali di una tematica molto vasta e complessa. I punti salienti sono due:
• In primo luogo, non si tratta di “privatizzazione” ma di diminuzione eventuale del peso , nell’azionariato, del Comune, che resta comunque l’azionista di riferimento chiaramente al sedile del conducente.
• In secondo luogo, la misura non è il risultato di una decisione interamente italiana – si possono naturalmente avere idee differenti sulla proprietà e sulle modalità di gestione di un servizio di interesse dell’intera società come quello pertinente all’acqua (ed all’energia ed al trattamento di alcune scorie)- ma la conseguenza di una normativa europea , definita dai 27 dell’UE per rendere più efficiente il “capitalismo municipale” e dare ad esso una serie di regole comuni come minimo denominatore nell’Unione.
• In terzo luogo, la stessa Banca d’Italia (che non ha competenze regolamentari in materia ma ha comunque il compito di dare indirizzo in materia economica), sottolinea da anni , tramite una serie di studi, la necessità di rispondere positivamente all’UE e migliorare la qualità del servizio.
In effetti, la norma di base (una legge di recepimento di regolamenti e direttive UE9 ha il nome del Ministro per le Politiche Comunitarie, Andrea Ronchi, non del Ministro dell’Economia e delle Finanze o di quello dello Sviluppo Economico. Ronchi ha sottolineato in tempi non sospetti (lo scorso novembre) che la normativa che porta il suo nome è “una riforma vera che metterà in moto investimenti veri” e ci pone al passa con il resto dell’UE. E’ in ogni caso riforma che interessa da vicino noi tutti. I servizi pubblici locali – acqua, trasporti di massa, rifiuti urbani – riguardano la vita quotidiana di tutti noi e sono spesso al centro di roventi polemiche nella gestione della “res pubblica”. Sono frequenti gli avvertimenti del “Mr. Prezzi” del Ministero dello Sviluppo Economico a fare attenzione ad eventuali ritocchi (all’insù) di alcune tariffe di servizi pubblici. Il settore, poi, ha un ruolo crescente nell’economia del Paese. Il servizio studi della Banca d’Italia ha diramato di recente una serie di interessanti monografie (in italiano ed inglese) relative sia a tematiche generali (la regolamentazione attuale e quella che si profila in prospettiva, la trasformazione del “capitalismo municipale” costituito non più da piccole aziende ma da grandi imprese, l’impiego della finanza di progetto e le sue implicazioni) sia a comparti specifici (trasporto pubblico locale, rifiuti urbani, distribuzione di gas naturale, il servizio idrico, taxi ed autonoleggio, e via discorrendo) . Le analisi- disponibili anche su supporto elettronico – rappresentano un contributo importante. Non solamente si tratta di studi basati su dati aggiornati ma gettano nuova luce sulla questione di fondo: nel Paese in cui Giovanni Montemartini inventò, in età giolittiana, le municipalizzate – gli abbiamo dedicato un museo a Via Ostiense ma i suoi libri sono introvabili in Italia pur se in traduzione in inglese fanno ancora testo nelle università americane – è più urgente, in questo primo scorcio di XXI secolo, liberalizzare o privatizzare al fine di migliorare il servizio e rendere il settore competitivo su scala europea ed internazionale?
In Italia, il settore comprende circa 370 imprese, con 200.000 addetti. Alcune imprese sono di grandi dimensioni (si pensi a Hera, Iride, Gesac, Aem-Asm, Acea) : risultano da un processo di aggregazione degli ultimi venti anni. I Comuni, le Province ed in certi casi le Regioni sono tra i maggiori azionisti – una delle monografie analizza dieci tra i principali casi aziendali ed individua i percorsi “virtuosi” (spesso associati ad un nocciolo duro energetico caratterizzato da alta redditività). Accanto ai “giganti” c’è una miriade di piccole e medie aziende. Complessivamente, formano oltre l’1% del pil nazionale ma in alcune Regioni rappresentano il 6% del valore aggiunto prodotto in loco. Il “capitalismo municipale”, inoltre, è internazionalizzato; l’azionista di maggioranza della società che gestisce gli aeroporti campani è una multinazionale d’origine britannica. Le società miste pubblico-privato, ed in particolare quelle con soci stranieri presentano indici di redditività superiore di quelle unicamente municipali specialmente in termine di margine operativo lordo. Un’analisi di dieci “Big” del settore delinea vincoli che frenano anche i “grandi” e che impediscono la crescita dei “piccoli”: da un canto, il disegno regolamentare è inadeguato poiché le tariffe non coprono i costi e sono comunque state fissate (anche a ragione della metodologia prevista per legge) a livelli eccessivamente bassi (scoraggiando partner privati, soprattutto quelli stranieri); da un altro, la separazione tra proprietà/controllo (quasi sempre pubblica) e gestione non è sempre sufficientemente netta quanto sarebbe auspicabile. Lo studio suggerisce “una separazione dei ruoli – di rappresentanza delle esigenze dei consumatori da quella della politica locale e dall’interesse ai risultati economici- attraverso forme di privatizzazione dei gestori con una diluizione delle partecipazioni degli enti locali. A indicazioni analoghe è giunto tempo fa uno studio del Dipartimento di Economia dell’Università di Roma “La Sapienza”: “una scelta radicale” - “una gestione pubblica separata dalla fornitura del servizio, almeno sino al momento in cui non sarà risolto il nodo degli assetti gestionali” .
Non è, però, un percorso semplice. La liberalizzazione e la privatizzazione dei servizi pubblici locali è sia nel programma con il quale l’attuale maggioranza si è presentata al corpo elettorale sia nelle “sette missioni” dell’azione di governo, delineata all’inizio della legislatura in corso. Un’analisi del Censis afferma che ciò corrispondeva, in linea di massima, agli umori della società civile. Nonostante la crisi finanziaria ed economica internazionale (che ha inciso non poco sui programmi di tutti i Governi e sulle loro priorità), La nuova varata rappresenta un passo importante verso una più netta separazione tra proprietario/controllore e gestore da scegliesi in seguito a “procedure competitive ad evidenza pubblica”. Una scuola di pensiero, molto presente in studi Ocse oltre che nelle monografie della Banca d’Italia è che la liberalizzazione (il vero “cuore” della riforma) non solo deve precedere la privatizzazione ma ne è un’efficace alternativa. Lo sostiene anche una recente rassegna commissionata dalla Fondazione Bertelsmann e presentata ad una congresso internazionale a Berlino a cui hanno partecipato circa 600 esperti.
Un tema innovativo affrontato, a questo riguardo, nei lavori della Banca d’Italia è il ruolo della finanza di progetto, uno strumento relativamente nuovo nell’esperienza italiana (nonostante che all’inizio del XIX secolo ebbe i propri primordi proprio nel nostro territorio – la ferrovia Napoli-Portici nel Regno delle Due Sicilie), ma che negli ultimi anni ha avuto una diffusione molto rapida proprio nel campo dei servizi pubblici locali. L’analisi del servizio studi della Banca d’Italia sottolinea che “la gran parte delle opere – realizzate con questo strumento – ha riguardato iniziative locali per opere poco complesse con contenute interazioni tra costruzione dell’opera e successiva gestione della stessa. E’ uno strumento con molte potenzialità per una privatizzazione graduale coniugata con liberalizzazioni a tappe, secondo un percorso definito quale stabilito nella normativa che prevede una transizione che, per i settori dell’acqua, dei trasporti locali su gomma e dei rifiuti, avverrà in cinque anni (tra la fine del 2010 e la fine del 2015). In realtà. I tempi lunghi riguardano solamente lo società quotate in Borsa (come l’Acea) che entro il 2013 dovranno restare nelle mani dell’azionista pubblico di riferimento per una quota massima del 40% ed entro il 2015 per una quota massima del 30%.
Il Campidoglio lanciando la proposta di riduzione della propria partecipazione al capitale Acea (anche e soprattutto al fine di attirare nuovi investimenti e migliorare il servizio) ha fatto da battistrada di quanto dovrà essere fatto da molte amministrazioni, non solo del Nord. A riguardo occorre ricordare che non solo l’Acquedotto Pugliese, nato in età giolittiana, ha la fama di un colabrodo ma che l’Acquedotto Emiliano-romagnolo (iniziato degli ingegneri al seguito delle truppe napoleoniche) non è da meno e le sue perdite sono una delle determinanti del “bradisisma” nella Pianura Padana.
sabato 13 febbraio 2010
SULLE PENSIONI L’UE GUARDI L’ITALIA Il Tempo 13 febbraio
SULLE PENSIONI L’UE GUARDI L’ITALIA
Giuseppe Pennisi
Il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha posto sul tavolo dei Capi di Statoedi Governo dell’Unione Europea (UE) il nodo dell’invecchiuamento della popolazione e , quindi, dell’onere che la crescente spesa previdenziale pone al Continente non solamente in termini di distribuzione delle risorse pubbliche tra le varie esigenze della collettività ma anche e soprattutto di effetti sull’economia reale.Proprio da poche settimane, un nuovo rapporto Ocse ha sottolineato come senza modifiche all’età effettiva di pensionamento l’Europa avreà una palla al piede che ne rallenterà ulteriomente la crescita e ne frenerà la ripresa dalla crisi iniziata nel 2007.
Quale può essere la prossima mossa? In materia di pensioni –lo sappiamo –gli appelli minacciano di essere “prediche inutili” sino a quando non si è sull’orlo di un baratro –come in Italia avvenne nel 1992 e nel 1995. Oggi non siamo di fronte ad un abisso , ma l’economia dell’area dell’euro (i casi di Grecia e Spagna ce lo mostrano)èalle prese con forti tensioni e crescenti divari di produttività.Quindi,è il momento di fare proposte concrete. Alcuni anni fà,nel 2005, un documento della Banca Mondiale indicava che un solo modello dei tanti esistenti sarebbe potuto essere la base per un sistema previdenziale europeo in quanto aveva due caretteristiche importanti: a) rappresentava un minimo denominatore comune tra sistemi molto differenti con radici storiche diverse sin dai tempi di Bismarck (per una tipologia di regimi pensionistici) e di Beveridge (per un’altra) ; b) era ,nel medio e lungo periodo,sostenibile , sotto il profilo sia finanziario sia economico. Il documento affermava apertamente che questo modello era il sistema contributivo figurativo (Notional Defined Contribution- NDC nel gergo internazionale degli specialisti di previdenza) messo simultaneamente in atto in Italia ed in Svezia nel 1995. Il Tempo non hai fatto scotti su alcuni difetti della versione italiana rispetto quella svedede, essenzialemente avere previsto una transizione molto lunga – 18 anni in Italia rispetto a 3 in Svezia –per tutelare fasce di età che 15 anni fà erano molto influenti nei e sui sindacati. Da un canto,però,il modello è l’unico tra i tanti esistenti , che la Banca mondialeè riuscita ad individuare. Da un altro, la lunga transizione italiana sta per terminare.
Il modello ha sopratutto un aspetto che dovrebbe essere apprezzato dal resto dell’UE:senza cambiare l’età della pensione con una legge specifica , induce i lavoratori ad andare più tardi a riposo poiché l’assegno pensionistico è tanto più consistente quanto più si vuole si può lavorare. All’inizio di gennaio,il Premio Nobele James Heckman lo ha ribadito in un saggio in corso di pubblicazione ma già disponibile su formato elettronico .
Nel contesto europeo,quindi,l’Italia ha una carta vincente .La giochi.
Giuseppe Pennisi
Il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha posto sul tavolo dei Capi di Statoedi Governo dell’Unione Europea (UE) il nodo dell’invecchiuamento della popolazione e , quindi, dell’onere che la crescente spesa previdenziale pone al Continente non solamente in termini di distribuzione delle risorse pubbliche tra le varie esigenze della collettività ma anche e soprattutto di effetti sull’economia reale.Proprio da poche settimane, un nuovo rapporto Ocse ha sottolineato come senza modifiche all’età effettiva di pensionamento l’Europa avreà una palla al piede che ne rallenterà ulteriomente la crescita e ne frenerà la ripresa dalla crisi iniziata nel 2007.
Quale può essere la prossima mossa? In materia di pensioni –lo sappiamo –gli appelli minacciano di essere “prediche inutili” sino a quando non si è sull’orlo di un baratro –come in Italia avvenne nel 1992 e nel 1995. Oggi non siamo di fronte ad un abisso , ma l’economia dell’area dell’euro (i casi di Grecia e Spagna ce lo mostrano)èalle prese con forti tensioni e crescenti divari di produttività.Quindi,è il momento di fare proposte concrete. Alcuni anni fà,nel 2005, un documento della Banca Mondiale indicava che un solo modello dei tanti esistenti sarebbe potuto essere la base per un sistema previdenziale europeo in quanto aveva due caretteristiche importanti: a) rappresentava un minimo denominatore comune tra sistemi molto differenti con radici storiche diverse sin dai tempi di Bismarck (per una tipologia di regimi pensionistici) e di Beveridge (per un’altra) ; b) era ,nel medio e lungo periodo,sostenibile , sotto il profilo sia finanziario sia economico. Il documento affermava apertamente che questo modello era il sistema contributivo figurativo (Notional Defined Contribution- NDC nel gergo internazionale degli specialisti di previdenza) messo simultaneamente in atto in Italia ed in Svezia nel 1995. Il Tempo non hai fatto scotti su alcuni difetti della versione italiana rispetto quella svedede, essenzialemente avere previsto una transizione molto lunga – 18 anni in Italia rispetto a 3 in Svezia –per tutelare fasce di età che 15 anni fà erano molto influenti nei e sui sindacati. Da un canto,però,il modello è l’unico tra i tanti esistenti , che la Banca mondialeè riuscita ad individuare. Da un altro, la lunga transizione italiana sta per terminare.
