Il Presidente del Consiglio Romano Prodi ripete ossessivamente (da quando oltre due anni fa è entrato in campagna elettorale) che “occorre fare le cose seriamente” e che bisogna “essere seri”. Utilizza il tono del parroco di campagna o dei maestrini del libro “Cuore” di Edmondo De Amicis. Ora sul nodo Alitalia, sta a lui “fare le cose seriamente” ed “essere serio”. Ciò vuole dire evitare un imbarazzo internazionale all’Italia, chiedere scusa per il modo scombinato con cui ha prima confuso un beauty contest con un’asta ed infine fatto sì che in gara sia rimasto un concorrente solo. L’accusa fatta dai russi di Aeroflot (nel rinunciare a partecipare ulteriormente alla contesa) è gravissima: non avrebbero avuto accesso ai dati tecnici e finanziari, messi invece a disposizione dell’altra parte in causa (che pare abbia amici nei Palazzi). Si è arrivati a questo punto dopo che il gruppo guidato da Air One avrebbe addirittura proposto di fare tornare l’Italia indietro di 35 anni – ai tempi delle cordate (benedette da Ettore Bernabei) tra Italstat, principali imprese private del settore delle costruzioni, e grandi cooperative come la CMC (Cooperativa Muratori e Cementieri, protagonista delle grandi dighe in Africa nell’epoca d’oro della cooperazione allo sviluppo fatta all’italiana): fare una una cordata unica (con le banche che appoggiano le due compagnie) e presentare il 12 luglio un solo piano e industriale e finanziario. Ancora una volta, l’obiettivo sarebbe stato quello di non fare funzionare il mercato e la concorrenza (nonostante le prediche dell’Antitrust) e di aggiudicarsi la spoglie di quel che resta di Alitalia, mantenendo se possibile un elevato sussidio pubblico annuale ed ancora meglio rivendendone le quote acquistate dopo qualche anno (specialmente se, a ragione delle pressioni europee, si sarà riusciti a ristrutturarla, tagliando i rami secchi e rendendo ancora più stretto il pugno sulle tratte redditizie).
Dopo il ritiro di Aeroflot, è impensabile aggiudicare l’Alitalia ad una cordata che, secondo quel che si è compreso dal piano industriale, non sborserebbe un soldo, manderebbe a casa un paio di migliaia di dipendenti (ed almeno altrettanti nell’indotto), ridurrebbe drasticamente la manutenzione e non avrebbe la capacità di gestire rotte intercontinentali. Chiunque potrebbe fare ricorso alla Corte di Giustizia Europea ed ottenere l’annullamento.
A questo punto, Presidente, salviamo almeno la faccia: Il Tempo è stato, lo scorso gennaio, il primo giornale a dire che il bando era per un beauty contest e non per l’asta di cui Ella concionava. Siamo seri e comportiamoci seriamente, come ripeto i Suoi sermoni. Si annulli tutto e si metta in piedi una vera asta seguendo procedure internazionali. Si lanci – lo ripetiamo ancora una volta - una vera e propria “asta alla Vickrey” (dal nome del Premio Nobel che la ha teorizzata) con un capitolato dettagliato d’appalto e l’aggiudicazione a chi offre di più ma al prezzo del secondo concorrente in graduatoria (in modo da assicurare efficienza e trasparenza). Comportiamoci , oltre che da persone serie, da adulti.
mercoledì 27 giugno 2007
L’ANELLO ENTRA NELLA LA PLAY STATION
“L’Anello del Nibelungo” di Richard Wagner (in gergo, il “Ring”, un prologo- atto unico di due ore e mezzo e tre opere, o “giornate”, di circa 5 ore ciascuna) torna a Firenze dopo quasi 40 anni di un allestimento allora considerato leggendario. Il direttore d’orchestra è sempre Zubin Mehta, Mentre la regia era affidata a Luca Ronconi e le scene a Pier Luigi Pizzi, in questa edizione (coprodotta con il Palau de les Arts di Valencia) l’allestimento è curata dal gruppo d’avanguardia catalano La Fura del Baus. Le prime due opere – “L’oro del Reno” e “La Valchiria”. sono in scena a Firenze sino al 29 giugno; si annuncia già una lunga tournée internazionale. Le altre due verranno rappresentate nel 2008 e nel 2009. Nel 2010 è in programma l’intero ciclo nell’arco di una settimana.
Il “Ring” è una visione cosmica, dalla creazione del mondo al crepuscolo degli Dei, tratta da saghe nordiche. “L’oro del Reno” tratta della lotta per il potere tra Dei, giganti e nani; nessuno ne esce vincitore ma l’armonia della natura e dell’umanità è definitivamente compromessa. “La Valchiria” declina le varie sfaccettature dell’amore- dallo stupro violento, alla passione totalizzante (anche se adultera e incestuosa), al rapporto mercenario, al legame consunto tra coniugi di lungo corso, ai sentimenti tra genitori e figli) perché dall’amore nascerà chi, nelle due opere successive, sarà in grado di ristabilire l’armonia.
Mentre gli allestimenti dell’ultimo mezzo secolo (anche quello fiorentino del 1979-82) hanno privilegiato interpretazione socio-politiche e psicologiche, la Fura dels Baus offre una lettura meticolosa del mito e del testo utilizzando la tecnologia più avanzata. Da 12 enormi schermi ad altissima definizione (fondale e quinte del palcoscenico) emergono immagini, rafforzate da proiezioni su schermi trasparenti. Il visivo viene mutuato dal linguaggio televisivo, dai video-clip, dalla pop-art, dai messaggi pubblicitari, ma è costantemente in sintonia con quanto avviene e in scena e in buca d’orchestra. “L’oro del Reno” diventa un’immensa sgargiante play station per raggiungere il Walhalla, il Paradiso dei miti nordici. In “La valchiria”, la play station è, in gran misura, nel mondo degli uomini ; le immagini sono più contenute e, tra i colori, dominano il bianco e nero e la varie gradazioni del rosso.
