Quanto ci costi, spacchettamento dei Ministeri! Quando venne effettuato lo spacchettamento delle amministrazioni centrali dello Stato, il costo venne stimato nello 0,3-0,6% del pil. Non è una stima ufficiale, ma nessuno la ha smentita (neanche il Ministro dell’Economia e delle Finanze, Tomaso Padoa Schioppa, TPS, dai cui uffici, peraltro, non sono state presentate valutazioni che la contraddicessero). Questa stima riguardava non solo l’aumento delle poltrone (il Governo Prodi ne ha 112, mentre nella vicina Francia ci si accontenta di averne poco più di una trentina, Ministri di Stato e Sottosegretari inclusi) ma anche gli effetti sulle amministrazioni (molte delle quali ancora senza indirizzi precisi) e l’ingorgo causato dal moltiplicarsi del “concerto” richiesto ormai da un coro di Ministri, Vice Ministri e Sottosegretari per qualsiasi provvedimento.
La stima non teneva conto (in quanto all’epoca non se ne aveva contezza) del costo in termini di perdita di peso nella politica economica internazionale. Già all’inizio della XIV Legislatura si era pensato di consolidare Ministero degli Affari Esteri, area internazionale del Ministero delle Attività Produttive e vari enti (Ice, Simest, Sace) per potere meglio organizzare la nostra presenza all’estero, essere più efficienti e più efficaci e, dunque, contare di più. Sembrava fosse un capriccio di Silvio Berlusconi (per un periodo anche titolare della Farnesina) ma un saggio fresco di Andrei Rose (della Haas School of Business della Università della California) – quindi distinto e distante dalle nostre beghe di bottega- dimostra (sulla base di una ricerca empirica su 22 grandi esportatori e 200 destinazioni di import ) che quella sarebbe stata la strada giusta.
Nel settore della politica economica internazionale, ci si accorge oggi più che mai che lo spacchettamento è ragione di perdita di importanza dell’Italia nel maxi-negoziato (in corso tra i “grandi”) sulla riforma delle tre istituzioni alla base dell’architettura economica mondiale. il Fondo monetario internazionale (Fmi), l’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) e la Banca mondiale (Bm)- un’architettura definita “antidiluviana” da Kenneth Rogoff della Università di Harvard.
Nelle ultime settimane, i riflettori hanno puntato sulla Bm a ragione delle vicende che hanno portato alle dimissioni di Paul Wolfowitz. Tale vicende – come ha sottolineato L’Occidentale del 21 maggio - sono il sintomo di un malessere profondo; tale crisi riguarda anche il Fmi e l’Omc. Il Fondo è in difficoltà tanto finanziaria quanto di identità- in particolare si stanno rinegoziando i diritti di voto (in quanto Cina, India, Messico ed altri chiedono un maggior ruolo)- una trattativa difficile in cui chi non sa fare sentire la propria voce rischia di restare emarginato e di perdere pure il seggio. La trattativa multilaterale sugli scambi in seno all’Omc è giunta ad un vicolo cieco: la Commissione Europea (come è d’uopo) rappresenta l’intera Ue al tavolo verde del negoziato ma mentre sulla stampa internazionale si parla di proposte della Francia, della Germania, del Regno Unito, della Spagna e di altri, se l’Italia ne è presentata qualcuna la ha ammantata di un velo di discrezione. Al pari di come, è stata tenuta riservatissima la posizione dell’Italia sul “caso Wolfowitz” – come rilevato, con ironia, pochi giorni fa da un esperto francese.
Uno dei risultati dello “spacchettamento” – adesso le competenze sono divise (in maniera ancora poco chiara) tra Ministero dell’Economia e delle Finanze, Ministero degli Affari Esteri, Ministero dell’Internazionalizzazione e, nel seno di questi dicasteri, tra una dozzina di Vice Ministri e Sottosegretari – è la difficoltà di definire la posizione dell’Italia e di dare direttive chiave ai nostri rappresentanti nelle istituzioni pertinenti. Ne risultano lungaggini (a ragione dei “concerti” davvero barocchi che si richiedono tra politici e tra uffici), mentre per essere efficace un negoziatore deve essere spedito. A rendere il tutto ancora più complicato (ove mai ce ne fosse bisogno) c’è il sostanziale poco interesse di D’Alema per la politica economica internazionale, la poca attenzione che TPS (sotto l’onere delle pensioni, degli statali, della finanza pubblica in generale) può rivolgere a queste tematiche e l’insofferenza di ambedue perché, di fatto, Emma Bovino si allarga.
Il Dpef prossimo venturo dovrebbe essere una buona occasione per ripensare lo “spacchettamento”. Ma l’interesse anche di gruppuscoli che hanno l’1% dell’elettorato pare contare di più di quello dell’Italia.
ANDREW K. ROSE"The Foreign Service and Foreign Trade: Embassies as Export Promotion" The World Economy, Vol. 30, No. 1, pp. 22-38,
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