Il modello ha sopratutto un aspetto che dovrebbe essere apprezzato dal resto dell’UE:senza cambiare l’età della pensione con una legge specifica , induce i lavoratori ad andare più tardi a riposo poiché l’assegno pensionistico è tanto più consistente quanto più si vuole si può lavorare. All’inizio di gennaio,il Premio Nobele James Heckman lo ha ribadito in un saggio in corso di pubblicazione ma già disponibile su formato elettronico .
Nel contesto europeo,quindi,l’Italia ha una carta vincente .La giochi.
venerdì 12 febbraio 2010
Leonard Bernstein, un ritorno con Candide Milano Finanza 13 febbraio
Leonard Bernstein, un ritorno con Candide
Di Giuseppe Pennisi
inscena
Leonard Bernstein è morto 20 anni fa e in Italia la ricorrenza viene celebrata con molte iniziative perché il grande direttore d'orchestra e compositore fu Presidente Onorario dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia e frequente concertatore alla Scala e in altri teatri. Le celebrazioni iniziano con un concerto all'Accademia di Santa Cecilia (replicato fino al 16 febbraio) e con la messinscena di Candide da parte dei teatri di Livorno, Lucca, Pisa e Ravenna (dove si può vedere fino a fine marzo). Il programma del concerto (diretto da Wayne Marshall) giustappone il vitalismo americano della suite di West Side Story al misticismo dei Chichester Psalms e lo sperimentalismo di Prelude, Fugue and Riffs con l'ironia della suite di Candide. Una vera chicca è invece l'opera, raro esempio di coproduzione internazionale e interamente affidata a un cast di giovani, in gran parte debuttanti. Molto meno noto di West Side Story, il lavoro è una satira sferzante dell'America degli anni 50. Piena di brio e di fantasia (celebre il rondò della sifilide all'inizio della seconda parte) affrontò anche problemi con la censura. Di recente sul palco di Scala, San Carlo e Teatro Argentina di Roma, è una novità per il pubblico toscano e romagnolo. (riproduzione riservata)
Di Giuseppe Pennisi
inscena
Leonard Bernstein è morto 20 anni fa e in Italia la ricorrenza viene celebrata con molte iniziative perché il grande direttore d'orchestra e compositore fu Presidente Onorario dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia e frequente concertatore alla Scala e in altri teatri. Le celebrazioni iniziano con un concerto all'Accademia di Santa Cecilia (replicato fino al 16 febbraio) e con la messinscena di Candide da parte dei teatri di Livorno, Lucca, Pisa e Ravenna (dove si può vedere fino a fine marzo). Il programma del concerto (diretto da Wayne Marshall) giustappone il vitalismo americano della suite di West Side Story al misticismo dei Chichester Psalms e lo sperimentalismo di Prelude, Fugue and Riffs con l'ironia della suite di Candide. Una vera chicca è invece l'opera, raro esempio di coproduzione internazionale e interamente affidata a un cast di giovani, in gran parte debuttanti. Molto meno noto di West Side Story, il lavoro è una satira sferzante dell'America degli anni 50. Piena di brio e di fantasia (celebre il rondò della sifilide all'inizio della seconda parte) affrontò anche problemi con la censura. Di recente sul palco di Scala, San Carlo e Teatro Argentina di Roma, è una novità per il pubblico toscano e romagnolo. (riproduzione riservata)
TRE DIFFICILI TAVOLI ED UN’AMARA MEDICINA Avvenire 12 Febbraio
TRE DIFFICILI TAVOLI ED UN’AMARA MEDICINA
Giuseppe Pennisi
Per afferrare la partita tra Ue, Grecia ed il resto del mondo ( senza arrampicarsi su temi economici complicati), basta rivedere un film di successo : A Beatiful Mind. Il film trattava della vita del Premio Nobel John Nash, uno dei principali innovatori della “teoria dei giochi”. A tal fine prendeva un impianto teorico-matematico molto complesso (per l’appunto la “teoria dei giochi”) alla portata di tutti.
Tra Ue, Grecia ed il resto del mondo (stilizziamo per semplificare) è iniziata la seconda fase di un “gioco” complicato. La prima è stata abbastanza semplice: i greci (in particolare il Capo del Governo, George Papandreu, erede di una vera e propria dinastia di Primi Ministri) sono orgogliosi dei loro 2500 anni di civiltà. Quindi, il programma di risanamento (ingoiato a malincuore dopo oltre un mese di duri negoziati) è presentato come proposto dal Governo di Atene, mentre tutti sanno che i cuochi sono stati la Banca centrale europea, la Commissione monetario e il Fondo monetario. Inoltre, la ricetta predisposta (è sufficiente leggere i dettagli a p. di Avvenire) è digeribile ma amara.
Sin qui la partita è stata un pirandelliano “gioco delle parti” . Ora si entra in un gioco multiplo in cui ciascuno dei tre protagonisti opera su almeno due tavoli con poste (e carte) differenti. Su un tavolo, il Governo di Atene gioca la propria credibilità di Esecutivo da pochi mesi in carica con il proprio elettorato (a cui deve somministrare la minestra amara) e su un altro con la UE per convincerla ad essere flessibile nella quantità di zuppa da fare trangugiare. La UE, mentre su un tavolo è alle prese con la Grecia, su un altro “gioca” con il resto del mondo che, da questo “caso”, trae indicazioni sulla compattezza (oltre che sulla coesione) dell’unione monetaria. Vince chi riesce a fare poker simultaneamente su tutti i tavoli. In una scena del film ricordato, Nash dimostra che l’esito più probabile è un equilibrio dinamico (che può diventare instabile), assumendo che tutti avessero le medesime informazioni e fossero sullo stesso piano.
In questo gioco , c’è, invece, una forte asimmetria posizionale non tanto perché (orgoglio a parte), la Grecia ha la mano tesa e l’UE la borsa. Ma per ragioni più profonde. Da un lato, nonostante i titoli allarmati, un’insolvenza della Grecia non mette a repentaglio né l’UE né la stessa unione monetaria. Negli Stati Uniti (e non solo) ci sono state insolvenze da parte di singoli Stati dell’Unione senza che si andasse alla secessione monetaria; di solito (e a Atene lo si sa) la conseguenza è stata una medicina ancora più amara. Da un altro, tra Natale e l’inizio dell’anno, (mentre la crisi greca usciva dei periodici tecnici e cominciava ad interessare le prime pagine dei quotidiani),.il direttore dell’ufficio legale della Bce, Phoebus Athanassiou, ha scritto una dotta memoria (riservata per quanto possa esserlo un documento che circola nei piani alti di Miniesteri economici e Banche centrali) che le caratteristiche di un parere pro veritatis: mentre i trattati Ue prevedono procedure di uscita volontaria ed anche di espulsione, quando si entra nell’euro si accetta una condizione di “perpetuità” (come quando si fanno i voti perpetui per essere ammessi in un ordine religioso). Naturalmente se si è espulsi dell’Ue, non esistono più le condizioni per restare nell’euro. E, di converso, se si rompe il patto di “perpetuità”, si è automaticamente fuori pure dall’Ue con tutte le conseguenze che ne derivano. A Papandreu gli è stato detto chiaro e forte.
Giuseppe Pennisi
Per afferrare la partita tra Ue, Grecia ed il resto del mondo ( senza arrampicarsi su temi economici complicati), basta rivedere un film di successo : A Beatiful Mind. Il film trattava della vita del Premio Nobel John Nash, uno dei principali innovatori della “teoria dei giochi”. A tal fine prendeva un impianto teorico-matematico molto complesso (per l’appunto la “teoria dei giochi”) alla portata di tutti.
Tra Ue, Grecia ed il resto del mondo (stilizziamo per semplificare) è iniziata la seconda fase di un “gioco” complicato. La prima è stata abbastanza semplice: i greci (in particolare il Capo del Governo, George Papandreu, erede di una vera e propria dinastia di Primi Ministri) sono orgogliosi dei loro 2500 anni di civiltà. Quindi, il programma di risanamento (ingoiato a malincuore dopo oltre un mese di duri negoziati) è presentato come proposto dal Governo di Atene, mentre tutti sanno che i cuochi sono stati la Banca centrale europea, la Commissione monetario e il Fondo monetario. Inoltre, la ricetta predisposta (è sufficiente leggere i dettagli a p. di Avvenire) è digeribile ma amara.
Sin qui la partita è stata un pirandelliano “gioco delle parti” . Ora si entra in un gioco multiplo in cui ciascuno dei tre protagonisti opera su almeno due tavoli con poste (e carte) differenti. Su un tavolo, il Governo di Atene gioca la propria credibilità di Esecutivo da pochi mesi in carica con il proprio elettorato (a cui deve somministrare la minestra amara) e su un altro con la UE per convincerla ad essere flessibile nella quantità di zuppa da fare trangugiare. La UE, mentre su un tavolo è alle prese con la Grecia, su un altro “gioca” con il resto del mondo che, da questo “caso”, trae indicazioni sulla compattezza (oltre che sulla coesione) dell’unione monetaria. Vince chi riesce a fare poker simultaneamente su tutti i tavoli. In una scena del film ricordato, Nash dimostra che l’esito più probabile è un equilibrio dinamico (che può diventare instabile), assumendo che tutti avessero le medesime informazioni e fossero sullo stesso piano.
In questo gioco , c’è, invece, una forte asimmetria posizionale non tanto perché (orgoglio a parte), la Grecia ha la mano tesa e l’UE la borsa. Ma per ragioni più profonde. Da un lato, nonostante i titoli allarmati, un’insolvenza della Grecia non mette a repentaglio né l’UE né la stessa unione monetaria. Negli Stati Uniti (e non solo) ci sono state insolvenze da parte di singoli Stati dell’Unione senza che si andasse alla secessione monetaria; di solito (e a Atene lo si sa) la conseguenza è stata una medicina ancora più amara. Da un altro, tra Natale e l’inizio dell’anno, (mentre la crisi greca usciva dei periodici tecnici e cominciava ad interessare le prime pagine dei quotidiani),.il direttore dell’ufficio legale della Bce, Phoebus Athanassiou, ha scritto una dotta memoria (riservata per quanto possa esserlo un documento che circola nei piani alti di Miniesteri economici e Banche centrali) che le caratteristiche di un parere pro veritatis: mentre i trattati Ue prevedono procedure di uscita volontaria ed anche di espulsione, quando si entra nell’euro si accetta una condizione di “perpetuità” (come quando si fanno i voti perpetui per essere ammessi in un ordine religioso). Naturalmente se si è espulsi dell’Ue, non esistono più le condizioni per restare nell’euro. E, di converso, se si rompe il patto di “perpetuità”, si è automaticamente fuori pure dall’Ue con tutte le conseguenze che ne derivano. A Papandreu gli è stato detto chiaro e forte.
LA GRECIA TRASGRESSIVA DOVRA' SUPERARE GLI ESAMI DI MARZO L'Occidentale 12 febbraio
Nella letteratura della seconda metà dell’Ottocento e della prima metà del Novecento, “amore greco” era un eufemismo per dire rapporto trasgressivo. Di ogni ordine e grado. Deve essere rimasto tale a lungo: basta leggere il romanzo autobiografico Les Ambassades di Roger Pyerefitte, in cui ne racconta di cotte e di crude, con la prospettiva di un diplomatico francese in quello che era allora il Regno di Grecia, la Atene delle settimane precedenti lo scoppio della seconda guerra mondiale. Difficile capire perché se si è così portati alla trasgressione si sia fatto di tutto – anche taroccando i conti – per fare parte della puritana Unione Monetaria Europea (UME) , tutta impregnata di rigore, regole e parametri per fare sì che i soci siano virtuosi.
Cosa c’entrano – si potrà chiedere - l’”amore greco” ed il puritanesimo dell’UME con le decisioni assunte dal Consiglio Straordinario dei Capi di Stato e di Governo europei corsi in soccorso della Repubblica Ellenica approvando il “programma di risanamento” presentato dal Governo socialista guidato di George Papandreu (ma in effetti preparato negli uffici della Banca Centrale Europea, della Commissione Europea e del Fondo Monetario Europeo)? Un’approvazione condizionale in quanto, come i rimandati agli esami, a metà marzo l’Esecutivo dell’Ellade dovrà presentare un rapporto su come il programma viene effettivamente messo in atto.
Le trasgressioni greche ed il rigore dell’UME sono molto più pertinenti del coretto a cappella che si legge nelle dichiarazioni ufficiali e in editoriali di pseudo economisti in cui si tessono le lodi della solidarietà comunitaria, pur mostrando qualche diffidenza nella “capacitazione” (capacità in potenza) della Grecia di realizzare il programma alla base di tale solidarietà.
L’ingresso nell’UME poteva rappresentare una svolta per l’Ellade: dato che l’unione monetaria è irreversibile (non è un accordo sui cambi come lo SME di passata memoria), l’ingresso nel Club sarebbe potuto essere il grimaldello per cambiare strada – andare da un percorso peccaminoso ad uno virtuoso. Ciò, si badi bene, si applica anche al Mezzogiorno d’Italia – da siciliano di quel di Acireale posso ben dirlo senza che i conterranei si offendano anche perché lo ho scritto in un saggio pubblicato nel lontano 1999 sulla Rivista di Politica Economica. Invece di incamminarsi sul sentiero della virtù, la Grecia ha continuato a perseverare su quello della trasgressione, celando peccatucci e peccatoni e contando sulla collaborazione di altri “furbetti del quartierino”.
E’ banale – come fanno molti commentatori – soffermarsi sul disastro dei conti pubblici e della bilancia dei pagamenti della Repubblica Ellenica. Sono unicamente indicatore di una progressiva perdita di produttività. E’ questo “sottostante” che dovrebbe preoccupare molto più dei saldi.
Il programma di risanamento riguarda tali saldi perché questo è il mandato della rigorosa, occhialuta e puritana UME. Tuttavia, dobbiamo chiederci se ci si può mettere sulla strada del miglioramento dei conti (senza fare artifici contabili) se la Grecia (e non solo lei) non affronta il nodo della produttività. La storia economica insegna che con andamenti divergenti di produttività si fa fatica a restare nella stessa casa monetaria.