In questa rappresentazione stilizzata, i cantanti devono essere non solo attori ma anche atleti: gli Dei recitano e cantano quasi sempre a mezz’aria sorretti da macchine sceniche post-moderne ispirate al teatro barocco, le figlie del Reno nuotano in vere vasche e vanno sott’acqua tra una nota e l’altra, il Dio del fuoco sfreccia in motorino sul palcoscenico. Un’interpretazione certamente ardita, che ha fatto arricciare le sopracciglia ad alcuni ma ha avuto oltre un quarto d’ora di applausi dopo le 5 ore di “La valchiria”. E ha portato molti giovani a teatro (anche a motivo della politica di prezzi adotta - € 15 per chi ha meno di 26 anni)
Di grande rilievo, l’esecuzione musicale. Mehta offre un “Ring” molto differente da quello (fortemente drammatico) del 1979-82: ne “L’oro del Reno” è di un lirismo trasparente, in “La valchiria” di una tenerezza struggente. L’orchestra (chiamata a gran voce in palcoscenico alla fine delle due opere) conferma di essere la migliore di un teatro italiano. Le due opere richiedono circa 30 solisti: la compagnia è mediamente buona. Alcuni molto conosciuti in Italia (Jennifer Wilson, Franz-Joseph Kapellmann, Peter Seiffert, Matti Salminen) ma anche molti giovani (a ragione delle acrobazie previste dalla regia). Spiccano Juha Usitato (il Re degli Dei) e Jennifer Wilson (la sua figlia preferita).
“L’anello del Nibelungo”- un prologo e tre giornate di Richard Wagner.
Prologo , ”L’oro del Reno” e prima “giornata “La valchiria”.
Regia: La Fura dels Baus
Direttore: Zubin Mehta
Protagonisti :Juha Usitato, Franz-Joseph Kapellmann, Peter Seiffert, Matti Salminen, John Daszak, Jennifer Wilson, Petra Maria Schnitzer, Jennifer Wilson.
Sino al 29 giugno al Teatro Comunale di Firenze. Successivamente in tournée internazionale.
Il “Ring” è una visione cosmica, dalla creazione del mondo al crepuscolo degli Dei, tratta da saghe nordiche. “L’oro del Reno” tratta della lotta per il potere tra Dei, giganti e nani; nessuno ne esce vincitore ma l’armonia della natura e dell’umanità è definitivamente compromessa. “La Valchiria” declina le varie sfaccettature dell’amore- dallo stupro violento, alla passione totalizzante (anche se adultera e incestuosa), al rapporto mercenario, al legame consunto tra coniugi di lungo corso, ai sentimenti tra genitori e figli) perché dall’amore nascerà chi, nelle due opere successive, sarà in grado di ristabilire l’armonia.
Mentre gli allestimenti dell’ultimo mezzo secolo (anche quello fiorentino del 1979-82) hanno privilegiato interpretazione socio-politiche e psicologiche, la Fura dels Baus offre una lettura meticolosa del mito e del testo utilizzando la tecnologia più avanzata. Da 12 enormi schermi ad altissima definizione (fondale e quinte del palcoscenico) emergono immagini, rafforzate da proiezioni su schermi trasparenti. Il visivo viene mutuato dal linguaggio televisivo, dai video-clip, dalla pop-art, dai messaggi pubblicitari, ma è costantemente in sintonia con quanto avviene e in scena e in buca d’orchestra. “L’oro del Reno” diventa un’immensa sgargiante play station per raggiungere il Walhalla, il Paradiso dei miti nordici. In “La valchiria”, la play station è, in gran misura, nel mondo degli uomini ; le immagini sono più contenute e, tra i colori, dominano il bianco e nero e la varie gradazioni del rosso.
In questa rappresentazione stilizzata, i cantanti devono essere non solo attori ma anche atleti: gli Dei recitano e cantano quasi sempre a mezz’aria sorretti da macchine sceniche post-moderne ispirate al teatro barocco, le figlie del Reno nuotano in vere vasche e vanno sott’acqua tra una nota e l’altra, il Dio del fuoco sfreccia in motorino sul palcoscenico. Un’interpretazione certamente ardita, che ha fatto arricciare le sopracciglia ad alcuni ma ha avuto oltre un quarto d’ora di applausi dopo le 5 ore di “La valchiria”. E ha portato molti giovani a teatro (anche a motivo della politica di prezzi adotta - € 15 per chi ha meno di 26 anni)
Di grande rilievo, l’esecuzione musicale. Mehta offre un “Ring” molto differente da quello (fortemente drammatico) del 1979-82: ne “L’oro del Reno” è di un lirismo trasparente, in “La valchiria” di una tenerezza struggente. L’orchestra (chiamata a gran voce in palcoscenico alla fine delle due opere) conferma di essere la migliore di un teatro italiano. Le due opere richiedono circa 30 solisti: la compagnia è mediamente buona. Alcuni molto conosciuti in Italia (Jennifer Wilson, Franz-Joseph Kapellmann, Peter Seiffert, Matti Salminen) ma anche molti giovani (a ragione delle acrobazie previste dalla regia). Spiccano Juha Usitato (il Re degli Dei) e Jennifer Wilson (la sua figlia preferita).
“L’anello del Nibelungo”- un prologo e tre giornate di Richard Wagner.
Prologo , ”L’oro del Reno” e prima “giornata “La valchiria”.
Regia: La Fura dels Baus
Direttore: Zubin Mehta
Protagonisti :Juha Usitato, Franz-Joseph Kapellmann, Peter Seiffert, Matti Salminen, John Daszak, Jennifer Wilson, Petra Maria Schnitzer, Jennifer Wilson.
Sino al 29 giugno al Teatro Comunale di Firenze. Successivamente in tournée internazionale.
COME E’ DIFFICILE DARE SCACCO ALLE PENSIONI
Alla fine delle lunghe notti di Palazzo Chigi non sempre sorge il sole. La notte tra il 26 ed il 27 giugno, la trattativa sul futuro (a breve e medio termine) della previdenza è stata dichiarata chiusa senza esito. Salvo a riprenderla tra qualche giorno in quanto il contenuto del Dpef – lo abbiamo visto su MF dell’8 giugno – dipende interamente dall’esito della partita a scacchi sulle pensioni. Ed il Governo ha l’obbligo di inviare il documento al Parlamento entro il primo luglio.
