martedì 12 giugno 2007

GIACOMO, L’ULTIMO COMPOSITORE

L’anno pucciniano (il 22 dicembre 2008 ricorrono i 150 anni dalla nascita del compositore) non sarà un’altra sbornia. Come è stato, nel 2005, l’anno mozartiano, quando c’ stata una vera e propria invasione di lavori di Wolfgang Amadeus e l’intero Festival estivo di Salisburgo è stato dedicato alle sue 22 opere per il teatro in musica. La ragione principale è che mentre delle 22 opere di Mozart solo poco più di una mezza dozzina vengono rappresentate correntemente (e soltanto una frazione del resto della vastissima produzione di Mozart viene normalmente eseguito in sale da concerto), sei dei dieci lavori di Puccini per il teatro sono o di repertorio o comunque nei cartelloni abituali di enti e fondazioni che, come quelli italiani, seguono, sotto il profilo organizzativo, il metodo della “stagione”. Altri due (“Il trittico” e “La rondine”) compaiono con una certa frequenza sui palcoscenici, pur se non con l’assiduità di “Manon Lescaut, “Bohème”, “Tosca” , “Madama Butterfly”, “Fanciulla del West” e “Turandot”. Di rarissima, rappresentazione scenica soltanto le due opere giovanili: “Le Villi” e “Edgard”. In un’epoca in cui il cinematografo stava soppiantando l’opera lirica come principale spettacolo di massa, Puccini fu l’ultimo dei maggiori compositori italiani non solo ad innovare nel modo di fare teatro in musica ma anche ad avere successo in tutto il mondo, tanto da essere un vero autore internazionale. Alcuni dei suoi capolavori vennero commissionati non da teatri non italiani ma stranieri, come il Metropolitan di New York, la Staatsoper di Vienna e l’Opéra di Montecarlo. Oggi i compositori americani di successo – negli Usa è in corso un revival dell’opera – si riallacciano direttamente a Puccini tanto nella scrittura orchestrale e vocale quanto nella drammaturgia.
Sulla base di quanto già comunicato dei vari cartelloni, l’unica lacuna di rilievo dell’anno pucciniano, in Italia, è la messa in scena della prima edizione di “Madama Butterffly” (quella che crollò alla Scala nel 1904 – di solito viene rappresentata la quarta edizione , riveduta e corretta per l’Opèra di Parigi nel 1906) con un Pinkerton apertamente offensivo nei confronti dei giapponesi, una Cio-Cio-San, piccola ma generosa prostituta che rifiuta il denaro offertole dall’americano, nonché la suddivisione dell’opera in due soli atti. Un’edizione critica, a cura di Julian Smith, è stata allestita (nel 2000) dalla Welsh National Opera e da allora appare frequentemente nei teatri stranieri, ma solo di tanto in tanto in quelli italiani.
Più importante di questa o quella integrazione alle manifestazioni per il 150nario, è una riflessione sul periodo in cui operò Puccini (dall’ultimo scorcio del XIX secolo ai primi 25 anni del XX) e sulla eredità lasciata alle generazioni future.
Sono due temi differenti ma, sotto molti punti di vista, convergenti. Per il teatro d’opera italiano i decenni di attività di Puccini coincisero con la fine della fase in cui in Italia (esperienza unica nel panorama europeo) trionfò la lirica commerciale. La “musa bizzarra e altera” (come definita accuratamente da Herbert Lindenberger) non era una riserva dei mecenati o dei palchettisti-sostenitori provenienti della aristocrazia ed alta borghesia, ma uno degli spettacoli popolari per eccellenza; in tutte le città italiane si costruivano o si ammodernavano teatri che si sostenevano quasi interamente con i proventi da biglietteria; nelle città maggiori più teatri operavano in concorrenza, anche sotto il profilo dei prezzi e della qualità (a Milano ad esempio le “stagioni” della Scala contenevano un