E’ probabile che il prossimo passo di Atene sarà “il ruggito del topo”, ossia presentarsi a metà marzo con un programma realizzato solo in parte contando sul timore di altri partner che l’UME perda la faccia se non abbraccia il figliol prodigo. Occorre spiegare a Papandreu che ciò era forse possibile prima della crisi finanziaria internazionale nel 2007 , ma stiamo andando verso un “dopo crisi” in cui ciascuno dovrà avere la propria casa in ordine poiché quando i Governi e le organizzazioni internazionali sfoggiano la shakespeariana quality of mercy (qualità della misericordia), i mercati diventando ancora più spietati e leggono il sottostante dei saldi finanziari.
Cosa c’entrano – si potrà chiedere - l’”amore greco” ed il puritanesimo dell’UME con le decisioni assunte dal Consiglio Straordinario dei Capi di Stato e di Governo europei corsi in soccorso della Repubblica Ellenica approvando il “programma di risanamento” presentato dal Governo socialista guidato di George Papandreu (ma in effetti preparato negli uffici della Banca Centrale Europea, della Commissione Europea e del Fondo Monetario Europeo)? Un’approvazione condizionale in quanto, come i rimandati agli esami, a metà marzo l’Esecutivo dell’Ellade dovrà presentare un rapporto su come il programma viene effettivamente messo in atto.
Le trasgressioni greche ed il rigore dell’UME sono molto più pertinenti del coretto a cappella che si legge nelle dichiarazioni ufficiali e in editoriali di pseudo economisti in cui si tessono le lodi della solidarietà comunitaria, pur mostrando qualche diffidenza nella “capacitazione” (capacità in potenza) della Grecia di realizzare il programma alla base di tale solidarietà.
L’ingresso nell’UME poteva rappresentare una svolta per l’Ellade: dato che l’unione monetaria è irreversibile (non è un accordo sui cambi come lo SME di passata memoria), l’ingresso nel Club sarebbe potuto essere il grimaldello per cambiare strada – andare da un percorso peccaminoso ad uno virtuoso. Ciò, si badi bene, si applica anche al Mezzogiorno d’Italia – da siciliano di quel di Acireale posso ben dirlo senza che i conterranei si offendano anche perché lo ho scritto in un saggio pubblicato nel lontano 1999 sulla Rivista di Politica Economica. Invece di incamminarsi sul sentiero della virtù, la Grecia ha continuato a perseverare su quello della trasgressione, celando peccatucci e peccatoni e contando sulla collaborazione di altri “furbetti del quartierino”.
E’ banale – come fanno molti commentatori – soffermarsi sul disastro dei conti pubblici e della bilancia dei pagamenti della Repubblica Ellenica. Sono unicamente indicatore di una progressiva perdita di produttività. E’ questo “sottostante” che dovrebbe preoccupare molto più dei saldi.
Il programma di risanamento riguarda tali saldi perché questo è il mandato della rigorosa, occhialuta e puritana UME. Tuttavia, dobbiamo chiederci se ci si può mettere sulla strada del miglioramento dei conti (senza fare artifici contabili) se la Grecia (e non solo lei) non affronta il nodo della produttività. La storia economica insegna che con andamenti divergenti di produttività si fa fatica a restare nella stessa casa monetaria.
E’ probabile che il prossimo passo di Atene sarà “il ruggito del topo”, ossia presentarsi a metà marzo con un programma realizzato solo in parte contando sul timore di altri partner che l’UME perda la faccia se non abbraccia il figliol prodigo. Occorre spiegare a Papandreu che ciò era forse possibile prima della crisi finanziaria internazionale nel 2007 , ma stiamo andando verso un “dopo crisi” in cui ciascuno dovrà avere la propria casa in ordine poiché quando i Governi e le organizzazioni internazionali sfoggiano la shakespeariana quality of mercy (qualità della misericordia), i mercati diventando ancora più spietati e leggono il sottostante dei saldi finanziari.
giovedì 11 febbraio 2010
Musica, perché “Lenny” Bernstein si considerava italiano Il Velino 11 febbraio
CLT - Musica, perché “Lenny” Bernstein si considerava italiano
Musica, perché “Lenny” Bernstein si considerava italiano
Roma, 11 feb (Velino) - Il 14 ottobre 1990 moriva a New York il compositore, pianista e direttore d’orchestra Leonard Bernstein. Era nato nel 1918 a Lawrence, nel Massachusetts, da una famiglia di ricchi ebrei polacchi, provenienti da Rovno, oggi in Ucraina. In vista delle celebrazioni per i 20 anni dalla scomparsa, è uscito di recente un saggio di Alessandro Zignani “Leonard Bernstein: un’anima divisa in due” (Zecchini Editore), dove si analizza bene la dualità di fondo della personalità di “Lenny”, come veniva chiamato dagli amici e dal pubblico di fedelissimi. Bernstein amò molto l’Italia, fu amico intimo di Sandro Pertini ed esibiva con gioia, quasi ostentazione, il distintivo di Cavaliere di Gran Croce della Repubblica. Il volume sviscera le contraddizioni sia musicali sia psicologiche del grande direttore d’orchestra e compositore che “viveva la dissociazione psichica come normalità”. Era, al tempo stesso, autore di musica ebraica dall’intricato simbolismo cabalistico e di musical inneggianti al più sfrenato vitalismo americano. Alternava entusiasmo, picchi maniacali e abissi depressivi. Sapeva essere marito e padre affettuoso, capace di restare fedele alla memoria della moglie nei lunghi anni in cui le sopravvisse, ma pure seduttore compulsivo e trasgressivo. Era un intellettuale raffinato, latinista, esperto di linguistica e filosofia, ma anche nei circoli più eleganti utilizzava il linguaggio sboccato delle matricole dei dormitori delle università yankee. Per lui la musica non era mai fine a se stessa ma il modo per meglio collegare una persona con un’altra. Grazie alle sue trasmissioni televisive (utilizzava il video con sapienza, come si è potuto rivedere in queste settimane sul canale “Classica” di Sky) iniziò alla musica un generazione d’americani, facendo diventare gli Stati Uniti il paese dove la musica “colta” è più eseguita e più ascoltata.
“Lenny” si considerava sia americano che europeo e in quanto europeo anche italiano. Per questo il ventennale dalla sua scomparsa è celebrato nel nostro Paese con particolare cura e attenzione. L’Accademia di Santa Cecilia apre le celebrazioni per Leonard Bernstein , che ne è stato suo presidente onorario dal 1983 alla morte, con un concerto diretto da Wayne Marshall in calendario dal 13 al 16 febbraio. Il programma sembra ispirato al libro di Zignani: viene giustapposto il vitalismo americano della suite di “West Side Story” al misticismo dei “Chichester Psalms”, lo sperimentalismo di “Prelude, Fugue and Riffs” con l’ironia europea della suite di “Candide”. Il programma romano, insomma, mostra le varie sfaccettature di “Lenny” ed è costruito per piacere agli abbonati che ancora lo ricordano sul podio. Altra occasione importante è la messa in scena di “Candide” da parte dei teatri di Livorno, Lucca, Pisa e Ravenna dove viene replicata sino a fine marzo prima di prendere il volo verso tre teatri polacchi che la coproducono. Altre attività, principalmente concerti, sono programmate in varie città italiane. “Candide” è una vera chicca: raro esempio di coproduzione internazionale e interamente affidato a un cast di giovani, in gran parte debuttanti. Molto meno nota di “West Side Story”, l’opera è una satira sferzante dell’America perbenista degli anni ‘50. Piena di brio e di fantasia (celebre il “rondò della sifilide” all’inizio della seconda parte) ebbe anche problemi con la censura. E’ stata vista e ascoltata di recente alla Scala, al San Carlo e al Teatro Argentina di Roma. E’ una novità per il pubblico toscano e romagnolo. In breve, vale un viaggio.
(Hans Sachs) 11 feb 2010 10:38
Musica, perché “Lenny” Bernstein si considerava italiano
Roma, 11 feb (Velino) - Il 14 ottobre 1990 moriva a New York il compositore, pianista e direttore d’orchestra Leonard Bernstein. Era nato nel 1918 a Lawrence, nel Massachusetts, da una famiglia di ricchi ebrei polacchi, provenienti da Rovno, oggi in Ucraina. In vista delle celebrazioni per i 20 anni dalla scomparsa, è uscito di recente un saggio di Alessandro Zignani “Leonard Bernstein: un’anima divisa in due” (Zecchini Editore), dove si analizza bene la dualità di fondo della personalità di “Lenny”, come veniva chiamato dagli amici e dal pubblico di fedelissimi. Bernstein amò molto l’Italia, fu amico intimo di Sandro Pertini ed esibiva con gioia, quasi ostentazione, il distintivo di Cavaliere di Gran Croce della Repubblica. Il volume sviscera le contraddizioni sia musicali sia psicologiche del grande direttore d’orchestra e compositore che “viveva la dissociazione psichica come normalità”. Era, al tempo stesso, autore di musica ebraica dall’intricato simbolismo cabalistico e di musical inneggianti al più sfrenato vitalismo americano. Alternava entusiasmo, picchi maniacali e abissi depressivi. Sapeva essere marito e padre affettuoso, capace di restare fedele alla memoria della moglie nei lunghi anni in cui le sopravvisse, ma pure seduttore compulsivo e trasgressivo. Era un intellettuale raffinato, latinista, esperto di linguistica e filosofia, ma anche nei circoli più eleganti utilizzava il linguaggio sboccato delle matricole dei dormitori delle università yankee. Per lui la musica non era mai fine a se stessa ma il modo per meglio collegare una persona con un’altra. Grazie alle sue trasmissioni televisive (utilizzava il video con sapienza, come si è potuto rivedere in queste settimane sul canale “Classica” di Sky) iniziò alla musica un generazione d’americani, facendo diventare gli Stati Uniti il paese dove la musica “colta” è più eseguita e più ascoltata.
“Lenny” si considerava sia americano che europeo e in quanto europeo anche italiano. Per questo il ventennale dalla sua scomparsa è celebrato nel nostro Paese con particolare cura e attenzione. L’Accademia di Santa Cecilia apre le celebrazioni per Leonard Bernstein , che ne è stato suo presidente onorario dal 1983 alla morte, con un concerto diretto da Wayne Marshall in calendario dal 13 al 16 febbraio. Il programma sembra ispirato al libro di Zignani: viene giustapposto il vitalismo americano della suite di “West Side Story” al misticismo dei “Chichester Psalms”, lo sperimentalismo di “Prelude, Fugue and Riffs” con l’ironia europea della suite di “Candide”. Il programma romano, insomma, mostra le varie sfaccettature di “Lenny” ed è costruito per piacere agli abbonati che ancora lo ricordano sul podio. Altra occasione importante è la messa in scena di “Candide” da parte dei teatri di Livorno, Lucca, Pisa e Ravenna dove viene replicata sino a fine marzo prima di prendere il volo verso tre teatri polacchi che la coproducono. Altre attività, principalmente concerti, sono programmate in varie città italiane. “Candide” è una vera chicca: raro esempio di coproduzione internazionale e interamente affidato a un cast di giovani, in gran parte debuttanti. Molto meno nota di “West Side Story”, l’opera è una satira sferzante dell’America perbenista degli anni ‘50. Piena di brio e di fantasia (celebre il “rondò della sifilide” all’inizio della seconda parte) ebbe anche problemi con la censura. E’ stata vista e ascoltata di recente alla Scala, al San Carlo e al Teatro Argentina di Roma. E’ una novità per il pubblico toscano e romagnolo. In breve, vale un viaggio.
(Hans Sachs) 11 feb 2010 10:38
UNA SERENISSIMA BOCCIATURA Il Tempo 11 febbraio
UNA SERENISSIMA BOCCIATURA
Giuseppe Pennisi
Prima di essere “triste”, la disciplina economica è “ficcanaso”: si occupa un po’ di tutto. Da anni si fanno analisi economiche delle Olimpiadi non sulla base di sensazioni o punti di vista, ma di solidi numeri per quantizzare costi e ricavi, delineare strategie vincenti, mettere in guardia da tattiche perdenti. L’esito di queste analisi, per chi si prende la briga di leggere e studiarle (a questo fine, non per dare sfoggio di erudizioni, forniamo i riferimenti puntuali) è un secco “no” alla candidatura di Venezia ed un deciso sì a quella di Roma.
La gara inizia molto prima della cerimonia di apertura: con la discesa in campo per essere scelti come sede. L’Università di Amburgo ha esaminato (Hamburg Contemporary Economic Discussions, n. 2, 2007) 48 candidature nell’arco di tempo 1992-2012 e costruito un modello che tiene conto della logistica, della situazione climatica, e del tasso di disoccupazione. Lo strumento si è rivelato efficacissimo nello individuare canditure che sono state effettivamente bocciate (un tasso del 100%) e nel 50% ha azzeccato quelle che hanno vinto. Dato che Olimpiadi a Venezia vogliono dire logistica più complicata a ed clima più caldo e più umido rispetto a Roma (il tasso di disoccupazione è simile),candidare Venezia ha un’alta probabilità di essere una tattica perdente mentre proporre la capitale ne ha una buona di superare questo primo ostacolo.
Le Olimpiadi, inoltre, non sono necessariamente “un affare” in termini di ricavi finanziari (giustapposti a costi finanziari) per la città, o le città, che ospitano, i loro alberghi, ristoranti, negozi e via discorrendo. Tre economisti greci hanno condotto una valutazione ex-post delle Olimpiadi di Atene del 2004 (è pubblicata sulla rivista Applied Financial Economics, Vo. 18 n. 19 del 2008); finanziariamente, hanno guadagnato solo gli sponsor ma non quando si sono svolti le gare o dopo l’evento: le loto azioni hanno avuto una rapida ma breve impennata quando la capitale greca è stata scelta- quindi, un effetto annuncio. Interessante una dettagliata valutazione ex-ante dei giochi invernali appena iniziati a Vancouver (in corso di pubblicazione ma disponibile a http://ssrn.com/abstract=974724): i costi superano i benefici, anche senza contabilizzare le spese per l’infrastruttura (perché permanenti e non connesse solo all’evento) e quantizzando l”orgoglio della città e della Provincia” di ospitare le gare. In effetti, stime analitiche dei probabili flussi turistici sono modeste (ed i costi associati al turismo olimpico superano i ricavi)- come peraltro già rilevato in occasione di altre Olimpiadi , ad esempio di quelle tenute nel 1996 ad Atlanta in Georgia).