Il fallimento (per ora) del negoziato ha determinanti politiche non tecniche. La strada per riequilibrare gli aspetti distributivi del sistema e renderlo sostenibile nel medio periodo non è così ardua. Richiede uno scacco matto in 5 mosse (l’una strettamente connessa all’altra): a) aumentare l’età minima per avere accesso alle pensioni di anzianità (con eccezioni per i lavori davvero usuranti) ed eliminarle nel giro di pochi anni per avere, come in gran parte degli altri Paesi industriali, una previdenza pubblica unicamente di pensioni di vecchiaia; b) introdurre subito il meccanismo contributivo (estendendo a tutti le tecniche di computo “pro-quota” già in atto per coloro che il primo gennaio 1996 erano iscritto all’Inps o ad altri enti) anche perché altrove analoghe transizioni (da meccanismi “retributivi” a “contributivi” per il calcolo delle spettanze) sono state fatte nell’arco di tre-cinque anni invece dei 18-30 previsti da noi; c) applicare i nuovi coefficienti di calcolo delle spettanze (quali proposti dal Nucleo di valutazione della spesa previdenziale del Ministero del Lavoro circa un anno fà) per tenere conto dell’allungamento delle aspettative di vita; d) aumentare le pensioni più basse ed agganciarne l’evoluzione all’andamento dei salari (come prima del 1993); e) prevedere un indicizzazione ancora più forte per chi supera gli 80 anni (a ragione delle più alte spese per la cura della persona in cui si incorre in tarda età). I risparmi sulle voci a), b) e c) – di cui oggi beneficia, di norma, chi ha redditi alti o medio alti, servirebbero a finanziare le voci d) ed e) , dirette invece a chi è in condizioni di vero disagio.
Delle cinque mosse, però, si è trovato un accordo solo sulla voce d), l’aumento delle pensioni più basse. Una misura giustificata poiché le riforme degli Anni 90 comportano problemi di equità sociale in quanto i trattamenti dei pensionati in essere crescono molto meno delle retribuzioni (a ragione delle modifiche al meccanismo di indicizzazione apportate nel 1993 e nel 1996) e gli assegni dei pensionati del futuro (specialmente di coloro che non avevano ancora versato 18 anni di contributi al 1 gennaio 1996) copriranno soltanto il 30-40% delle ultime retribuzioni. Tuttavia, senza le altre misure, comporta un aumento di spesa non equilibrato da risparmi su altre poste. Di conseguenza, non soltanto il 16% del pil (o giù di lì) ora destinato alla previdenza rischia di aumentare ma il debito previdenziale minaccia di giungere al 180% del pil prima del termine della legislatura. Secondo dati dello stesso Ministero del Lavoro (di cui nessuno pare essersi accorto), senza le voci a), b e c riassunte al paragrafo precedente, il saldo negativo dello stato patrimoniale dell’Inps passerebbe dai 120 miliardi di euro (all’ultima conta) a circa 580 miliardi di euro nel 2030. Abbastanza per fare tremare i mercati e preoccupare i nostri partner nell’Ue e nell’Ocse.
Gli ostacoli allo scacco matto in cinque mosse sono uno politico ed uno sindacale. Da un lato, è in atto un vero e proprio braccio di ferro all’interno della maggioranza a proposito del costituendo Partito Democratico: la previdenza è diventata la linea di demarcazione tra i partiti presentatisi uniti un anno fa sotto il vessillo dell’Unione. Da un altro, uno scontro di pari portata è in atto nel sindacato. La “riforma Dini” ha inteso non penalizzare le fasce di età vicine alla quiescenza (in gran misura tipiche della dirigenza sindacale di allora). L’ipotesi (del 1995) era che nell’arco di dieci anni si sarebbero smaltite. Ora il confronto intergenerazionale è all’interno del sindacato: la nuova dirigenza teme “pensioni d’annata” più basse di quelle dei loro predecessori. Lo “scalone” interessa appena 60.000 persone l’anno. Avrebbero il privilegio di pensioni consistenti (in quanto basate sulle retribuzioni) e potrebbero diventare quadri relativamente giovani di sindacati alla ricerca di teste e braccia semi-volontarie.
Il fallimento (per ora) del negoziato ha determinanti politiche non tecniche. La strada per riequilibrare gli aspetti distributivi del sistema e renderlo sostenibile nel medio periodo non è così ardua. Richiede uno scacco matto in 5 mosse (l’una strettamente connessa all’altra): a) aumentare l’età minima per avere accesso alle pensioni di anzianità (con eccezioni per i lavori davvero usuranti) ed eliminarle nel giro di pochi anni per avere, come in gran parte degli altri Paesi industriali, una previdenza pubblica unicamente di pensioni di vecchiaia; b) introdurre subito il meccanismo contributivo (estendendo a tutti le tecniche di computo “pro-quota” già in atto per coloro che il primo gennaio 1996 erano iscritto all’Inps o ad altri enti) anche perché altrove analoghe transizioni (da meccanismi “retributivi” a “contributivi” per il calcolo delle spettanze) sono state fatte nell’arco di tre-cinque anni invece dei 18-30 previsti da noi; c) applicare i nuovi coefficienti di calcolo delle spettanze (quali proposti dal Nucleo di valutazione della spesa previdenziale del Ministero del Lavoro circa un anno fà) per tenere conto dell’allungamento delle aspettative di vita; d) aumentare le pensioni più basse ed agganciarne l’evoluzione all’andamento dei salari (come prima del 1993); e) prevedere un indicizzazione ancora più forte per chi supera gli 80 anni (a ragione delle più alte spese per la cura della persona in cui si incorre in tarda età). I risparmi sulle voci a), b) e c) – di cui oggi beneficia, di norma, chi ha redditi alti o medio alti, servirebbero a finanziare le voci d) ed e) , dirette invece a chi è in condizioni di vero disagio.
Delle cinque mosse, però, si è trovato un accordo solo sulla voce d), l’aumento delle pensioni più basse. Una misura giustificata poiché le riforme degli Anni 90 comportano problemi di equità sociale in quanto i trattamenti dei pensionati in essere crescono molto meno delle retribuzioni (a ragione delle modifiche al meccanismo di indicizzazione apportate nel 1993 e nel 1996) e gli assegni dei pensionati del futuro (specialmente di coloro che non avevano ancora versato 18 anni di contributi al 1 gennaio 1996) copriranno soltanto il 30-40% delle ultime retribuzioni. Tuttavia, senza le altre misure, comporta un aumento di spesa non equilibrato da risparmi su altre poste. Di conseguenza, non soltanto il 16% del pil (o giù di lì) ora destinato alla previdenza rischia di aumentare ma il debito previdenziale minaccia di giungere al 180% del pil prima del termine della legislatura. Secondo dati dello stesso Ministero del Lavoro (di cui nessuno pare essersi accorto), senza le voci a), b e c riassunte al paragrafo precedente, il saldo negativo dello stato patrimoniale dell’Inps passerebbe dai 120 miliardi di euro (all’ultima conta) a circa 580 miliardi di euro nel 2030. Abbastanza per fare tremare i mercati e preoccupare i nostri partner nell’Ue e nell’Ocse.