numero limitato di titoli ma le rappresentazioni erano di alto livelli; al Dal Verme ed al Manzoni si offrivano, a prezzi contenuti, cartelloni più estesi con titoli di solito molto conosciuti, inframmezzati, di tanto in tanto, da novità di giovani). L’iniziativa imprenditoriale dei grandi impresari (che aveva caratterizzato la prima metà dell’Ottocento) era stata sostituita da quella dei grandi editori (quali Ricordi e Sonzogno) e dalle loro rivalità; mentre all’inizio del XIX secolo gli autori trattavano direttamente con gli impresari (e dovevano spesso seguirne i capricci in tema di scelte di libretti e di interpreti) , alla fine del secolo gli editori fungevano da intermediari tra compositori e impresari;si affermavano le normative nazionali e le convenzioni internazionali sui copyright. Vigeva un sistema di mercato - ma di mercato autoregolato dalla concorrenza-competizione-cooperazione (pure collusione) tra editori. In tale mercato autoregolato stava entrando la politica.
Il punto di svolta può essere considerato, convenzionalmente, il 1921 quando la proprietà del più noto teatro italiano, La Scala, a causa di una gravissima crisi finanziaria, passò dai privati al Comune che la costituisce in un Ente Autonomo comunale, sotto il controllo dello Stato che ne avrebbe assicurato il finanziamento annuale. Gli altri teatri lirici, maggiori e minori, seguirono la stessa sorte in seguito sia all’avanzata del cinema sia al “morbo di Baumol” (dal nome dell’economista americano che lo ha teorizzato) secondo cui arti sceniche a tecnologia fissa perdono gradualmente ma inesorabilmente competitività in quanto non possono fruire della riduzione di costi conseguente il progresso tecnico. In questa fase di transizione visse ed operò Puccini.
Non partecipò a politica attiva (anche se nel 1919, per sfuggire alla accuse di filogermanesimo, aveva musicato un “Inno a Roma” su testo di Fausto Salvatori- lavoro che lui stesso definì “una bella porcheria”). Fu Senatore del Regno , su proposta di Mussolini, per poco più di due mesi – dal 18 settembre 1924 alla morte, il 29 novembre 1924. Il suo unico incontro con Mussolini (nel 1923) sollecitato per esprimere “alcune sue idee sul teatro lirico nazionale da erigersi a Roma”, fu breve e brusco – troncato da un netto “non ci sono denari” da parte del Capo del Governo. Al pari di Igor Stravinskij, Puccini era un impolitico ma, in tempi turbolenti (come quelli attorno alla Prima Guerra Mondiale), aspirava ad una politica che fornisse un quadro di pace e serenità in cui si potesse comporre. Dopo Puccini , la politica diventò centrale nella vita musicale italiana.
Quale il lascito? Da un lato, come scrive uno dei maggiori studiosi di Puccini, Julian Budden, “con “Turandot” la tradizione dell’opera italiana, che durava più di tre secoli, giunse alla sua conclusione”. Da un altro, però, come si è accennato, Puccini fu il solo compositore italiano a cavallo tra il XIX e XX secolo ad essere realmente internazionale, a superare il melodramma ed altre forme d’opera italiane innescando in esse elementi tanto francesi quanto tedeschi ed anche asiatici. La sua eredità più che in Italia fu nel resto del mondo : un nuovo modo di concepire il teatro in musica venne compreso soprattutto da Benjamin Britten e dai compositori americani della metà del Novecento – quali Carlisle Floyd, Thea Musgrave , Robert Ward, Jack Beeson, Kirche Meechem- e da quelli che stanno mietendo successi in questo primo scorcio di XXI secolo – quali André Previn, Gerald Barry, Nicholas Maw . John Adams, Thomas Pasateri, Dominick Argento. Ed ovviamente, il loro “zio” putativo Giancarlo Menotti.