Uno dei lavori sugli esiti economici non brillanti delle Olimpiadi di Atlanta è intitolato: “Perché gareggiare per essere sede di Giochi?” . La risposta viene data da due saggi relativi uno alle Olimpiadi di Pechino del 2008 (pubblicato nello Sports Lawyer Journal Vol. 15 del 2008) e l’altro alla Coppa del Mondo giocata in Germania nel 2006 (CESifo Working Paper No. 2582 del 2009). I costi alla collettività vengono in questi casi superati, anche di molto, dai benefici alla collettività perché l’evento riguarda l’intera Nazione. Le Olimpiadi di Pechino sono state, afferma lo studio, “un’opportunità d’oro per essere accettati a livello mondiale”. La Coppa del 2006 ha accelerato di 20-40 anni il processo di integrazione sociale tra le Germanie dell’Ovest e dell’Est. Le stime quantitative (effettuata attraverso il metodo delle valutazioni contingenti) non sono state messe in discussione da nessun statistico. Un carta di più per Roma: olimpiadi nazionali per accelerare l’integrazione del Sud con il Nord.
Giuseppe Pennisi
Prima di essere “triste”, la disciplina economica è “ficcanaso”: si occupa un po’ di tutto. Da anni si fanno analisi economiche delle Olimpiadi non sulla base di sensazioni o punti di vista, ma di solidi numeri per quantizzare costi e ricavi, delineare strategie vincenti, mettere in guardia da tattiche perdenti. L’esito di queste analisi, per chi si prende la briga di leggere e studiarle (a questo fine, non per dare sfoggio di erudizioni, forniamo i riferimenti puntuali) è un secco “no” alla candidatura di Venezia ed un deciso sì a quella di Roma.
La gara inizia molto prima della cerimonia di apertura: con la discesa in campo per essere scelti come sede. L’Università di Amburgo ha esaminato (Hamburg Contemporary Economic Discussions, n. 2, 2007) 48 candidature nell’arco di tempo 1992-2012 e costruito un modello che tiene conto della logistica, della situazione climatica, e del tasso di disoccupazione. Lo strumento si è rivelato efficacissimo nello individuare canditure che sono state effettivamente bocciate (un tasso del 100%) e nel 50% ha azzeccato quelle che hanno vinto. Dato che Olimpiadi a Venezia vogliono dire logistica più complicata a ed clima più caldo e più umido rispetto a Roma (il tasso di disoccupazione è simile),candidare Venezia ha un’alta probabilità di essere una tattica perdente mentre proporre la capitale ne ha una buona di superare questo primo ostacolo.
Le Olimpiadi, inoltre, non sono necessariamente “un affare” in termini di ricavi finanziari (giustapposti a costi finanziari) per la città, o le città, che ospitano, i loro alberghi, ristoranti, negozi e via discorrendo. Tre economisti greci hanno condotto una valutazione ex-post delle Olimpiadi di Atene del 2004 (è pubblicata sulla rivista Applied Financial Economics, Vo. 18 n. 19 del 2008); finanziariamente, hanno guadagnato solo gli sponsor ma non quando si sono svolti le gare o dopo l’evento: le loto azioni hanno avuto una rapida ma breve impennata quando la capitale greca è stata scelta- quindi, un effetto annuncio. Interessante una dettagliata valutazione ex-ante dei giochi invernali appena iniziati a Vancouver (in corso di pubblicazione ma disponibile a http://ssrn.com/abstract=974724): i costi superano i benefici, anche senza contabilizzare le spese per l’infrastruttura (perché permanenti e non connesse solo all’evento) e quantizzando l”orgoglio della città e della Provincia” di ospitare le gare. In effetti, stime analitiche dei probabili flussi turistici sono modeste (ed i costi associati al turismo olimpico superano i ricavi)- come peraltro già rilevato in occasione di altre Olimpiadi , ad esempio di quelle tenute nel 1996 ad Atlanta in Georgia).
Uno dei lavori sugli esiti economici non brillanti delle Olimpiadi di Atlanta è intitolato: “Perché gareggiare per essere sede di Giochi?” . La risposta viene data da due saggi relativi uno alle Olimpiadi di Pechino del 2008 (pubblicato nello Sports Lawyer Journal Vol. 15 del 2008) e l’altro alla Coppa del Mondo giocata in Germania nel 2006 (CESifo Working Paper No. 2582 del 2009). I costi alla collettività vengono in questi casi superati, anche di molto, dai benefici alla collettività perché l’evento riguarda l’intera Nazione. Le Olimpiadi di Pechino sono state, afferma lo studio, “un’opportunità d’oro per essere accettati a livello mondiale”. La Coppa del 2006 ha accelerato di 20-40 anni il processo di integrazione sociale tra le Germanie dell’Ovest e dell’Est. Le stime quantitative (effettuata attraverso il metodo delle valutazioni contingenti) non sono state messe in discussione da nessun statistico. Un carta di più per Roma: olimpiadi nazionali per accelerare l’integrazione del Sud con il Nord.
mercoledì 10 febbraio 2010
Ma la Fiat è ancora italiana? Ffwebmagazine 10 febbraio
Ne va del futuro della produzione nel nostro paese
Ma la Fiat è ancora italiana?
di Giuseppe Pennisi Sono passati pochi mesi – non anni luce – dalle settimane di vivacissime polemiche in cui tanto il centrodestra quanto il centrosinistra si dilaniavano sull’annacquamento, e ancora peggio, sulla perdita di italianità di quella che era stata, in tempi gloriosi, la compagnia aerea di bandiera ma da tre lustri era diventata un pozzo senza fondo per il frutto del seduto lavoro e delle non gradite imposte e tasse degli italiani. Oggi, nel dibattito sul futuro degli stabilimenti in suolo italiano della maggiore industria metalmeccanica del paese, nessuno pare preoccuparsi dell’”italianità” della Fiat. Di oggi e di domani.Cifre alla mano, la Fiat ha avuto più sangue dai contribuenti di quanto non sia stato, per così dire, “donato” dai medesimi all’Alitalia. Se non altro per la più lunga storia e per avere orientato verso il trasporto su gomma tutta la politica italiana delle infrastrutture e dell’industria sin dall’inizio del secolo scorso (quando aviazione civile e Alitalia non erano ancora nel grembo degli dei). Chi vuole avere dati precisi, legga i volumi sull’argomento di Valerio Castronuovo, affettuosamente e scherzosamente chiamato “storico di corte” di Corso Marconi, prima, e del Lingotto, poi. Del “piano Marchionne” sappiamo solo che il “canadese” (tale ama definirsi al di là delle Alpi e, a maggior ragione, sull’altra sponda dell’Atantico) ha tirato una castagna dal fuoco a Barack Obama, di cui i sindacati dell’auto sono stati i maggiori sponsor elettorali. Conclusi gli sponsali con la Chrysler, Marchionne si è poi candidato alla guida di parte di quella General Motors (Gm) che meno di un lustro fa aveva sborsato due miliardi di dollari pur di rompere il fidanzamento con Torino. La stessa Fiat pareva boccheggiante sino a ieri; il volume di Bruno Costi , presidente del Club dell’Economia, Alla ricerca dell’Economia Perduta (Roma, Unicredit Group 2009) documenta che a cavallo tra la fine del 2007 e l’inizio del 2009 , il governo Prodi utilizzò in modo ardito il decreto “mille proroghe” per dare una boccata d’ossigeno al Lingotto.Ora da casa automobilistica “minor” (e malmessa) nel contesto mondiale, il “mago Marchionne” starebbe per fare diventare la Fiat la terza o lo quarta “major”, su piano internazionale, senza aumentare l’indebitamento (tanto più che si prevede un sensibile aumento dei tassi tra un paio d’anni) e grazie ad una serie di fusioni e concentrazioni a titolo gratuito. O quasi.Ammettiamo che il piano (di cui si conoscono unicamente alcuni aspetti) vada in porto e Marchionne diventi il centro di una rete multinazionale che accorpi la Fiat con ciò che resta della Chrysler e un po’ di spezzatino di Gm. Nessuno si inquieta per la perdita di poca o tanta italianità se il cervello si sposta da Torino altrove? Chi scrive ha vissuto per oltre tre lustri negli Usa e ha una moglie francese; non è quindi un fan preconcetto dell’italianità. È però domanda che dovrebbe essere posta (da chi si agitava tanto pochi mesi fa) se non altro poiché è il sottostante del futuro a lungo termine degli stabilimenti localizzati nel nostro paese. Quale che sia la risposta a questa domanda, occorre porne una seconda: per quali mercati produrrà la rete con Marchionne al proprio fulcro e al proprio timone? Il Fondo monetario prevede che tra il 2005 e il 2050 i paesi emergenti avranno una domanda di 19 miliardi di auto e quelli Ocse di 7. Siamo certi che gli emergenti di oggi si rivolgeranno domani alla produzione del conglomerato che si sta tentando di mettere in vita? Il “canadese” ci rifletta e ce lo spieghi. È in questa spiegazione che si capirà il futuro a lungo termine non solo degli impianti di Termini Imerese e di Melfi ma del resto della produzione Fiat in Italia.
Ma la Fiat è ancora italiana?
di Giuseppe Pennisi Sono passati pochi mesi – non anni luce – dalle settimane di vivacissime polemiche in cui tanto il centrodestra quanto il centrosinistra si dilaniavano sull’annacquamento, e ancora peggio, sulla perdita di italianità di quella che era stata, in tempi gloriosi, la compagnia aerea di bandiera ma da tre lustri era diventata un pozzo senza fondo per il frutto del seduto lavoro e delle non gradite imposte e tasse degli italiani. Oggi, nel dibattito sul futuro degli stabilimenti in suolo italiano della maggiore industria metalmeccanica del paese, nessuno pare preoccuparsi dell’”italianità” della Fiat. Di oggi e di domani.Cifre alla mano, la Fiat ha avuto più sangue dai contribuenti di quanto non sia stato, per così dire, “donato” dai medesimi all’Alitalia. Se non altro per la più lunga storia e per avere orientato verso il trasporto su gomma tutta la politica italiana delle infrastrutture e dell’industria sin dall’inizio del secolo scorso (quando aviazione civile e Alitalia non erano ancora nel grembo degli dei). Chi vuole avere dati precisi, legga i volumi sull’argomento di Valerio Castronuovo, affettuosamente e scherzosamente chiamato “storico di corte” di Corso Marconi, prima, e del Lingotto, poi. Del “piano Marchionne” sappiamo solo che il “canadese” (tale ama definirsi al di là delle Alpi e, a maggior ragione, sull’altra sponda dell’Atantico) ha tirato una castagna dal fuoco a Barack Obama, di cui i sindacati dell’auto sono stati i maggiori sponsor elettorali. Conclusi gli sponsali con la Chrysler, Marchionne si è poi candidato alla guida di parte di quella General Motors (Gm) che meno di un lustro fa aveva sborsato due miliardi di dollari pur di rompere il fidanzamento con Torino. La stessa Fiat pareva boccheggiante sino a ieri; il volume di Bruno Costi , presidente del Club dell’Economia, Alla ricerca dell’Economia Perduta (Roma, Unicredit Group 2009) documenta che a cavallo tra la fine del 2007 e l’inizio del 2009 , il governo Prodi utilizzò in modo ardito il decreto “mille proroghe” per dare una boccata d’ossigeno al Lingotto.Ora da casa automobilistica “minor” (e malmessa) nel contesto mondiale, il “mago Marchionne” starebbe per fare diventare la Fiat la terza o lo quarta “major”, su piano internazionale, senza aumentare l’indebitamento (tanto più che si prevede un sensibile aumento dei tassi tra un paio d’anni) e grazie ad una serie di fusioni e concentrazioni a titolo gratuito. O quasi.Ammettiamo che il piano (di cui si conoscono unicamente alcuni aspetti) vada in porto e Marchionne diventi il centro di una rete multinazionale che accorpi la Fiat con ciò che resta della Chrysler e un po’ di spezzatino di Gm. Nessuno si inquieta per la perdita di poca o tanta italianità se il cervello si sposta da Torino altrove? Chi scrive ha vissuto per oltre tre lustri negli Usa e ha una moglie francese; non è quindi un fan preconcetto dell’italianità. È però domanda che dovrebbe essere posta (da chi si agitava tanto pochi mesi fa) se non altro poiché è il sottostante del futuro a lungo termine degli stabilimenti localizzati nel nostro paese. Quale che sia la risposta a questa domanda, occorre porne una seconda: per quali mercati produrrà la rete con Marchionne al proprio fulcro e al proprio timone? Il Fondo monetario prevede che tra il 2005 e il 2050 i paesi emergenti avranno una domanda di 19 miliardi di auto e quelli Ocse di 7. Siamo certi che gli emergenti di oggi si rivolgeranno domani alla produzione del conglomerato che si sta tentando di mettere in vita? Il “canadese” ci rifletta e ce lo spieghi. È in questa spiegazione che si capirà il futuro a lungo termine non solo degli impianti di Termini Imerese e di Melfi ma del resto della produzione Fiat in Italia.
Fiat: qual è la strategia industriale? Il Velino 10 febbraio
ECO - Fiat: qual è la strategia industriale?