Gli ostacoli allo scacco matto in cinque mosse sono uno politico ed uno sindacale. Da un lato, è in atto un vero e proprio braccio di ferro all’interno della maggioranza a proposito del costituendo Partito Democratico: la previdenza è diventata la linea di demarcazione tra i partiti presentatisi uniti un anno fa sotto il vessillo dell’Unione. Da un altro, uno scontro di pari portata è in atto nel sindacato. La “riforma Dini” ha inteso non penalizzare le fasce di età vicine alla quiescenza (in gran misura tipiche della dirigenza sindacale di allora). L’ipotesi (del 1995) era che nell’arco di dieci anni si sarebbero smaltite. Ora il confronto intergenerazionale è all’interno del sindacato: la nuova dirigenza teme “pensioni d’annata” più basse di quelle dei loro predecessori. Lo “scalone” interessa appena 60.000 persone l’anno. Avrebbero il privilegio di pensioni consistenti (in quanto basate sulle retribuzioni) e potrebbero diventare quadri relativamente giovani di sindacati alla ricerca di teste e braccia semi-volontarie.
ANCHE L’”ETERNO FEMMININO” PUO’ CONDIZIONARE IL DPEF
E’ in corso la settimana calda della messa a punto del Dpef. Ha aperto le batterie quella che ormai i prodiani chiamano “la banda dei quattro” (i quattro Ministri che hanno indirizzato al Presidente del Consiglio, ed ai giornali, una lettera piena di critiche al Ministro dell’Economia e delle Finanze, Tommaso Padoa-Schioppa, TPS). Il giorno dopo si è messa in moto la cavalleria leggera dei sindacati: o TPS rinuncia alla calcolatrice (ed accetta le richieste sindacali, molto simile a quelle della “banda dei quattro”) oppure si rompe. E si va tutti alle urne (prima che arrivi il sindaco di Roma, Walter Veltroni, presentato come il deus ex-machina che nelle commedie greche salta all’improvviso – dovrebbe farlo mercoledì 27 giugno- per salvare capra e cavoli, relegando però in un angolo l’agnello sacrificale Romano Prodi).
L’evoluzione degli eventi dipende in gran misura da quello che nell’ultimo verso del “Faust” di Goethe viene chiamato “l’eterno femminino”. Da tre lustri, la “neo-feminist economics” anglosassone studia non solo l’economia dal punto di vista del genere femminile ma anche il ruolo delle donne nel plasmare la politica economica. In effetti, la partita dipende in gran misura da quello che farà TPS: se manterrà dritta la barra seguendo come stella polare la propria calcolatrice o se cederà a qualche inciucio con “la banda dei quattro”.
La risposta sarebbe chiara se l’economista Fiorella Kostoris fosse ancora al sua fianco. Non solamente utilizza la calcolatrice anche meglio di lui: i suoi libri (pensiamo a quello del 1992 sui problemi strutturali dell’economia “protetta” dell’Italia, a quello (con Franco Modigliani) su sostenibilità del debito pubblico , al saggio del 1998 sulle riforme nel nostro Paese, ai lavori più recenti (quali “Il lessico dell’economia”) indicano una strada non dissimile a quella tracciata da TPS nella raccolta di articoli edita in volume (ma a cui non sembra dar seguito con azione politica). Inoltre, Fiorella Kostoris non ha esitato a lasciare poltrone di rilievo quando il Governo per cui lavorava l’istituto da lei presieduto non sembrava dare sufficiente ascolto ai consigli suoi e dei suoi collaboratori.
La risposta pare anche evidente con Barbara Spinelli da dieci anni accanto a TPS: Editorialista, da Parigi, de “La Stampa” (e nel gruppo dei fondatori di “Repubblica”) non hai mai nascosto le proprie simpatie proprio per quella declinazione dalla sinistra che trova espressione nella “banda dei quattro”. Già nel suo primo libro- “Presente ed imperfetto della Germania Orientale”, 1972- vedeva con simpatia “le riforme” (le “corporazioni generali” stataliste) che la Repubblica democratica tedesca aveva effettuato alla fine degli Anni 60 e prospettava per il piccola Paese (in pratica un protettorato sovietico) un percorso verso una democrazia sociale ben differente da ciò che hanno potuto toccare con mano tutti coloro che hanno visto il recente Premio Oscar “Le vite degli altri”. Nel suo saggio “Il sonno dei totalitarismi” del 1991 mostra – è vero - l’esperienza sovietica ormai in disfacimento, ove non in putrefazione. I suoi editoriali su “La Stampa”, però, sono chiaramente di parte: accusa il Governo americano di avere abolito libertà fondamentali, mette la penna nel vetriolo le poche volte (scrive di solito di politica internazionale) quando fa riferimenti alla Casa del Libertà, considera il Governo Prodi come la strada verso una sinistra che dovrebbe restare alla guida dell’Italia per sempre. Intrisa di cultura sociologica francese, per lei “la politique d’abord” viene prima dei regoli d’antan, delle calcolatrici e dei computer.Di conseguenza, “l’ambizione timida” si prospetta non tanto quella dell’Italia ( secondo il titolo dell’ultimo libro di TPS) ma quella di Via Venti Settembre in quanto argine alla “banda dei quattro” (utilizzando, se necessario, l’istituto
L’evoluzione degli eventi dipende in gran misura da quello che nell’ultimo verso del “Faust” di Goethe viene chiamato “l’eterno femminino”. Da tre lustri, la “neo-feminist economics” anglosassone studia non solo l’economia dal punto di vista del genere femminile ma anche il ruolo delle donne nel plasmare la politica economica. In effetti, la partita dipende in gran misura da quello che farà TPS: se manterrà dritta la barra seguendo come stella polare la propria calcolatrice o se cederà a qualche inciucio con “la banda dei quattro”.
La risposta sarebbe chiara se l’economista Fiorella Kostoris fosse ancora al sua fianco. Non solamente utilizza la calcolatrice anche meglio di lui: i suoi libri (pensiamo a quello del 1992 sui problemi strutturali dell’economia “protetta” dell’Italia, a quello (con Franco Modigliani) su sostenibilità del debito pubblico , al saggio del 1998 sulle riforme nel nostro Paese, ai lavori più recenti (quali “Il lessico dell’economia”) indicano una strada non dissimile a quella tracciata da TPS nella raccolta di articoli edita in volume (ma a cui non sembra dar seguito con azione politica). Inoltre, Fiorella Kostoris non ha esitato a lasciare poltrone di rilievo quando il Governo per cui lavorava l’istituto da lei presieduto non sembrava dare sufficiente ascolto ai consigli suoi e dei suoi collaboratori.
La risposta pare anche evidente con Barbara Spinelli da dieci anni accanto a TPS: Editorialista, da Parigi, de “La Stampa” (e nel gruppo dei fondatori di “Repubblica”) non hai mai nascosto le proprie simpatie proprio per quella declinazione dalla sinistra che trova espressione nella “banda dei quattro”. Già nel suo primo libro- “Presente ed imperfetto della Germania Orientale”, 1972- vedeva con simpatia “le riforme” (le “corporazioni generali” stataliste) che la Repubblica democratica tedesca aveva effettuato alla fine degli Anni 60 e prospettava per il piccola Paese (in pratica un protettorato sovietico) un percorso verso una democrazia sociale ben differente da ciò che hanno potuto toccare con mano tutti coloro che hanno visto il recente Premio Oscar “Le vite degli altri”. Nel suo saggio “Il sonno dei totalitarismi” del 1991 mostra – è vero - l’esperienza sovietica ormai in disfacimento, ove non in putrefazione. I suoi editoriali su “La Stampa”, però, sono chiaramente di parte: accusa il Governo americano di avere abolito libertà fondamentali, mette la penna nel vetriolo le poche volte (scrive di solito di politica internazionale) quando fa riferimenti alla Casa del Libertà, considera il Governo Prodi come la strada verso una sinistra che dovrebbe restare alla guida dell’Italia per sempre. Intrisa di cultura sociologica francese, per lei “la politique d’abord” viene prima dei regoli d’antan, delle calcolatrici e dei computer.Di conseguenza, “l’ambizione timida” si prospetta non tanto quella dell’Italia ( secondo il titolo dell’ultimo libro di TPS) ma quella di Via Venti Settembre in quanto argine alla “banda dei quattro” (utilizzando, se necessario, l’istituto
BERNANKE ALLE PRESE COL PARTITO DEI RIALZISTI
Occhi puntati su Ben Bernanke. Oggi il Comitato per le Operazioni sul mercato aperto della Federal Reserve si riunisce per deciderà se mantenere il tasso di riferimento, il Federal fund rate(Ffr), invariato al 5,25% l’anno oppure modificarlo. All’ultima conta, le probabilità di un ribasso vengono date ad un mero 5%. Aumentano, invece, le probabilità di un ritocco all’insù (anche se sono ancora al di sotto del 30%) specialmente dopo gli aumenti dei tassi decretati dalla Banca centrale svizzera la settimana scorsa. Cosa potrebbe spingere la Fed al rialzo? E quali gli effetti? Nell’edificio in stile tardo-fascista di Constitution Ave., N.W., dove ha sede l’autorità monetaria Usa, il doppio deficit ( del bilancio federale e dei conti con l’estero Usa) sta sprigionando umori restrittivi. Una ricostruzione accurate delle poste è stata fatta dal Cato Instituto e dal Dipartimento del Tesoro Usa e pubblicata nell’ultimo numero del Financial Analyst Journal : Jagadeesh Gokhale (Cato) e Kent Smetters (Tesoro) stimano (al 31 dicembre 2006) lo stock di debito federale Usa in 64 milioni di miliardi di dollari Usa e il disavanzo federale in 2,4 milioni di miliardi. Sono cifre mai raggiunte e tali da fare paura ai mercati.
Più articolato uno studio proprio della Federal Reserve (International Financial Discussion Paper N. 892): sulla base di dati degli ultimi 35 anni esamina episodi in cui la bilancia commerciale è peggiorata ed episodi di aggiustamento (per rimettere i conti a posto). Questi ultimi sono stati relativamente “benigni”, anche se hanno, di solito, comportato un aumento dei tassi , un rallentamento nell’edilizia residenziale ed un incremento dell’inflazione. un saggio nell’ultimo fascicolo dell'Oxford Bulletin of Economics and Statistics, analizza la “unicità” del Ffr: mentre gli altri tassi (d’interesse) contengono un numero limitato di informazioni , lo Ffr è un indicatore pregnante e frequente di dove va la politica monetaria Usa ed influenza anche il resto del mondo. Altro elemento che spinge la Fed verso un aumento dei tassi è l’andamento dei prezzi: l’indice di base dei prezzi al consumo cresce ad un mero 2,5% l’anno se non si tiene conto dei generi alimentari e del petrolio ma al 4,3% l’anno se queste due poste (ad alta volatilità) vengono incluse nel computo.
Interessante vedere le prospettive dal resto del mondo, in primo luogo dall’Asia. Un’analisi di Yin-Wong Cheung (Università della California a Santa Cruz) e Dickson-Tam e Matthew You (ambedue dell’ autorità monetaria di Hong Kong) si chiedono se il tasso d’interesse nella Repubblica Popolare seguirà i movimenti del Ffr: sulla base di un’analisi empirica degli andamenti negli ultimi tre lustri, la conclusione è che l’effetto è molto debole, nonostante il Renmimbi cinese sia agganciato al dollaro Usa; anzi, una serie di test statistici documentano che la situazione non muterebbe anche ove la Cina adottasse una politica di cambio flessibile .
Più complesso il caso del Giappone. Un’analisi di Yosuke Sandy Hall e Suk –Joong Kim (da molti all’Universita del New South Wales in Australia) conclude che molto dipende dalla misura in cui un eventuale ritocco dei tassi rimbombi sulla Borsa di Tokyo poiché lo studio degli interventi sul mercato della Bank of Japan del marzo 1991 al marzo 1994 suggeriscono che sono “controvento” ossia cercano di controbilanciare i monumenti quotidiani dell’azionario.
E l’Europa?. Un aumento del Ffr potrebbe dare man forte al partito rialzista in seno alla Bce con implicazioni che potrebbero variare nello spread tra Paese e Paese: lo conferma un’analisi proprio del servizio studi dell’Eurotower (Ecb Working Paper N. 745) che in questi giorni di preparazione del Dpef sta ricevendo molta attenzione nei Palazzi romani. Anche per questa ragione, “la banda dei quattro” (come vengono chiamati a Palazzo Chigi i Ministri che hanno inviato la settimana scorsa una lettera a Prodi in cui chiedevano un aumento non una riduzione della spesa pubblica) si sono scagliati, per bocca del Ministro della Solidarietà Sociale, Paolo Ferrero contro il Presidente della Bce Jean-Claude Trichet.
Più articolato uno studio proprio della Federal Reserve (International Financial Discussion Paper N. 892): sulla base di dati degli ultimi 35 anni esamina episodi in cui la bilancia commerciale è peggiorata ed episodi di aggiustamento (per rimettere i conti a posto). Questi ultimi sono stati relativamente “benigni”, anche se hanno, di solito, comportato un aumento dei tassi , un rallentamento nell’edilizia residenziale ed un incremento dell’inflazione. un saggio nell’ultimo fascicolo dell'Oxford Bulletin of Economics and Statistics, analizza la “unicità” del Ffr: mentre gli altri tassi (d’interesse) contengono un numero limitato di informazioni , lo Ffr è un indicatore pregnante e frequente di dove va la politica monetaria Usa ed influenza anche il resto del mondo. Altro elemento che spinge la Fed verso un aumento dei tassi è l’andamento dei prezzi: l’indice di base dei prezzi al consumo cresce ad un mero 2,5% l’anno se non si tiene conto dei generi alimentari e del petrolio ma al 4,3% l’anno se queste due poste (ad alta volatilità) vengono incluse nel computo.
Interessante vedere le prospettive dal resto del mondo, in primo luogo dall’Asia. Un’analisi di Yin-Wong Cheung (Università della California a Santa Cruz) e Dickson-Tam e Matthew You (ambedue dell’ autorità monetaria di Hong Kong) si chiedono se il tasso d’interesse nella Repubblica Popolare seguirà i movimenti del Ffr: sulla base di un’analisi empirica degli andamenti negli ultimi tre lustri, la conclusione è che l’effetto è molto debole, nonostante il Renmimbi cinese sia agganciato al dollaro Usa; anzi, una serie di test statistici documentano che la situazione non muterebbe anche ove la Cina adottasse una politica di cambio flessibile .
Più complesso il caso del Giappone. Un’analisi di Yosuke Sandy Hall e Suk –Joong Kim (da molti all’Universita del New South Wales in Australia) conclude che molto dipende dalla misura in cui un eventuale ritocco dei tassi rimbombi sulla Borsa di Tokyo poiché lo studio degli interventi sul mercato della Bank of Japan del marzo 1991 al marzo 1994 suggeriscono che sono “controvento” ossia cercano di controbilanciare i monumenti quotidiani dell’azionario.
E l’Europa?. Un aumento del Ffr potrebbe dare man forte al partito rialzista in seno alla Bce con implicazioni che potrebbero variare nello spread tra Paese e Paese: lo conferma un’analisi proprio del servizio studi dell’Eurotower (Ecb Working Paper N. 745) che in questi giorni di preparazione del Dpef sta ricevendo molta attenzione nei Palazzi romani. Anche per questa ragione, “la banda dei quattro” (come vengono chiamati a Palazzo Chigi i Ministri che hanno inviato la settimana scorsa una lettera a Prodi in cui chiedevano un aumento non una riduzione della spesa pubblica) si sono scagliati, per bocca del Ministro della Solidarietà Sociale, Paolo Ferrero contro il Presidente della Bce Jean-Claude Trichet.
lunedì 25 giugno 2007
ALITALIA, UN RINVIO INOPPORTUNO
Questa sarebbe dovuta essere la settimana finale del beauty contest (gara di bellezza, la modalità di gara scelta per vendere il 40% delle azioni Alitalia con la prospettiva che il vincitore lanci un’Opa totalitaria). Offerte complete e definitive (sotto il profilo sia tecnico sia finanziario) si sarebbero dovute presentare entro il pomeriggio del 2 luglio. Ma il termine è stato spostato al 12 luglio. Nell’Italia dei decreti-legge “mille proroghe”, ciò potrebbe non sorprendere nessuno. Nelle “coulisses” del trasporto aereo corre voce che la proroga servire essenzialmente ad uno dei due concorrenti ancora in gara perché concluda alleanze con nuove partner finanziari (si parla di banche amiche di questo o di quello o collaterali a questo od a quello, ma non è elegante dare retta a voci quando si è nel jet set ) . Era anche corsa voce di un inciucio: uno dei due correnti avrebbe offerto all’altro di fare una cordatona sola per presentare un unico piano e industriale e finanziario. Un po’ come si faceva ai tempi in cui a Roma si affidò la realizzazione della linea A della metropolitana ad un gruppo costruito alla bisogna tra le grandi imprese (pubbliche, private, cooperative) dei settori coinvolti. Ci si sarebbe aggiudicati la spoglie dell’Alitalia, mantenendo se possibile un elevato sussidio pubblico annuale e rivendendone le quote acquistate dopo qualche anno (specialmente se, a ragione delle pressioni europee, si sarà riusciti a ristrutturarla). A questa offerta, uno dei due concorrenti – i russi, novizi di capitalismo e quindi di esso superinnamorati – avrebbero risposto con un secco “neit”. Dati Aita alla mano, avrebbero anche aggiunto che tra il 2006 al 2010 (ossia dopodomani) il traffico aereo passeggeri aumenterà di 500.000 milioni di unità, di cui oltre un terzo in Asia e nel Bacino del Pacifico (dove Aeroflot è ben posizionata) mentre, a detta della Lufthansa, leader della Star Alliance di cui Air One fa parte, il vettore italiano ha una capacità regionale (ossia europea) e può, al più, affrontare un numero limitato di rotte intercontinentali.
Il rinvio comporta seri problemi: se il corrente che ha amici a Palazzo riesce a rafforzare la sua proposta a scapito dell’altro, quest’ultimo potrebbe facilmente fare ricorso alla Corte di Giustizia Europea con buona probabilità di vincere. Si finirebbe in tribunale al quadrato: per l’annullamento dell’aggiudicazione ed per il fallimento di Alitalia (con la perdita di 20.000 posti di lavoro, molti nel Lazio, ed altrettanto nell’indotto). Si può evitare questo scenario apocalittico?
Ruggero Magnoni, presidente di Leheman Brothers Italia, ha acceso una luce di speranza affermando che Alitalia è "un'azienda potenzialmente interessante, con un ottimo traffico incoming dovuto al turismo e un bacino di utenza molto valido ma difficile da gestire per il coinvolgimento di cinque ministeri diversi e migliaia di dipendenti ex statali”. Il potenziale , dunque, c’è, ma occorre una virata netta di rotta sia nella gestione dell’azienda, nell’atteggiamento dei sindacati e nel metodo per il collocamento sul mercato. A questo punto, con due soli concorrenti (e forse solamente uno) si dovrebbe dichiarare il beauty context “unresponsive” (per utilizzare il lessico della Guida agli Appalti della Banca Mondiale) , ossia tale da non consentire un vero raffronto. Mentre management e sindacati fanno la parte loro (per una migliore gestione della compagnia), si dovrebbe lanciare una vera e propria “asta alla Vickrey” (dal nome del Premio Nobel che la ha teorizzata) con un capitolato dettagliato d’appalto e l’aggiudicazione a chi offre di più ma al prezzo del secondo concorrente in graduatoria (in modo da assicurare efficienza). Non è mai troppo tardi- come era titolato un programma Tv degli Anni 50.
Il rinvio comporta seri problemi: se il corrente che ha amici a Palazzo riesce a rafforzare la sua proposta a scapito dell’altro, quest’ultimo potrebbe facilmente fare ricorso alla Corte di Giustizia Europea con buona probabilità di vincere. Si finirebbe in tribunale al quadrato: per l’annullamento dell’aggiudicazione ed per il fallimento di Alitalia (con la perdita di 20.000 posti di lavoro, molti nel Lazio, ed altrettanto nell’indotto). Si può evitare questo scenario apocalittico?
Ruggero Magnoni, presidente di Leheman Brothers Italia, ha acceso una luce di speranza affermando che Alitalia è "un'azienda potenzialmente interessante, con un ottimo traffico incoming dovuto al turismo e un bacino di utenza molto valido ma difficile da gestire per il coinvolgimento di cinque ministeri diversi e migliaia di dipendenti ex statali”. Il potenziale , dunque, c’è, ma occorre una virata netta di rotta sia nella gestione dell’azienda, nell’atteggiamento dei sindacati e nel metodo per il collocamento sul mercato. A questo punto, con due soli concorrenti (e forse solamente uno) si dovrebbe dichiarare il beauty context “unresponsive” (per utilizzare il lessico della Guida agli Appalti della Banca Mondiale) , ossia tale da non consentire un vero raffronto. Mentre management e sindacati fanno la parte loro (per una migliore gestione della compagnia), si dovrebbe lanciare una vera e propria “asta alla Vickrey” (dal nome del Premio Nobel che la ha teorizzata) con un capitolato dettagliato d’appalto e l’aggiudicazione a chi offre di più ma al prezzo del secondo concorrente in graduatoria (in modo da assicurare efficienza). Non è mai troppo tardi- come era titolato un programma Tv degli Anni 50.
sabato 23 giugno 2007
DI PIETRO FA I CONTI CON LOBBY E INFRASTRUTTURE
Tempi difficili per il Ministro dei Lavori Pubblici Antonio Di Pietro: da un lato, quando si comincia a parlare di tagli alla spesa pubblica (come avviene in tempi di Dpef e di preparazione della legge finanziaria), gli investimenti in conto capitale sono i primi a finire sotto la scure; da un altro, in Italia spira aria di nuova ondata di corruzione (che si annida spesso nelle infrastrutture).
Con l’aiuto dei suoi collaboratori, ha individuato uno studio dell’Observatoire Français des Conjuctures Economique (il documento di lavoro N. 2006-10) in cui Jerôme Creel e Gwanelle Poilon esaminano se ed in che misura le spese pubbliche in conto capitale sono produttive in Europa. La metodologia è interessante: viene utilizzato un modello Var (value at risk) , di solito applicato ai titoli mobiliari, per stimare gli effetti degli investimenti pubblici in Francia, Italia, Germania, Regno Unito e Usa , una rassegna dei rendimenti in sei Paesi europei (Austria, Belgio, Francia, Italia ed Olanda) ed una tecnica analoga per le regioni francesi. La conclusione dei tre approcci è che l’investimento pubblico è una determinante importante per la crescita dell’output (anche se i coefficienti stimati sono inferiori a quelli ipotizzati nella letteratura). Creel e Poilon soprattutto spezzano una lancia per esentare la spesa in conto capitale dai rigori del patto di stabilità. Musica per gli orecchi del Ministro (che ne invia copia al collega Padoa-Schioppa).
Una conferma indiretta è uno studio di Jane O. Ebinger nel World Bank Policiy Research Paper n. 3992. L’analisi misura i risultati finanziari dei rendimenti degli investimenti in infrastruttura in Europa ed Asia centrale tramite un modello per quantizzare i “costi nascosti” (ad esempio tariffe e canoni non pagati, acquedotti colabrodo) . Tale strumento piace a Di Pietro (che ne informa il Ministro per gli Affari Regionali Linda Lanzillotta, impegna in una legge quadro per la privatizzazione dei servizi pubblici locali). Se tali “costi nascosti” uscissero allo scoperto, si toccherebbe davvero con mano che spendere in lavori pubblici è saggio e giusto.
Lo raffredda un saggio di Alfredo Del Monte ed Erasmo Papagni della Università di Napoli in corso di pubblicazione sull’European Journal of Political Economy. Lo studio analizza le determinanti della corruzione in Italia nel periodo 1963-2001 utilizzando statistiche sui reati contro la pubblica amministrazione disaggregate a livello regionale. Le stime mostrano che variabili economiche (alto livello della spesa pubblica) e politico-culturali (partiti, associazioni volontarie, assenteismo) sono all’origine di un fenomeno molto radicato. Le conclusioni lasciano poche speranze.
Soltanto in Italia? Raymond Fisman della Columbia University e Roberta Gatti della Banca Mondiale nel Cepr Discussion Paper N. 5712 costruiscono un modello da cui si deriva che in tutto il mondo il tempo speso con la burocrazia è positivamente correlato con le mazzette: viene inviato al Ministro dell’Innovazione Luigi Nicolais perché dia una sveglia al gruppo di lavoro sulla semplificazione. Nel Cepr Discussion Paper N. 5717, Hans Gersbach e Markus Muller del calvinista Istituto Svizzero per la Tecnologia dimostrano (con un nuovo modello matematico) che i meccanismi elettorali contano in materia di diffusione della corruzione molto più delle spese per opere pubbliche. Infine, utilizzando dati relativi a 4000 imprese in 25 Paesi in transizione dal piano al mercato, Nauro F. Campos (dell’Università del Michigan) e Francesco Giovannoni (dell’Università di Bristol) concludono, nell’Iza Discussion Paper n. 2313 che la corruzione ed il lobbismo si sostituiscono l’una all’altro: dove c’è un sistema efficiente di lobby la corruzione è contenuta, è invece vasta e spessa dove gli interessi (anche legittimi) devono passare per la porta di servizio. Le lobby, inoltre, sarebbero più efficaci della corruzione per avere influenza politica (pure in Paesi in via di sviluppo). La loro qualità dipende dalle dimensioni e maturità delle imprese. Un invito, quindi, a potenziare il lobbismo. Che lascia sconsolato il Ministro.