LA “ENTARTETE MUSIK” [P1] ITALIANA

“Entartete Musik” ovvero “musica degenerata” è il nome che la Germania nazista diede a gran parte dell’innovazione musicale che tra il 1920 ed il 1942 si sviluppò al di là delle Alpi e del Reno. Una mostra sulla “Entertete Musik” venne addirittura organizzata a Düsserdolf nel maggio 1938 quando quasi tutti i musicisti “degenerati” erano riparati all’estero e qualcuno di loro (ad esempio, Walter Baunfels) inviato al confino Si possono individuare due filoni distinti: uno principalmente austriaco che ebbe sbocco nella dodecafonia (Schömberg, Berg, Zemliksky) ed uno di stampo più prettamente tedesco (Korngold, Schreker, Krenek, Weill) in cui l’esperienza post-romantica si fondeva con l’espressionismo, la musica popolare ed il jazz . La “Entarteke Musik” non è mai stata considerata “degenerata” in Italia. In piena guerra, nel novembre 1942, al Teatro dell’Opera di Roma è stato rappresentato “Wozzek” di Alban Berg (opera vietatissima in Germania) in versione ritmica italiana (secondo l’uso dell’epoca), con Tito Gobbi nella veste di protagonista e Tullio Serafin alla guida dell’orchestra . Inoltre, oltre a Berg, un altro “degenerato”, Krenek, era tra gli ospiti abituale del Festival internazionale di Musica Contemporanea di Venezia, lanciato per decisione specifica di Palazzo Venezia come concorrente del Festival di Salisburgo.
La “Entartete Musik” è tornata nei teatri di tutto il mondo – e la Decca le ha dedicato una collana di dischi (difficilmente trovabile nei negozi italiani). In Italia, non solamente le due principali opere di Berg sono sempre state presenti nei cartelloni ma da un paio di lustri si ascoltano e si vedono anche drammi in musica di Korngold, Krenek, Schreker, Schömberg, e Zemlisky, con successo di pubblico, oltre che di critica. Il solo che manca sino ad ora all’appello è “Die Geizeichneten” (“I bollati”) di Schreker non tanto per l’argomento scabrosamente esplicito quanto per il complesso impegno produttivo.
C’è però anche una “Entartete Musik” italiana che nasce proprio nell’ultima fase della vita e dell’attività di Puccini; per parafrasare il titolo del lavoro di Schreker, è rimasta “bollata” per decenni dall’accusa di essere “musica fascista”. Benito Mussolini, violinista dilettante (di pessima qualità), aveva un notevole interesse nella musica, e nella politica musicale, ed era appassionato di lirica. Considerava l’opera come espressione di italianità con un forte appello popolare. In effetti, nel ventennio, nonostante l’avanzata del cinema come forma di spettacolo e la crisi finanziaria dei teatri d’opera, la lirica era ancora di grande richiamo. Nascevano gli enti lirico- sinfonici ed i teatri di tradizione , sovvenzionati in varia misura dallo Stato; tutte le città, anche le più piccole, avevano stagioni d’opera; la mano pubblica sosteneva artisticamente i palcoscenici di provincia con iniziative itineranti , quali il “carro di Tespi”. Il Governo (Mussolini trattava in prima persona molte di queste questioni) doveva barcamenarsi tra due scuole contrapposte: i tradizionalisti (Mascagni, Cilea, Giordano, Montemezzi) e gli innovatori (Casella, Malipiero, Pizzetti, Dallapiccola, Russolo, Pratella). Con rare eccezioni (quali le opere più popolari di Mascagni, Cilea e Giordano), tutti i loro titoli sono spariti dai nostri cartelloni, mentre alcuni (si pensi a “L’amore dei tre Re” di Italo Montemezzi ed “I capricci di Callot” di Gian Francesco Malipiero) sono nella programmazione ordinaria dei maggiori teatri americani, tedeschi e britannici. E’ stata accusata di fascismo pure la musica di Dallapiccola nonostante il compositore sia stato uno dei rari professori universitari a dare le dimissioni dalla cattedra al varo delle leggi razziali.
Sarebbe uno sbaglio sostenere che si tratta di lavori che meritano di essere indiscriminatamente riproposti: ad esempio, il “Nerone” di Pietro Mascagni (al cui libretto pare abbia collaborato Mussolini in persona) è un drammone polveroso, magniloquente e di pessima scrittura orchestrale e vocale. Altri (come “La Nave” di Italo Montemezzi o “L’Orfeide” di Gian Francesco Malipiero) richiedono uno sforzo produttivo che pochi teatri sarebbero in grado di sostenere.
Proprio partendo da Gian Francesco Malipiero (che era la vera e propria antitesi di Puccini) si potrebbe, nell’anno pucciniano, fare una scommessa e riproporre un autore italiano di spicco della “Entartete Musik”. Penso a due opere: la commedia “I capricci di Callot” (importandone, se si vuole, un allestimento di quelli correnti in Germania e Svizzera) e il dramma “La favola del figlio cambiato”. La messa in scena della seconda avrebbe pure un contenuto ironico.
L’idea di una collaborazione tra Luigi Pirandello (autore del libretto) e Gian Francesco Malipiero (autore della musica) sarebbe stata proprio di Mussolini che vedeva in essa una grande sintesi di italianità (il maggior scrittore ed il maggior musicista dell’epoca insieme) per un’opera che avrebbe dovuto viaggiare in tutto il mondo. Il Capo del Governo volle presenziare alla “prima”, a Roma il 24 marzo 1934. Dopo il primo atto, diventò furioso e stimolò una vera e propria ribellione del pubblico. Le cronache dicono che passeggiava nervoso nel Palco Reale (disturbando l’esecuzione) sbraitando contro la commissione di censura ministeriale: “Una scena in una casa di tolleranza? E la moralità? E la famiglia? Me presente!!!”. “Entartete”, forse. Purché puritana.

