mercoledì 27 giugno 2007

COME E’ DIFFICILE DARE SCACCO ALLE PENSIONI

Alla fine delle lunghe notti di Palazzo Chigi non sempre sorge il sole. La notte tra il 26 ed il 27 giugno, la trattativa sul futuro (a breve e medio termine) della previdenza è stata dichiarata chiusa senza esito. Salvo a riprenderla tra qualche giorno in quanto il contenuto del Dpef – lo abbiamo visto su MF dell’8 giugno – dipende interamente dall’esito della partita a scacchi sulle pensioni. Ed il Governo ha l’obbligo di inviare il documento al Parlamento entro il primo luglio.
Il fallimento (per ora) del negoziato ha determinanti politiche non tecniche. La strada per riequilibrare gli aspetti distributivi del sistema e renderlo sostenibile nel medio periodo non è così ardua. Richiede uno scacco matto in 5 mosse (l’una strettamente connessa all’altra): a) aumentare l’età minima per avere accesso alle pensioni di anzianità (con eccezioni per i lavori davvero usuranti) ed eliminarle nel giro di pochi anni per avere, come in gran parte degli altri Paesi industriali, una previdenza pubblica unicamente di pensioni di vecchiaia; b) introdurre subito il meccanismo contributivo (estendendo a tutti le tecniche di computo “pro-quota” già in atto per coloro che il primo gennaio 1996 erano iscritto all’Inps o ad altri enti) anche perché altrove analoghe transizioni (da meccanismi “retributivi” a “contributivi” per il calcolo delle spettanze) sono state fatte nell’arco di tre-cinque anni invece dei 18-30 previsti da noi; c) applicare i nuovi coefficienti di calcolo delle spettanze (quali proposti dal Nucleo di valutazione della spesa previdenziale del Ministero del Lavoro circa un anno fà) per tenere conto dell’allungamento delle aspettative di vita; d) aumentare le pensioni più basse ed agganciarne l’evoluzione all’andamento dei salari (come prima del 1993); e) prevedere un indicizzazione ancora più forte per chi supera gli 80 anni (a ragione delle più alte spese per la cura della persona in cui si incorre in tarda età). I risparmi sulle voci a), b) e c) – di cui oggi beneficia, di norma, chi ha redditi alti o medio alti, servirebbero a finanziare le voci d) ed e) , dirette invece a chi è in condizioni di vero disagio.
Delle cinque mosse, però, si è trovato un accordo solo sulla voce d), l’aumento delle pensioni più basse. Una misura giustificata poiché le riforme degli Anni 90 comportano problemi di equità sociale in quanto i trattamenti dei pensionati in essere crescono molto meno delle retribuzioni (a ragione delle modifiche al meccanismo di indicizzazione apportate nel 1993 e nel 1996) e gli assegni dei pensionati del futuro (specialmente di coloro che non avevano ancora versato 18 anni di contributi al 1 gennaio 1996) copriranno soltanto il 30-40% delle ultime retribuzioni. Tuttavia, senza le altre misure, comporta un aumento di spesa non equilibrato da risparmi su altre poste. Di conseguenza, non soltanto il 16% del pil (o giù di lì) ora destinato alla previdenza rischia di aumentare ma il debito previdenziale minaccia di giungere al 180% del pil prima del termine della legislatura. Secondo dati dello stesso Ministero del Lavoro (di cui nessuno pare essersi accorto), senza le voci a), b e c riassunte al paragrafo precedente, il saldo negativo dello stato patrimoniale dell’Inps passerebbe dai 120 miliardi di euro (all’ultima conta) a circa 580 miliardi di euro nel 2030. Abbastanza per fare tremare i mercati e preoccupare i nostri partner nell’Ue e nell’Ocse.
Gli ostacoli allo scacco matto in cinque mosse sono uno politico ed uno sindacale. Da un lato, è in atto un vero e proprio braccio di ferro all’interno della maggioranza a proposito del costituendo Partito Democratico: la previdenza è diventata la linea di demarcazione tra i partiti presentatisi uniti un anno fa sotto il vessillo dell’Unione. Da un altro, uno scontro di pari portata è in atto nel sindacato. La “riforma Dini” ha inteso non penalizzare le fasce di età vicine alla quiescenza (in gran misura tipiche della dirigenza sindacale di allora). L’ipotesi (del 1995) era che nell’arco di dieci anni si sarebbero smaltite. Ora il confronto intergenerazionale è all’interno del sindacato: la nuova dirigenza teme “pensioni d’annata” più basse di quelle dei loro predecessori. Lo “scalone” interessa appena 60.000 persone l’anno. Avrebbero il privilegio di pensioni consistenti (in quanto basate sulle retribuzioni) e potrebbero diventare quadri relativamente giovani di sindacati alla ricerca di teste e braccia semi-volontarie.

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