Roma, 10 feb (Velino) - Sino al momento in cui scrivo questa nota, i vertici della FIAT non hanno reagito all’annuncio che nell’anno iniziato da alcune settimane, il Governo italiano è pronto a fornire al settore dell’auto unicamente incentivi per la ricerca e l’innovazione. D’altronde, l’Amministratore delegato del Lingotto Sergio Marchionne ha detto e ribadito che l’azienda non soltanto non avrebbe mai ricevuto aiuti in passato ma non era con la mano tesa per chiederne di nuovi. Una “guasconata”, ha detto uno dei suoi autorevoli predecessori. Per comprendere cosa c’è dietro tale “guasconata” occorre fare un passo indietro ed andare all' "addio senza rancore" con cui, non molti mesi fa, l’Opel (non senza il supporto del Governo tedesco) ha comportato una modifica profonda al piano industriale del Lingotto. Allora, ho scritto su un quotidiano romano che per stimare il costo della rottura (tra FIAT-Chrysler e Opel) si sarebbero dovute calcolare le opzioni reali a cui il Lingotto doveva rinunciare a ragione sia del mancato accordo sia dell’intesa raggiunta con la Magna International. Due aspetti i cui effetti si sommano l’uno sull’altro.
Innanzitutto, il “piano Marchionne” si basava sull’ipotesi che nel mercato globale, una volta che i giganti indiani e cinesi prenderanno il volo, potranno “sopravvivere” solamente le case automobilistiche con un fatturato annuo di 80 miliardi di euro ed una produzione annua di 6 milioni di auto. Oggi la situazione è, per il Lingotto, ancora più preoccupante: la Cina sta puntando sulla metalmeccanica più di quanto si sarebbe previsto qualche mese fa. Unicamente la Geely (la “piccola”, per così dire, compagnia cinese presente al salone di Detroit) progetta di esportare, entro due anni, 1.3 milioni di veicoli, tra cui cilindrate leggere al prezzo f.o.b. (free on board, ossia all’imbarco dai porti dell’Estremo Oriente) di meno di $ 10.000 ed un modello sportivo (il Beauty Leopard) al prezzo f.o.b. di $ 15.125. La Fiat ha un fatturato di 60 miliardi di euro ed una produzione di 2,5 milioni di auto. Con quel-che-resta-della-Chrysler, fatturato e produzione potrebbero crescere di un terzo: ben al di sotto dell' “obiettivo di sopravvivenza”.
Anche in quanto, nel mercato dell’Ue e dell’Europa dell’Est, la FIAT avrà a che fare con un concorrente agguerrito (la Opel) che già oggi produce 1,7 milioni di auto, e che ha ampia liquidità ed un accesso preferenziale ad oriente tramite la Sberbank, la maggiore cassa di risparmio russa. Non solo la FIAT ha perso il vantaggio dell’integrazione tecnologica con Chrysler e Opel (ambedue rivolte alle medie cilindrate), ma ha anche il danno che la tecnologia Opel rafforza chi sino ad ora si è dedicato principalmente alla produzione di componenti di grandi cilindrate. Ciò rende ancora più difficile penetrare nel mercato nord-americano: Magna International ha la propria sede in Canada (pur se radici anche in Austria e Russia) e dal 1962 esiste un accordo Usa-Canada in materia di commercio d’auto. Non è certo facile operare in un mercato europeo in rapida riconversione: un saggio recente di Pier Carlo Padoan (Vice Segretario Generale dell’Ocse) e Paolo Guerrieri (Università La Sapienza e Collège d’Europe a Bruges) dimostra come l’Europa stia passando da una crescita trainata dall’export di manufatti ad uno sviluppo promosso dalla domanda interna per i servizi alla persona e l’ambiente. In tale contesto, il mercato Ue dell’auto pare destinato a diventare sempre più selettivo.
Infine, la FIAT ha perso l’Opel a causa della propria situazione finanziaria: non ha potuto offrire liquidità a ragione di un indebitamento netto stimato dalla Sanford C. Bernstein in 6,6 miliardi di euro – un fardello pesante dato che molti prevedono un aumento dei tassi d’interesse. A fronte di questi costi (ed agli interrogativi che sollevano banche e finanziarie), Sergio Marchionne avrebbe dovuto chiarire quale è la strategia alternativa (in gergo “il piano B”) nei suoi obiettivi, contenuti e modalità d’attuazione. Se le premesse del “piano A” erano corrette, è in gioco la “sopravvivenza stessa” della maggiore industria del manifatturiero italiano. Ciò non è stato mai chiarito. Anzi l’attenzione è stata spostata a crisi gravi ma puntiformi, come quella di Termini Imerese. Senza chiarimenti di fondo sulla strategia industriale (e finanziaria), nuovi aiuti sarebbero stati soltanto panni caldi ed aspirina somministrati al di fuori di un’effettiva diagnosi, prognosi e terapia.
(Giuseppe Pennisi) 10 feb 2010 15:25
Roma, 10 feb (Velino) - Sino al momento in cui scrivo questa nota, i vertici della FIAT non hanno reagito all’annuncio che nell’anno iniziato da alcune settimane, il Governo italiano è pronto a fornire al settore dell’auto unicamente incentivi per la ricerca e l’innovazione. D’altronde, l’Amministratore delegato del Lingotto Sergio Marchionne ha detto e ribadito che l’azienda non soltanto non avrebbe mai ricevuto aiuti in passato ma non era con la mano tesa per chiederne di nuovi. Una “guasconata”, ha detto uno dei suoi autorevoli predecessori. Per comprendere cosa c’è dietro tale “guasconata” occorre fare un passo indietro ed andare all' "addio senza rancore" con cui, non molti mesi fa, l’Opel (non senza il supporto del Governo tedesco) ha comportato una modifica profonda al piano industriale del Lingotto. Allora, ho scritto su un quotidiano romano che per stimare il costo della rottura (tra FIAT-Chrysler e Opel) si sarebbero dovute calcolare le opzioni reali a cui il Lingotto doveva rinunciare a ragione sia del mancato accordo sia dell’intesa raggiunta con la Magna International. Due aspetti i cui effetti si sommano l’uno sull’altro.
Innanzitutto, il “piano Marchionne” si basava sull’ipotesi che nel mercato globale, una volta che i giganti indiani e cinesi prenderanno il volo, potranno “sopravvivere” solamente le case automobilistiche con un fatturato annuo di 80 miliardi di euro ed una produzione annua di 6 milioni di auto. Oggi la situazione è, per il Lingotto, ancora più preoccupante: la Cina sta puntando sulla metalmeccanica più di quanto si sarebbe previsto qualche mese fa. Unicamente la Geely (la “piccola”, per così dire, compagnia cinese presente al salone di Detroit) progetta di esportare, entro due anni, 1.3 milioni di veicoli, tra cui cilindrate leggere al prezzo f.o.b. (free on board, ossia all’imbarco dai porti dell’Estremo Oriente) di meno di $ 10.000 ed un modello sportivo (il Beauty Leopard) al prezzo f.o.b. di $ 15.125. La Fiat ha un fatturato di 60 miliardi di euro ed una produzione di 2,5 milioni di auto. Con quel-che-resta-della-Chrysler, fatturato e produzione potrebbero crescere di un terzo: ben al di sotto dell' “obiettivo di sopravvivenza”.
Anche in quanto, nel mercato dell’Ue e dell’Europa dell’Est, la FIAT avrà a che fare con un concorrente agguerrito (la Opel) che già oggi produce 1,7 milioni di auto, e che ha ampia liquidità ed un accesso preferenziale ad oriente tramite la Sberbank, la maggiore cassa di risparmio russa. Non solo la FIAT ha perso il vantaggio dell’integrazione tecnologica con Chrysler e Opel (ambedue rivolte alle medie cilindrate), ma ha anche il danno che la tecnologia Opel rafforza chi sino ad ora si è dedicato principalmente alla produzione di componenti di grandi cilindrate. Ciò rende ancora più difficile penetrare nel mercato nord-americano: Magna International ha la propria sede in Canada (pur se radici anche in Austria e Russia) e dal 1962 esiste un accordo Usa-Canada in materia di commercio d’auto. Non è certo facile operare in un mercato europeo in rapida riconversione: un saggio recente di Pier Carlo Padoan (Vice Segretario Generale dell’Ocse) e Paolo Guerrieri (Università La Sapienza e Collège d’Europe a Bruges) dimostra come l’Europa stia passando da una crescita trainata dall’export di manufatti ad uno sviluppo promosso dalla domanda interna per i servizi alla persona e l’ambiente. In tale contesto, il mercato Ue dell’auto pare destinato a diventare sempre più selettivo.
Infine, la FIAT ha perso l’Opel a causa della propria situazione finanziaria: non ha potuto offrire liquidità a ragione di un indebitamento netto stimato dalla Sanford C. Bernstein in 6,6 miliardi di euro – un fardello pesante dato che molti prevedono un aumento dei tassi d’interesse. A fronte di questi costi (ed agli interrogativi che sollevano banche e finanziarie), Sergio Marchionne avrebbe dovuto chiarire quale è la strategia alternativa (in gergo “il piano B”) nei suoi obiettivi, contenuti e modalità d’attuazione. Se le premesse del “piano A” erano corrette, è in gioco la “sopravvivenza stessa” della maggiore industria del manifatturiero italiano. Ciò non è stato mai chiarito. Anzi l’attenzione è stata spostata a crisi gravi ma puntiformi, come quella di Termini Imerese. Senza chiarimenti di fondo sulla strategia industriale (e finanziaria), nuovi aiuti sarebbero stati soltanto panni caldi ed aspirina somministrati al di fuori di un’effettiva diagnosi, prognosi e terapia.
(Giuseppe Pennisi) 10 feb 2010 15:25
INVESTIMENTO IN FORMAZIONE PER USCIRE DALLA CRISI Avvenire 10 febbraio
INVESTIMENTO IN FORMAZIONE PER USCIRE DALLA CRISI
Giuseppe Pennisi
Il dibattito sulle exit strategies dalla crisi sembra riguardare principalmente la redazione di nuove regole finanziarie per il governo dell’economia mondiale e la conclusione di un accordo su talie global rules. Il lavoro ed il capitale umano paiono avere un ruolo secondario nelle discussione in atto.
Per l’Europa continentale ( che da 15 anni, ossia ben prima dello scoppio della crisi, ha tasso di crescita rasoterra), un riflessione sul ruolo del lavoro e del capitale umano è essenziale. Lo insegnano le analisi strutturali sui “miracoli economici” del dopo guerra quando quasi tutti gli economisti si interrogarono sulle determinanti degli altri tassi di crescita dei Paesi distrutti dal conflitto e, successivamente, sulle ragioni che portarono all’esaurimento dei “miracoli”. Specialmente significativi i lavori di Charles Kindleberger (notissimo anche per la penna brillante che rendeva affascinante la lettura dei suoi numerosi scritti) e di Ferenc Jánossy, genero di Lukacs e di formazione matematico-ingegneristica. Scritti a pochi anni di distanza , ma senza che i due autori avessero conoscenza l’uno dei lavori dell’altro, individuano nella qualità della forza lavoro la determinante principale dei “miracoli”. Kindleberger guardava esclusivamente all’Europa occidentale. Janossy che scriveva in magiaro (è stato tardivamente tradotto in tedesco e francese) esaminava anche i “miracoli” in alcuni Paesi dell’Europa centrale . Mentre Kindleberger ha costruito un modello esplicativo su come è stato innescato il “miracolo”, le analisi di Jánossy riguardavano anche come e perché i “miracoli” si sono spenti. La individua nella discrasia tra capitale umano e struttura economica ed occupazionale; in altri termini quando il capitale umano non è più in linea con le trasformazioni della struttura della produzione e del mercato del lavoro, la spinta che ha dato vita al “miracolo” si esaurisce .Quindi, l’indicazione di una politica economica basata su una politica attiva della formazione del capitale umano. L’interessante intuizione di Jánossy ha suscitato un certo dibattito tra economisti europei negli Anni Sessanta ma è stata presto dimenticata.
Un’ipotesi simile è stata formulata , pur senza fare riferimento a Jánossy , dal Premio Nobel James Heckman della Università di Chicago e da Bas Jacobs della Università di Tilburg in un saggio uscito in Germania in gennaio: la determinante del rallentamento di lungo periodo dell’Ue viene individuata nella carenze delle politiche della formazione e di utilizzazione di capitale umano, da “re-inventare” anche a ragione dell’invecchiamento della popolazione: “occorre riconoscere la complementarità dinamica della formazione di competenze”, “è necessario espandere l’investimento nei più giovani, dove si hanno maggiori rendimenti in termini sia di efficienza sia di distribuzione del reddito”, “tentare di rimediare più tardi nel ciclo vitale a carenze di competenze è spesso inefficace”. Heckman e Jacobs sottolineano (con toni analoghi a quelli di Janossy) come la formazione di capitale umano venga frustata se il resto delle politiche economiche ha l’effetto di abbassare i rendimenti dell’istruzione e della formazione: ad esempio, alti tassi marginale d’imposizione tributaria e ammortizzatori generosi riducono i tassi di partecipazione alla forza lavoro e le ore effettivamente lavorate con la conseguenza di una utilizzazione del capital umano più bassa dell’ottimale . In sintesi, le linee di un programma di exit strategy che merita di essere posto al centro del dibattito.
Giuseppe Pennisi
Il dibattito sulle exit strategies dalla crisi sembra riguardare principalmente la redazione di nuove regole finanziarie per il governo dell’economia mondiale e la conclusione di un accordo su talie global rules. Il lavoro ed il capitale umano paiono avere un ruolo secondario nelle discussione in atto.
Per l’Europa continentale ( che da 15 anni, ossia ben prima dello scoppio della crisi, ha tasso di crescita rasoterra), un riflessione sul ruolo del lavoro e del capitale umano è essenziale. Lo insegnano le analisi strutturali sui “miracoli economici” del dopo guerra quando quasi tutti gli economisti si interrogarono sulle determinanti degli altri tassi di crescita dei Paesi distrutti dal conflitto e, successivamente, sulle ragioni che portarono all’esaurimento dei “miracoli”. Specialmente significativi i lavori di Charles Kindleberger (notissimo anche per la penna brillante che rendeva affascinante la lettura dei suoi numerosi scritti) e di Ferenc Jánossy, genero di Lukacs e di formazione matematico-ingegneristica. Scritti a pochi anni di distanza , ma senza che i due autori avessero conoscenza l’uno dei lavori dell’altro, individuano nella qualità della forza lavoro la determinante principale dei “miracoli”. Kindleberger guardava esclusivamente all’Europa occidentale. Janossy che scriveva in magiaro (è stato tardivamente tradotto in tedesco e francese) esaminava anche i “miracoli” in alcuni Paesi dell’Europa centrale . Mentre Kindleberger ha costruito un modello esplicativo su come è stato innescato il “miracolo”, le analisi di Jánossy riguardavano anche come e perché i “miracoli” si sono spenti. La individua nella discrasia tra capitale umano e struttura economica ed occupazionale; in altri termini quando il capitale umano non è più in linea con le trasformazioni della struttura della produzione e del mercato del lavoro, la spinta che ha dato vita al “miracolo” si esaurisce .Quindi, l’indicazione di una politica economica basata su una politica attiva della formazione del capitale umano. L’interessante intuizione di Jánossy ha suscitato un certo dibattito tra economisti europei negli Anni Sessanta ma è stata presto dimenticata.
Un’ipotesi simile è stata formulata , pur senza fare riferimento a Jánossy , dal Premio Nobel James Heckman della Università di Chicago e da Bas Jacobs della Università di Tilburg in un saggio uscito in Germania in gennaio: la determinante del rallentamento di lungo periodo dell’Ue viene individuata nella carenze delle politiche della formazione e di utilizzazione di capitale umano, da “re-inventare” anche a ragione dell’invecchiamento della popolazione: “occorre riconoscere la complementarità dinamica della formazione di competenze”, “è necessario espandere l’investimento nei più giovani, dove si hanno maggiori rendimenti in termini sia di efficienza sia di distribuzione del reddito”, “tentare di rimediare più tardi nel ciclo vitale a carenze di competenze è spesso inefficace”. Heckman e Jacobs sottolineano (con toni analoghi a quelli di Janossy) come la formazione di capitale umano venga frustata se il resto delle politiche economiche ha l’effetto di abbassare i rendimenti dell’istruzione e della formazione: ad esempio, alti tassi marginale d’imposizione tributaria e ammortizzatori generosi riducono i tassi di partecipazione alla forza lavoro e le ore effettivamente lavorate con la conseguenza di una utilizzazione del capital umano più bassa dell’ottimale . In sintesi, le linee di un programma di exit strategy che merita di essere posto al centro del dibattito.
lunedì 8 febbraio 2010
HENZE Opfergang in ;Musica febbraio
HENZE Opfergang I. Bostridge, J. Tomlison, R. Valentini, M. Trementini, A. Fabiani, G.P. Fiocchi, A. Mameli.
MAHLER Das Lied von der Erde A. Larsson, S. O’ Niell
Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Maestro Concertatore e Pianoforte Concertante, Antonio Pappano
Roma, Parco della Musica, Sala Santa Cecilia, 10 gennaio 2010
In una periferia, si incontrano un cane bianco smarrito, ma ben curato, e un fuggiasco. In un monologo, l'uomo racconta il suo inquietante passato. Braccato dalla polizia, in preda al panico, uccide il cane, che pur gli aveva mostrato affetto, e cade negli abissi dell'alienazione. Tema fondante il contrasto tra Bene e Male, tra Violenza e Purezza. Immediato il riferimento a Billy Budd di Benjamin Britten ( anche perché le voci sono esclusivamente maschili) pur se “il fuggiasco” ricorda L’Etranger di Albert Camus , non il Claggart di Meliville-Britten; a fronte dei suoi ululati di rabbia (nei confronti dell’esistenza proviamo quasi simpatia.
Opfergang (Immolazione nella traduzione italiana nel programma di sala; sarebbe più appropriato intitolare il lavoro, Sacrificio), è la «Konzertoper» di Hans Werner Henze, con cui l’Accademia di Santa Cecilia ha aperto il 2010 del teatro musicale. E’ un lavoro breve (circa 50 minuti) ma intenso ed innovativo, oltre che molto atteso. L’83enne Henze ha sorpreso ancora una volta: mettendo in musica un lavoro di Franz Werfel, espressionista e grande amico di Kafka, nonché ultimo marito di Alma Mahler, mantiene una cornice dodecafonica che viene utilizzata, orizzontalmente e verticalmente per la costruzione di melodie, melismi ed accordi – quasi un breve trattato di armonia redatto specialmente per questa composizione. Henze porta ancora una volta la dodecafonia al grande pubblico (come ha fatto per 60 anni) inserendo i temi, a lui consueti, della pietà e dell’accusa sociale in un “visivo musicale” eclettico. Dopo un agitato interludio dominano le battute eteree degli archi, una larga melodia dell’oboe baritono, l’angoscia della tuba wagneriana, gli “a solo” del pianoforte (magnifico Pappano al piano) per accompagnare i recitativi, i vaghi movimenti di danza dell’organetto ed un leit-motiv di Fa diesis maggiore e Do maggiore. La concertazione di Antonio Pappano svela, con tenerezza ed amore, le meraviglie della partitura. L’orchestra potrebbe essere definita un complesso da camera molto ampliato con il maestro concertatore, come si è detto, anche al pianoforte. Sette voci (il tenore schubertiano Ian Bostridge è il cagnolino, il baritono wagneriano John Tomlinson il fuggiasco, gli altri vengono dal Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia) che dal declamato scivolano nell’arioso ed anche in duetti. In breve, una “prima mondiale” d’eccezione , pur se ci si deve chiedere se la vasta Sala Santa Cecilia con i suoi 2832 posti sia la più adatta ad un lavoro così intimo.
Das Lied von der Erde di Gustav Mahler (nella seconda parte del concerto) è troppo noto per richiedere una presentazione. Nell’ultimo lustro, a Roma, lo si è ascoltato quasi ogni anno in esecuzioni dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia dell’Orchestra di Roma e del Lazio, e dell’Orchestra sinfonica di Roma. In quanto struggente addio alla vita ha un nesso molto forte con Opfergang. Inoltre apre le celebrazioni dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia per il doppio anniversario (150 anni dalla nascita , e 50 dalla morte di Mahler) in cui verrà eseguita l’integrale del compositore. Nella precedente esecuzione nei concerti dell’Accademia, nel 1994, aveva concertato Myung-Wehun Chung e i solisti erano stati Anna Larsson e Thomas Moser. A differenza della concertazione passionale di Chung (densa di richiami, ad esempio, a Sawallisch e a Maazel), la bacchetta di Pappano è tersa (come quelle di Boulez e Walter , di cui esistono ottime edizioni discografiche); l’”addio” ( Der Abschied è il lungo finale) è più straziante, meno improntato a serenità Zen. Di grandissimo livello sia Anna Larsson (di nuovo nel ruolo di protagonista) e Simon O‘ Neill.
Giuseppe Pennisi
MAHLER Das Lied von der Erde A. Larsson, S. O’ Niell
Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Maestro Concertatore e Pianoforte Concertante, Antonio Pappano
Roma, Parco della Musica, Sala Santa Cecilia, 10 gennaio 2010
In una periferia, si incontrano un cane bianco smarrito, ma ben curato, e un fuggiasco. In un monologo, l'uomo racconta il suo inquietante passato. Braccato dalla polizia, in preda al panico, uccide il cane, che pur gli aveva mostrato affetto, e cade negli abissi dell'alienazione. Tema fondante il contrasto tra Bene e Male, tra Violenza e Purezza. Immediato il riferimento a Billy Budd di Benjamin Britten ( anche perché le voci sono esclusivamente maschili) pur se “il fuggiasco” ricorda L’Etranger di Albert Camus , non il Claggart di Meliville-Britten; a fronte dei suoi ululati di rabbia (nei confronti dell’esistenza proviamo quasi simpatia.
Opfergang (Immolazione nella traduzione italiana nel programma di sala; sarebbe più appropriato intitolare il lavoro, Sacrificio), è la «Konzertoper» di Hans Werner Henze, con cui l’Accademia di Santa Cecilia ha aperto il 2010 del teatro musicale. E’ un lavoro breve (circa 50 minuti) ma intenso ed innovativo, oltre che molto atteso. L’83enne Henze ha sorpreso ancora una volta: mettendo in musica un lavoro di Franz Werfel, espressionista e grande amico di Kafka, nonché ultimo marito di Alma Mahler, mantiene una cornice dodecafonica che viene utilizzata, orizzontalmente e verticalmente per la costruzione di melodie, melismi ed accordi – quasi un breve trattato di armonia redatto specialmente per questa composizione. Henze porta ancora una volta la dodecafonia al grande pubblico (come ha fatto per 60 anni) inserendo i temi, a lui consueti, della pietà e dell’accusa sociale in un “visivo musicale” eclettico. Dopo un agitato interludio dominano le battute eteree degli archi, una larga melodia dell’oboe baritono, l’angoscia della tuba wagneriana, gli “a solo” del pianoforte (magnifico Pappano al piano) per accompagnare i recitativi, i vaghi movimenti di danza dell’organetto ed un leit-motiv di Fa diesis maggiore e Do maggiore. La concertazione di Antonio Pappano svela, con tenerezza ed amore, le meraviglie della partitura. L’orchestra potrebbe essere definita un complesso da camera molto ampliato con il maestro concertatore, come si è detto, anche al pianoforte. Sette voci (il tenore schubertiano Ian Bostridge è il cagnolino, il baritono wagneriano John Tomlinson il fuggiasco, gli altri vengono dal Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia) che dal declamato scivolano nell’arioso ed anche in duetti. In breve, una “prima mondiale” d’eccezione , pur se ci si deve chiedere se la vasta Sala Santa Cecilia con i suoi 2832 posti sia la più adatta ad un lavoro così intimo.
Das Lied von der Erde di Gustav Mahler (nella seconda parte del concerto) è troppo noto per richiedere una presentazione. Nell’ultimo lustro, a Roma, lo si è ascoltato quasi ogni anno in esecuzioni dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia dell’Orchestra di Roma e del Lazio, e dell’Orchestra sinfonica di Roma. In quanto struggente addio alla vita ha un nesso molto forte con Opfergang. Inoltre apre le celebrazioni dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia per il doppio anniversario (150 anni dalla nascita , e 50 dalla morte di Mahler) in cui verrà eseguita l’integrale del compositore. Nella precedente esecuzione nei concerti dell’Accademia, nel 1994, aveva concertato Myung-Wehun Chung e i solisti erano stati Anna Larsson e Thomas Moser. A differenza della concertazione passionale di Chung (densa di richiami, ad esempio, a Sawallisch e a Maazel), la bacchetta di Pappano è tersa (come quelle di Boulez e Walter , di cui esistono ottime edizioni discografiche); l’”addio” ( Der Abschied è il lungo finale) è più straziante, meno improntato a serenità Zen. Di grandissimo livello sia Anna Larsson (di nuovo nel ruolo di protagonista) e Simon O‘ Neill.
Giuseppe Pennisi
SULLE BORSE SOFFIA IL VENTO DAGLI USA Il Tempo 8 febbraio
SULLE BORSE SOFFIA IL VENTO DAGLI USA
Giuseppe Pennisi
Con una certa faciloneria, gli “obaniani nostrani” (ed il coretto che li accompagna sulla stampa ed in TV) hanno dato un’interpretazione semplicistica alla tormenta scatenatasi sulle Borse negli ultimi giorni. I mercati – hanno detto – puniscono i Paesi del Mediterraneo con un alto debito e deficit pubblico, come Grecia, Spagna e Portogallo. Alcuni commentatori intravedono l’inizio della fine dell’esperienza dell’unione monetaria. Altri profetizzano che la prossima bastonata colpirà anche l’Italia. E, da bravi “obaniani nostrani”, si augurano che ciò avvenga prima delle elezioni regionali ed incida sul voto. Dal coro a cappella ha preso le distanze unicamente Giancarlo Galli su Avvenire che ha correttamente criticato la montagnia di ipocrisie scritte, e lette, in questi giorni.
Come sempre, quando si intende plasmare la verità con una montagna d’ipocrisie, la lettura dei dati e dei fatti è in parte corretta. Né il baldanzoso Zapatero in Spagna né l’altezzoso Papandreu in Grecia – ambedue alla guida di litigiose coalizioni di centro sinistra – sembrano in grado di venire a capo delle difficoltà strutturali delle economie dei Paesi da loro governati- difficoltà aggravate dalla crisi internazionale non ostasse sperassero di celare taroccando i conti. Né l’uno né l’altro sono stati all’altezza di predisporre un programma di risanamento analogo a quello in corso di realizzazione in Irlanda. L’incapacità dei Governi di Madrid ed Atene di definire una strategia ha senza dubbio innescato la sfiducia degli operatori colpendo dapprima il Portogallo (dove però Governo e Parlamento stanno per giungere ad un’intesa su una finanziaria suppletiva per tenere i conti sotto controllo) e , poi, il resto dell’area dell’euro.