BOX 1
LE CELEBRAZIONI IN TERRA PUCCINIANA

Lucca e Torre del Lago saranno l’epicentro delle celebrazioni , alla cui preparazione lavorano da anni il Comitato Nazionale per le Celebrazioni Pucciniane, il Centro Studi Giacomo Puccini e la Fondazione Festival Pucciniano. Quattro gli eventi più significativi: a) l’inaugurazione del nuovo Grande Teatro a Torre del Lago (una struttura fissa ad anfiteatro all’aperto per 3200 posti con, nel suo ambito, un auditorium al chiuso per circa 500 spettatori); b) la rappresentazione, nel corso dell’anno, di tutte le dieci opere di Puccini tra il Teatro del Giglio di Lucca ed il nuovo Grande Teatro, nonché di gran parte della musica sacra, strumentale e per voce e tastiera; c) un convegno internazionale di studi che inizierà a Lucca ma proseguirà a Milano ed a New York; d) un concerto al Teatro del Giglio il 22 dicembre, la data della nascita che, grazie alle tecnologie della comunicazione e dell’informazione, verrà visto ed ascoltato anche da milioni di spettatori in tutto il mondo.
Interessanti alcune caratteristiche a carattere economico e finanziario: a) la costruzione del nuovo Grande Teatro (un costo di 17 milioni di euro) è finanziata quasi interamente da enti locali (Regione, Provincia, Comune) e da sponsor (Enel, Poste, Fondazione Monte dei Paschi di Siena e molti altri); b) la biglietteria copre già il 43% dei costi di gestione del Festival Pucciniano di Torre del Lago (luglio- agosto di ogni anno); c) il programma musicale sarà affiancato da una serie di mostre (ad esempio Puccini e la sua terra; Puccini ed il suo tempo) allo scopo di effettuare anche un’operazione di “marketing territoriale”. Dato che le opere di Puccini vengono rappresentate, con successo, in tutti i continenti, gli enti locali, il Centro Studi e la Fondazione Festival intendono cogliere l’occasione del 150nario per incoraggiare i pucciniani ed il turismo culturale in generale a visitare i luoghi dove il compositore è nato ed è cresciuto ed ha passato diversi anni della sua vita adulta.

BOX 2

Non sono stati ancora annunciati i programmi dei maggiori teatri. Ci sarà, però, molta attenzione alla ricorrenza. Il Teatro alla Scala di Milano, ad esempio, mette in cantiere un nuovo allestimento di “Bohème” (dopo circa mezzo secolo in cui è stato rappresentato quello del 1963 ideato da Franco Zeffirelli) ed una edizione del “Trittico” diretta da Riccardo Chailly (di difficile esecuzione perché richiede oltre 30 solisti – nel 2007 in Italia sette teatri hanno unito le loro forze per allestirne una versione trasportabile su vari palcoscenici). Il Teatro dell’Opera di Roma inaugurerà la stagione con “Tosca” (che ebbe proprio lì la “prima” mondiale il 19 gennaio 1900 – data considerata, convenzionalmente, l’inizio del Novecento musicale italiano) e in marzo presenterà una nuova produzione di “Fanciulla del West” con Danieli Dessì e Fabio Armiliato e la bacchetta di Gianluigi Gelmetti. A Torre del Lago, a Lucca, a Nizza, a Trieste (è probabile che si aggiungano altri teatri) verrà presentata la terza, ed ultima, versione de “La Rondine” con un finale più drammatico delle prime due (di norma si mette in scena la seconda edizione); dato che cinque pagine di tale finale non sono mai state orchestrate da Puccini, si farà ricorso all’orchestrazione di Lorenzo Ferrero (utilizzando in effetti un’interpolazione ascoltata in Italia unicamente nel 1994 a Torino ma ormai entrata nella prassi di molti teatri stranieri, principalmente di quelli britannici). Il Teatro Regio di Torino, inoltre, proporrà un raro nuovo allestimento di “Edgard” (anche a ragione del successo della recente registrazione della Deutsche Grammophone con Placido Domingo nella veste del protagonista, con Alberto Veronesi alla guida dell’Orchestra e del Coro dell’Accademia di Santa Cecilia). “Manon Lescaut” si vedrà, in differenti edizioni, a Genova ed allo Sferisterio di Macerata, “Turandot” al San Carlo di Napoli ed alle Terme di Caracalla di Roma.

[P1]AS

Nessun commento: