L’analisi d’impatto della regolazione (Air) è stato uno dei fiori all’occhiello della XIII legislatura. Introdotta negli Stati Uniti all’epoca di Ronald Reagan (che la appoggio con tutta la forza che può esercitare la Casa Bianca) era stata, in America, lo strumento chiave per disboscare le norme grandi e piccole che erano riuscite a resistere la regola generale secondo cui dopo un certo numero di anni le leggi vengono automaticamente approvate (sunset regulation) ove non approvate di nuovo dal Congresso. Approdava in Europa tramite l’Ocse che nell’ultimo scorcio degli Anni Novanta condusse una serie di studi monografici. Le prospettive erano incoraggianti. Pure nel nostro Paese dove la Presidenza del Consiglio finanziò una vasta ricerca e ne produsse i risultati in tre eleganti volumi. La stessa Commissione Europea introdusse l’Air (nel 2002) per tutte le più importanti direttive , oltre che per i regolamenti più significativi. Tuttavia , a gran parte del Continente vecchio – dove i parrucconi dominano ed imperversano – le montagne legislative piacciono – anche perché in tal modo è più facile interpretare le norme a favore degli amici e applicarle, se del caso, contro gli avversari. L’Italia detiene un primato in questo campo. Quindi, è stata la prima ad applaudire il cambiamento di accento in sede Ocse: l’Air non è da utilizzare per abbattere l’Everest di leggi, decreti e regolamenti ma per valutarne una non meglio definita “qualità”. Vari comitati e commissioni, co-adiuvati da esperti grandi e piccoli, sono stati creati alla bisogna.
Durante la XIV legislatura il frutto del loro lavoro era, più o meno, visibile: quando giungeva al Parlamento nell’ambito del programma di deleggificazione , iniziato nel 2001. Adesso, per dirla con Petrolini, è diventato come le catenine d’oro o d’argento che vengono regalate a nipotini: così fine, così fine che non si vede proprio.
Pur se non lo vediamo noi, lo analizzano e valutano all’estero (sulla base dei dati che riescono a racimolare). Un paio di settimane fa, nella lontana Washington D.C., la Brookings Institution (autorevolissimo pensatoio orientato a sinistra) ha pubblicato un dettagliato lavoro statistico di tre esperti di rango: Caroline Cecot, Robert W. Hahan e Andrea Renda. Lo studio non riguarda specificamente l’Air in Italia (rimasta sostanzialmente avvolta di mistero pure per Brookings) ma raffronta l’esperienza Usa con quella Ue. Le conclusioni sono agghiaccianti: non solo nel Continente vecchio si è iniziato tardi ma anche male (il metodo seguito – pure in Italia – non fa ricorso all’analisi economica) ma il campione di valutazioni Air esaminato dalla Brookings mostra un deterioramento progressivo dal 2003 – ossia da subito dopo l’introduzione dello strumento. In effetti, per andare a situazioni nostrane, con un’Air efficiente ed efficace non si sarebbe mai giunti alle generalizzazione del Durc (documento unico di regolazione contributiva) nato con la buona intenzione di contenere il lavoro al nero in settori sensibili (edilizia) e che dal primo giugno pure la più piccola ditta nel comparto più innocente deve farsi rilasciare dall’Inps ogni tre mesi con grande dispiego quanto meno della risorsa più scarsa – il tempo.
Cosa fare? Il Ministro Luigi Nicolais è scienziato di vaglio e uomo di cui il rigore è noto a tutti coloro che lo hanno incrociato nel mondo accademico italiano ed americano. Lo studio della Brookings dovrebbe indurlo a raddrizzare la rotta e, se del caso, a prendere marinai che sappiano portare il vascello verso un’effettiva riduzione della giungla normativa in modo da rendere la vita più semplice a tutti ed a facilitare coloro che, pure nel Paese dove imperversa “l’economia della pigrizia” (descritta nel saggio recente di Roberto Petrini), intendono lavorare e produrre. Nessuno sa quanto la giungla è spessa. Ci sono stime del suo costo: lo 0,6% del pil. Se l’analisi d’impatto impatta male (come dicono sia studi quali quello della Brookings sia evidenza spicciola come il caso Durc), diamoci una sveglia. Cambiando metodo e, se necessario, impattatori.
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