E’, però, errato pensare che la caduta dei listini sia un problema europeo ed in particolare dell’Europa mediterranea . Il tonfo è stato analogo alle Borse di Tokio, Shangai e Hong Kong che, per ragioni di fuso orario, chiudono le contrattazioni quando i mercati europei cominciano ad operare. In effetti, la tempesta finanziaria, in parte attesa poiché l’ascesa delle quotazioni rispondeva più all’abbondanza di liquidità che alle prospettive dell’economie reali, è stata innescata il primo febbraio quando la Casa Bianca ha delineato un programma di politica economica che , se approvato dal Congresso, porterà il disavanzo federale del 2010 al 12% del pil Usa (dopo che nel 2009 ha toccato il 9,9%): In una situazione in cui, secondo i conteggi di Steve Keen (economista vicino alla sinistra), lo stock totale di debito americano (individui, famiglie, imprese ,pubbliche amministrazioni) sfiora il 350% del pil (nel 1929, ha toccato il 150% del pil). A fronte di questo Himalaya, la strategia di Obama è chiara: un’ondata d’inflazione da esportare all’estero – come fece 40 anni fa Lindon B. Johnson. I mercati – diceva Einaudi – hanno la memoria di un elefante: sanno che ciò vuol dire un rialzo dei tassi. Che penalizzerà chi non riesce a tenere la barra dritta.
Giuseppe Pennisi
Con una certa faciloneria, gli “obaniani nostrani” (ed il coretto che li accompagna sulla stampa ed in TV) hanno dato un’interpretazione semplicistica alla tormenta scatenatasi sulle Borse negli ultimi giorni. I mercati – hanno detto – puniscono i Paesi del Mediterraneo con un alto debito e deficit pubblico, come Grecia, Spagna e Portogallo. Alcuni commentatori intravedono l’inizio della fine dell’esperienza dell’unione monetaria. Altri profetizzano che la prossima bastonata colpirà anche l’Italia. E, da bravi “obaniani nostrani”, si augurano che ciò avvenga prima delle elezioni regionali ed incida sul voto. Dal coro a cappella ha preso le distanze unicamente Giancarlo Galli su Avvenire che ha correttamente criticato la montagnia di ipocrisie scritte, e lette, in questi giorni.
Come sempre, quando si intende plasmare la verità con una montagna d’ipocrisie, la lettura dei dati e dei fatti è in parte corretta. Né il baldanzoso Zapatero in Spagna né l’altezzoso Papandreu in Grecia – ambedue alla guida di litigiose coalizioni di centro sinistra – sembrano in grado di venire a capo delle difficoltà strutturali delle economie dei Paesi da loro governati- difficoltà aggravate dalla crisi internazionale non ostasse sperassero di celare taroccando i conti. Né l’uno né l’altro sono stati all’altezza di predisporre un programma di risanamento analogo a quello in corso di realizzazione in Irlanda. L’incapacità dei Governi di Madrid ed Atene di definire una strategia ha senza dubbio innescato la sfiducia degli operatori colpendo dapprima il Portogallo (dove però Governo e Parlamento stanno per giungere ad un’intesa su una finanziaria suppletiva per tenere i conti sotto controllo) e , poi, il resto dell’area dell’euro.
E’, però, errato pensare che la caduta dei listini sia un problema europeo ed in particolare dell’Europa mediterranea . Il tonfo è stato analogo alle Borse di Tokio, Shangai e Hong Kong che, per ragioni di fuso orario, chiudono le contrattazioni quando i mercati europei cominciano ad operare. In effetti, la tempesta finanziaria, in parte attesa poiché l’ascesa delle quotazioni rispondeva più all’abbondanza di liquidità che alle prospettive dell’economie reali, è stata innescata il primo febbraio quando la Casa Bianca ha delineato un programma di politica economica che , se approvato dal Congresso, porterà il disavanzo federale del 2010 al 12% del pil Usa (dopo che nel 2009 ha toccato il 9,9%): In una situazione in cui, secondo i conteggi di Steve Keen (economista vicino alla sinistra), lo stock totale di debito americano (individui, famiglie, imprese ,pubbliche amministrazioni) sfiora il 350% del pil (nel 1929, ha toccato il 150% del pil). A fronte di questo Himalaya, la strategia di Obama è chiara: un’ondata d’inflazione da esportare all’estero – come fece 40 anni fa Lindon B. Johnson. I mercati – diceva Einaudi – hanno la memoria di un elefante: sanno che ciò vuol dire un rialzo dei tassi. Che penalizzerà chi non riesce a tenere la barra dritta.
venerdì 5 febbraio 2010
Elektra si fa in due e attira il pubblico giovane Milano Finanza 6 febbraio
Elektra si fa in due e attira il pubblico giovane
Di Giuseppe Pennisi
InSCENA
In un inizio di stagione scialbo spicca Elektra di Richard Strauss in due edizioni innovative prodotte da teatri considerati a torto minori. La prima (prodotta dagli stabili di Bolzano, Ferrara, Modena e Piacenza) circola fino a metà febbraio, la seconda è in scena a Catania in tutta la seconda metà del mese. La prima Elektra in scena è interessante e sta conducendo a teatro molti giovani. È la prima volta che il lavoro viene presentato integralmente, ossia include alcuni passaggi normalmente eliminati perché considerati sconvenienti. Visto che l'organico richiede 110 elementi sono state amalgamate due orchestre (quella di Trento e Bolzano e quella dell'Emilia e Romagna) che in teatri di piccole dimensioni creano un effetto stereofonico, avvolgendo lo spettatore. L'impianto scenico prevede sul boccascena la stanza della protagonista e nei lati due torri di tubi di metallo che portano a una spoglia reggia. Elektra è una tragedia al femminile dove si sviscerano gli abissi della psiche delle tre protagoniste. Elena Popovskaya (Elektra), Maida Hundeling, (Crisothemis) e Anna Maria Chiuri (la prima italiana nel terrificante ruolo di Clitennestra) hanno superato brillantemente la prova. A Catania l'allestimento, seppur innovativo, non è così dirompente: si punta su cantanti di esperienza come Gabriele Schaut e Janice Baird. (riproduzione riservata)
Di Giuseppe Pennisi
InSCENA
In un inizio di stagione scialbo spicca Elektra di Richard Strauss in due edizioni innovative prodotte da teatri considerati a torto minori. La prima (prodotta dagli stabili di Bolzano, Ferrara, Modena e Piacenza) circola fino a metà febbraio, la seconda è in scena a Catania in tutta la seconda metà del mese. La prima Elektra in scena è interessante e sta conducendo a teatro molti giovani. È la prima volta che il lavoro viene presentato integralmente, ossia include alcuni passaggi normalmente eliminati perché considerati sconvenienti. Visto che l'organico richiede 110 elementi sono state amalgamate due orchestre (quella di Trento e Bolzano e quella dell'Emilia e Romagna) che in teatri di piccole dimensioni creano un effetto stereofonico, avvolgendo lo spettatore. L'impianto scenico prevede sul boccascena la stanza della protagonista e nei lati due torri di tubi di metallo che portano a una spoglia reggia. Elektra è una tragedia al femminile dove si sviscerano gli abissi della psiche delle tre protagoniste. Elena Popovskaya (Elektra), Maida Hundeling, (Crisothemis) e Anna Maria Chiuri (la prima italiana nel terrificante ruolo di Clitennestra) hanno superato brillantemente la prova. A Catania l'allestimento, seppur innovativo, non è così dirompente: si punta su cantanti di esperienza come Gabriele Schaut e Janice Baird. (riproduzione riservata)
The first performance of the unabridged 'Elektra' enthralls the audience, Music & Vision February 8
Music and Vision homepage
Ensemble
Sheer Tension
The first performance of the unabridged 'Elektra'
enthralls the audience,
related by GIUSEPPE PENNISI
Stéphane Lissner, longtime director general of the Festival International de Art Lyrique in Aix en Provence and now superintendent and artistic director of La Scala, considers Richard Strauss' Elektra as the best opera of the nineteenth century. Even if this is not a universally shared opinion -- among Strauss' work for the stage, your reviewer considers Die Frau ohne Schatten as the absolute and unrivaled masterpiece -- the 'tragedy in one act' about the gruesome events in the Kingdom of the Mycenae is a milestone in opera history.
Very few are aware that the Strauss-Hofmannsthal tragedy has never been performed unabridged until very recently. In 1909, at its première in Dresden, a few verses of the text (and the relevant music) were cut because their explicit sexual references were considered unbecoming. Indeed as late as in 1968, in the Golden Encyclopedia of Music, Normal Llod calls even the 'abridged' text 'too lurid'. For the first time, the unabridged Elektra was staged last summer at the Tyrolean Festival in Erl, a small village 80km from Munich and 80km from Salzburg -- but seldom visited by music critics and by an international audience. Now, the unabridged Elektra is touring Northern Italy thanks to a joint venture by the theatres of Bolzano, Modena, Piacenza and Ferrara. The production is so successful that the tour may be extended to Reggio Emilia and Ravenna. In parallel, another production of unabridged Elektra will be on stage in Catania from 18 to 28 February 2010 and may reach Palermo next year.
It is an important event for several reasons. First, none of the theatres in the tour is a 'major' and highly subsidized 'lyric foundation'. They are small 'provincial' theatres seating five hundred to eight hundred and generally offering no more than four or five popular items every year, often with a semi-professional orchestra and chorus. Musicologist Carlo Vitali recalls that 'until the 1960s, "provincial theaters" were the backbone of Italy's operatic culture' but the 'pattern was nearly lost during the following decades, as growing travel opportunities on one side, and multimedia diffusion of grand opera productions on the other, compelled many a minor house to shut up shop'. Now, under the aegis of local councilors for culture and education, they put a premium on artistic quality rather than on business, albeit within the constraint of limited budgets. None of the theatres mentioned above has an orchestra pit for the 115 players required by the Elektra score. So for all of them, this winter it is the first time they're taking up Strauss' impervious score. Nonetheless, they have provided the best production available so far in Italy in this lackluster 2009-2010 opera season.
Second, the unabridged is far from lurid, but its sexually explicit text is essential to fully understand the Freudian overtones of the tragedy and the dazzling excitement of musical forces advancing beyond even Wagnerian lines. Third, under Gustav Kuhn's baton, two highly professional orchestras were amalgamated: the Haydn Orchestra of Trento and Bolzano and the Orchestra of Emilia-Romagna. With a strength of 115, the orchestra was not in the pit but on the stage, on the steps of a semi-circular auditorium (looking like a Greek theatre) with each element or group of elements visible to the audience. Fourth, the tragedy was staged right at the front of the stage on two levels: Elektra's claustrophobic room at the lower level and the empty Royal Palace at the upper level.
Under Kuhn's baton, the huge orchestra made the unabridged Elektra shattering: more grandiose and more savage than most performances I have listened to in the last few years. In keeping with the harsh, angular idiom, the musical phrases are mostly abrupt, but they blossom out into real cantilena whenever gentler feelings break through. The harmonies weave and clash with dissonances and the various leit-motifs are sculptured so well that one can grasp them at a first hearing.
Agamemnon's motif opens and closes the tragedy (even if the last verse is 'Orest ... Orest!'); at the beginning is a passionate accusation, at the end is an inflexible threat addressed to future development of the complicated family. In between, it recurs in Elektra's monologues. It is a harsh heroic theme set against a fervent expansive melody (Elektra's love for her father) and the glowing melodies of Chrysothemis' womanly feelings. Elektra's main objective is revenge, indeed a bloody revenge, but she is also capable of gentle emotions, as in the scene of her recognition of Orest. The third protagonist is Klytaemnestra, tormented soul. Her entrance is announced by savage, driving music. The gruesome reality of her emotions is revealed in his confrontation with Elektra, carefully revealed by the details of the score.
In this production, Elena Popovskaya alternates with Anna Katharina Behnke as Elektra, Anna Maria Chiuri with Mihaela Binder-Ungureanu as Klitaemnstra and Maria Hundeling with Michela Sburlaty as Chrysothemis. They are young and both vocally and scenically perfect in their impervious roles. Wieland Satter is a passionate Orest. Richard Decker a tired Aegisth. A cast any major theatre should strive for.
On 30 January 2010 in Piacenza, the audience was enthralled. There were many young people in the theatre. After two hours of sheer tension came fifteen minutes of curtain calls and accolades.
Copyright © 8 February 2010 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy
-------
RICHARD STRAUSS
ELEKTRA
ITALY
GERMANY
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Sheer Tension
The first performance of the unabridged 'Elektra'
enthralls the audience,
related by GIUSEPPE PENNISI
Stéphane Lissner, longtime director general of the Festival International de Art Lyrique in Aix en Provence and now superintendent and artistic director of La Scala, considers Richard Strauss' Elektra as the best opera of the nineteenth century. Even if this is not a universally shared opinion -- among Strauss' work for the stage, your reviewer considers Die Frau ohne Schatten as the absolute and unrivaled masterpiece -- the 'tragedy in one act' about the gruesome events in the Kingdom of the Mycenae is a milestone in opera history.
Very few are aware that the Strauss-Hofmannsthal tragedy has never been performed unabridged until very recently. In 1909, at its première in Dresden, a few verses of the text (and the relevant music) were cut because their explicit sexual references were considered unbecoming. Indeed as late as in 1968, in the Golden Encyclopedia of Music, Normal Llod calls even the 'abridged' text 'too lurid'. For the first time, the unabridged Elektra was staged last summer at the Tyrolean Festival in Erl, a small village 80km from Munich and 80km from Salzburg -- but seldom visited by music critics and by an international audience. Now, the unabridged Elektra is touring Northern Italy thanks to a joint venture by the theatres of Bolzano, Modena, Piacenza and Ferrara. The production is so successful that the tour may be extended to Reggio Emilia and Ravenna. In parallel, another production of unabridged Elektra will be on stage in Catania from 18 to 28 February 2010 and may reach Palermo next year.
It is an important event for several reasons. First, none of the theatres in the tour is a 'major' and highly subsidized 'lyric foundation'. They are small 'provincial' theatres seating five hundred to eight hundred and generally offering no more than four or five popular items every year, often with a semi-professional orchestra and chorus. Musicologist Carlo Vitali recalls that 'until the 1960s, "provincial theaters" were the backbone of Italy's operatic culture' but the 'pattern was nearly lost during the following decades, as growing travel opportunities on one side, and multimedia diffusion of grand opera productions on the other, compelled many a minor house to shut up shop'. Now, under the aegis of local councilors for culture and education, they put a premium on artistic quality rather than on business, albeit within the constraint of limited budgets. None of the theatres mentioned above has an orchestra pit for the 115 players required by the Elektra score. So for all of them, this winter it is the first time they're taking up Strauss' impervious score. Nonetheless, they have provided the best production available so far in Italy in this lackluster 2009-2010 opera season.
Second, the unabridged is far from lurid, but its sexually explicit text is essential to fully understand the Freudian overtones of the tragedy and the dazzling excitement of musical forces advancing beyond even Wagnerian lines. Third, under Gustav Kuhn's baton, two highly professional orchestras were amalgamated: the Haydn Orchestra of Trento and Bolzano and the Orchestra of Emilia-Romagna. With a strength of 115, the orchestra was not in the pit but on the stage, on the steps of a semi-circular auditorium (looking like a Greek theatre) with each element or group of elements visible to the audience. Fourth, the tragedy was staged right at the front of the stage on two levels: Elektra's claustrophobic room at the lower level and the empty Royal Palace at the upper level.
Under Kuhn's baton, the huge orchestra made the unabridged Elektra shattering: more grandiose and more savage than most performances I have listened to in the last few years. In keeping with the harsh, angular idiom, the musical phrases are mostly abrupt, but they blossom out into real cantilena whenever gentler feelings break through. The harmonies weave and clash with dissonances and the various leit-motifs are sculptured so well that one can grasp them at a first hearing.
Agamemnon's motif opens and closes the tragedy (even if the last verse is 'Orest ... Orest!'); at the beginning is a passionate accusation, at the end is an inflexible threat addressed to future development of the complicated family. In between, it recurs in Elektra's monologues. It is a harsh heroic theme set against a fervent expansive melody (Elektra's love for her father) and the glowing melodies of Chrysothemis' womanly feelings. Elektra's main objective is revenge, indeed a bloody revenge, but she is also capable of gentle emotions, as in the scene of her recognition of Orest. The third protagonist is Klytaemnestra, tormented soul. Her entrance is announced by savage, driving music. The gruesome reality of her emotions is revealed in his confrontation with Elektra, carefully revealed by the details of the score.
In this production, Elena Popovskaya alternates with Anna Katharina Behnke as Elektra, Anna Maria Chiuri with Mihaela Binder-Ungureanu as Klitaemnstra and Maria Hundeling with Michela Sburlaty as Chrysothemis. They are young and both vocally and scenically perfect in their impervious roles. Wieland Satter is a passionate Orest. Richard Decker a tired Aegisth. A cast any major theatre should strive for.
On 30 January 2010 in Piacenza, the audience was enthralled. There were many young people in the theatre. After two hours of sheer tension came fifteen minutes of curtain calls and accolades.
Copyright © 8 February 2010 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy
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RICHARD STRAUSS
ELEKTRA
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Lirica, “Elektra”: un’opera che si addice ai giovani Il Velino 5 febbraio
CLT - Lirica, “Elektra”: un’opera che si addice ai giovani
Roma, 5 feb (Velino) - Quando il drammaturgo Eugene O’Neill, nel 1931, adattò la tragedia greca Elettra in un drammone di nove ore ambientato ai tempi della Guerra di Secessione americana, decise di intitolare il lavoro Il lutto si addice ad Elettra a ragione del vasto numero di morti che costellavano le tre parti dell’opera. O’ Neill si basò sulla trilogia di Eschilo. Nel 1904, invece, Hugo von Hofmannsthal scrisse Elektra traendola dalla tragedia di Sofocle. L'opera fu successivamente adattata (leggermente scorciata per adeguarla ai tempi della musica) come libretto per l'omonima opera di Richard Strauss, rappresentata nel 1909. La tragedia in musica in un atto di Strauss dura poco meno di due ore . Sono due ore di tensione assoluta. Il sovrintendente della Scala, Stéphane Lissner, ritiene Elektra la più bella opera del Novecento. Forse non lo è ed anzi tra i lavori di Strauss per il teatro spesso le viene preferita“La donna senz’ombra che il 29 aprile inaugurerà il Maggio Musicale Fiorentino. E’, però, certamente tra le più avvincenti e tra le più difficili da eseguire. E’ stato bellissimo vedere come la sera del 30 dicembre scorso, in molte file del Teatro Municipale di Piacenza dove l’opera veniva data per la prima volta, ci fossero numerosi giovani alle prese con un argomento difficile e una partitura ancora sconvolgente dopo cento anni.
Un nuovo allestimento di Elektra è in programma dal 18 al 26 febbraio al Massimo Bellini di Catania. Nell’opera il mito greco viene letto attraverso Freud da due cattolici: Strauss cattolico lieto e Hofmannsthal cattolico contorto. La reggia di Micene è un palazzo délabré (quindi malconcio) nel Ring di Vienna. Elettra e Crisotemide abitano al mezzanino, se non in cantina. Clitennestra ed Egisto al piano nobile ormai in rovina. Nell’arco di poche ore si svolge un dramma quasi interamente al femminile (in gran parte delle opere di Strauss gli uomini hanno ruoli secondari). Elettra è vergine e tale intende restare sino a quando ha vendicato il padre di cui è stata e seguita a essere innamorata. Crisotemide è vergine pure lei, ma desidera fortemente un uomo con cui fare sesso e da cui avere figli. Vergine non è Clitennestra, il cui sonno è tormentato da sogni dei propri tradimenti e delle proprie infedeltà e dalla paura di scontarne la sanzione in terra. Non è vergine Egisto, il suo amante ora ridotto al viagra. E’ vergine Oreste , chiamato da Elettra a uccidere gli assassini del loro genitore, ma che sembra perdere la propria innocenza nell’abbraccio-amplesso incestuoso con la sorella. Su questo intreccio le dissonanze di un’orchestra di 110 elementi scavano negli abissi dell’animo umano.
L’edizione vista a Piacenza è prodotta da quattro teatri considerati minori poiché non fanno parte del gruppo delle fondazioni liriche (quelli di Bolzano, Ferrara, Modena e Piacenza, in ordine alfabetico). E’ una produzione eccezionale che supera di gran lunga quanto visto e ascoltato a Milano, Roma e Napoli in questo inizio di stagione. Il lavoro di Hofmannsthal e Strauss viene presentato in versione integrale, ossia include alcuni versi e alcune battute musicali eliminate in occasione della prima mondiale a Dresda nel 1909 poiché ritenute troppo esplicitamente sessuali da essere sconvenienti: i pochi minuti mostrano la vena freudiana e sviscerano ancora di più gli abissi della psiche delle tre protagoniste femminili. Il maestro concertatore Gustav Kuhn ritrova lo smalto e il vigore di un tempo: ha amalgamato due orchestre (quella di Trento e Bolzano e quella emiliano-romagnola) che con un organico di 110 professori, nell’acustica perfetta di teatri di piccole dimensioni, creano un effetto stereofonico, avvolgendo letteralmente lo spettatore. L’enorme organico non è in buca (sarebbe stato impossibile date le dimensioni dei teatri in cui questa Elektra viene messa in scena), ma sul palcoscenico, in gradinate che fronteggiano il pubblico. In terzo luogo, quindi, si è alle prese, come al Festival del Tirolo a Erl, con un impianto scenico inusuale: sul boccascena la “stanza” della protagonista, un ambiente claustrofobico ammobiliato con una sola vecchia poltrona e ai lati due torri di tubi di metallo che portano ad un secondo piano, la reggia, anch’essa spoglia.
L’azione su due piani e nella scale che li collegano accentua ancora di più la stereofonia della partitura. Inoltre, il cast vocale. Benché ammalata, Elena Popovskaya si è rilevata una grande Elektra che gareggiava con Maida Hundeling, una Crisotemide, con un volume e un fraseggio pari a quello della protagonista. Per la prima volta un’italiana, Anna Maria Chiuri, ha affrontato il terrificante ruolo di Clitennestra superando brillantemente la prova. Le voci maschili, si sa, hanno un ruolo relativamente minore: eppure Wieland Satter e Igor Decker sono un Oreste e un Egisto giovani e di qualità. Molto buone le ancelle di Elektra che hanno la funzione del coro greco. In breve, uno spettacolo da gustare e rivedere, sperando che la tournée venga estesa ad altri teatri. Intanto, nell’imminente tappa al Bellini di Catania, la messa in scena, pur innovativa, non sarà così dirompente e si punterà su cantanti molto sperimentati come Gabriele Schaut e Janice Baird.
(Hans Sachs) 5 feb 2010 10:41
Roma, 5 feb (Velino) - Quando il drammaturgo Eugene O’Neill, nel 1931, adattò la tragedia greca Elettra in un drammone di nove ore ambientato ai tempi della Guerra di Secessione americana, decise di intitolare il lavoro Il lutto si addice ad Elettra a ragione del vasto numero di morti che costellavano le tre parti dell’opera. O’ Neill si basò sulla trilogia di Eschilo. Nel 1904, invece, Hugo von Hofmannsthal scrisse Elektra traendola dalla tragedia di Sofocle. L'opera fu successivamente adattata (leggermente scorciata per adeguarla ai tempi della musica) come libretto per l'omonima opera di Richard Strauss, rappresentata nel 1909. La tragedia in musica in un atto di Strauss dura poco meno di due ore . Sono due ore di tensione assoluta. Il sovrintendente della Scala, Stéphane Lissner, ritiene Elektra la più bella opera del Novecento. Forse non lo è ed anzi tra i lavori di Strauss per il teatro spesso le viene preferita“La donna senz’ombra che il 29 aprile inaugurerà il Maggio Musicale Fiorentino. E’, però, certamente tra le più avvincenti e tra le più difficili da eseguire. E’ stato bellissimo vedere come la sera del 30 dicembre scorso, in molte file del Teatro Municipale di Piacenza dove l’opera veniva data per la prima volta, ci fossero numerosi giovani alle prese con un argomento difficile e una partitura ancora sconvolgente dopo cento anni.
Un nuovo allestimento di Elektra è in programma dal 18 al 26 febbraio al Massimo Bellini di Catania. Nell’opera il mito greco viene letto attraverso Freud da due cattolici: Strauss cattolico lieto e Hofmannsthal cattolico contorto. La reggia di Micene è un palazzo délabré (quindi malconcio) nel Ring di Vienna. Elettra e Crisotemide abitano al mezzanino, se non in cantina. Clitennestra ed Egisto al piano nobile ormai in rovina. Nell’arco di poche ore si svolge un dramma quasi interamente al femminile (in gran parte delle opere di Strauss gli uomini hanno ruoli secondari). Elettra è vergine e tale intende restare sino a quando ha vendicato il padre di cui è stata e seguita a essere innamorata. Crisotemide è vergine pure lei, ma desidera fortemente un uomo con cui fare sesso e da cui avere figli. Vergine non è Clitennestra, il cui sonno è tormentato da sogni dei propri tradimenti e delle proprie infedeltà e dalla paura di scontarne la sanzione in terra. Non è vergine Egisto, il suo amante ora ridotto al viagra. E’ vergine Oreste , chiamato da Elettra a uccidere gli assassini del loro genitore, ma che sembra perdere la propria innocenza nell’abbraccio-amplesso incestuoso con la sorella. Su questo intreccio le dissonanze di un’orchestra di 110 elementi scavano negli abissi dell’animo umano.
L’edizione vista a Piacenza è prodotta da quattro teatri considerati minori poiché non fanno parte del gruppo delle fondazioni liriche (quelli di Bolzano, Ferrara, Modena e Piacenza, in ordine alfabetico). E’ una produzione eccezionale che supera di gran lunga quanto visto e ascoltato a Milano, Roma e Napoli in questo inizio di stagione. Il lavoro di Hofmannsthal e Strauss viene presentato in versione integrale, ossia include alcuni versi e alcune battute musicali eliminate in occasione della prima mondiale a Dresda nel 1909 poiché ritenute troppo esplicitamente sessuali da essere sconvenienti: i pochi minuti mostrano la vena freudiana e sviscerano ancora di più gli abissi della psiche delle tre protagoniste femminili. Il maestro concertatore Gustav Kuhn ritrova lo smalto e il vigore di un tempo: ha amalgamato due orchestre (quella di Trento e Bolzano e quella emiliano-romagnola) che con un organico di 110 professori, nell’acustica perfetta di teatri di piccole dimensioni, creano un effetto stereofonico, avvolgendo letteralmente lo spettatore. L’enorme organico non è in buca (sarebbe stato impossibile date le dimensioni dei teatri in cui questa Elektra viene messa in scena), ma sul palcoscenico, in gradinate che fronteggiano il pubblico. In terzo luogo, quindi, si è alle prese, come al Festival del Tirolo a Erl, con un impianto scenico inusuale: sul boccascena la “stanza” della protagonista, un ambiente claustrofobico ammobiliato con una sola vecchia poltrona e ai lati due torri di tubi di metallo che portano ad un secondo piano, la reggia, anch’essa spoglia.
L’azione su due piani e nella scale che li collegano accentua ancora di più la stereofonia della partitura. Inoltre, il cast vocale. Benché ammalata, Elena Popovskaya si è rilevata una grande Elektra che gareggiava con Maida Hundeling, una Crisotemide, con un volume e un fraseggio pari a quello della protagonista. Per la prima volta un’italiana, Anna Maria Chiuri, ha affrontato il terrificante ruolo di Clitennestra superando brillantemente la prova. Le voci maschili, si sa, hanno un ruolo relativamente minore: eppure Wieland Satter e Igor Decker sono un Oreste e un Egisto giovani e di qualità. Molto buone le ancelle di Elektra che hanno la funzione del coro greco. In breve, uno spettacolo da gustare e rivedere, sperando che la tournée venga estesa ad altri teatri. Intanto, nell’imminente tappa al Bellini di Catania, la messa in scena, pur innovativa, non sarà così dirompente e si punterà su cantanti molto sperimentati come Gabriele Schaut e Janice Baird.
(Hans Sachs) 5 feb 2010 10:41
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