Ex Libris
.
Con l’aiuto dei suoi collaboratori, ha individuato uno studio dell’Observatoire Français des Conjuctures Economique (il documento di lavoro N. 2006-10) in cui Jerôme Creel e Gwanelle Poilon esaminano se ed in che misura le spese pubbliche in conto capitale sono produttive in Europa. La metodologia è interessante: viene utilizzato un modello Var (value at risk) , di solito applicato ai titoli mobiliari, per stimare gli effetti degli investimenti pubblici in Francia, Italia, Germania, Regno Unito e Usa , una rassegna dei rendimenti in sei Paesi europei (Austria, Belgio, Francia, Italia ed Olanda) ed una tecnica analoga per le regioni francesi. La conclusione dei tre approcci è che l’investimento pubblico è una determinante importante per la crescita dell’output (anche se i coefficienti stimati sono inferiori a quelli ipotizzati nella letteratura). Creel e Poilon soprattutto spezzano una lancia per esentare la spesa in conto capitale dai rigori del patto di stabilità. Musica per gli orecchi del Ministro (che ne invia copia al collega Padoa-Schioppa).
Una conferma indiretta è uno studio di Jane O. Ebinger nel World Bank Policiy Research Paper n. 3992. L’analisi misura i risultati finanziari dei rendimenti degli investimenti in infrastruttura in Europa ed Asia centrale tramite un modello per quantizzare i “costi nascosti” (ad esempio tariffe e canoni non pagati, acquedotti colabrodo) . Tale strumento piace a Di Pietro (che ne informa il Ministro per gli Affari Regionali Linda Lanzillotta, impegna in una legge quadro per la privatizzazione dei servizi pubblici locali). Se tali “costi nascosti” uscissero allo scoperto, si toccherebbe davvero con mano che spendere in lavori pubblici è saggio e giusto.
Lo raffredda un saggio di Alfredo Del Monte ed Erasmo Papagni della Università di Napoli in corso di pubblicazione sull’European Journal of Political Economy. Lo studio analizza le determinanti della corruzione in Italia nel periodo 1963-2001 utilizzando statistiche sui reati contro la pubblica amministrazione disaggregate a livello regionale. Le stime mostrano che variabili economiche (alto livello della spesa pubblica) e politico-culturali (partiti, associazioni volontarie, assenteismo) sono all’origine di un fenomeno molto radicato. Le conclusioni lasciano poche speranze.
Soltanto in Italia? Raymond Fisman della Columbia University e Roberta Gatti della Banca Mondiale nel Cepr Discussion Paper N. 5712 costruiscono un modello da cui si deriva che in tutto il mondo il tempo speso con la burocrazia è positivamente correlato con le mazzette: viene inviato al Ministro dell’Innovazione Luigi Nicolais perché dia una sveglia al gruppo di lavoro sulla semplificazione. Nel Cepr Discussion Paper N. 5717, Hans Gersbach e Markus Muller del calvinista Istituto Svizzero per la Tecnologia dimostrano (con un nuovo modello matematico) che i meccanismi elettorali contano in materia di diffusione della corruzione molto più delle spese per opere pubbliche. Infine, utilizzando dati relativi a 4000 imprese in 25 Paesi in transizione dal piano al mercato, Nauro F. Campos (dell’Università del Michigan) e Francesco Giovannoni (dell’Università di Bristol) concludono, nell’Iza Discussion Paper n. 2313 che la corruzione ed il lobbismo si sostituiscono l’una all’altro: dove c’è un sistema efficiente di lobby la corruzione è contenuta, è invece vasta e spessa dove gli interessi (anche legittimi) devono passare per la porta di servizio. Le lobby, inoltre, sarebbero più efficaci della corruzione per avere influenza politica (pure in Paesi in via di sviluppo). La loro qualità dipende dalle dimensioni e maturità delle imprese. Un invito, quindi, a potenziare il lobbismo. Che lascia sconsolato il Ministro.
Ex Libris
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QUANDO I GOVERNI DIVENTANO SUPPALPALTANTI DEI MERCATI
La pubblicazioni di verbali ed intercettazioni può piacere o non piacere , ma è elemento di glasnost (per utilizzare il lessico sovietico a cui è ancora affezionata parte della sinistra), impone di distinguere il grano dal loglio (ossia ciò che è politicamente rilevante, pur se non rappresenta illecito, da ciò che non lo è) ed induce ad alcune riflessioni tra politica ed economia.
In primo luogo, auguriamoci che non inneschi una reazione anti-stampa e anti-giornalisti. Non solo il giornalismo è il sale della democrazia ma, nella veste di economista, so, sulla base di analisi internazionale, che nei Paesi dove si mette il bavaglio alla stampa, lo si mette anche alla crescita del reddito ed al miglioramento della sua distribuzione.
In secondo luogo, la lettura di intercettazioni e di verbali porta ad alcune considerazioni: a) non sorprende che una cordata di affari (leciti od illeciti che siano) cerchi contatti con tutto lo schieramento politico: b) dalle carte pubblicate, i rapporti con il centro-destra sarebbe stati per lo più con intermediari (che avrebbero ben potuto millantare credito, come spesso avviene nel “demi-monde” dei Palazzi), c) quelli con i leader del centro-sinistra invece sarebbero stati diretti ed in toni confidenziali. Ne emerge un quadro ben differente di quello della “merchant bank” dove non si parla inglese che secondo Guido Rossi sarebbe stata creata a Palazzo Chigi nella precedente tornata di sinistra al Governo. I politici parrebbero (ma il condizionale è d’obbligo) cercare di essere affascinati, anzi incantati, da una finanza che li fa perfino sognare.
Due considerazioni, quindi, tra il politica e l’economico. Per un decennio, il sindacalista francese Marc Blondet (non certo collaterale alla destra) ha lamentato che nell’età della globalizzazione finanziaria, i Governi siano diventati “suppalpanti” dei mercati. Più di recente, Andrea Mattozzi (del California Institute of Technology) e Antonio Merlo (della University of Pennsylvania), hanno elaborato, sulla base di un’analisi internazionale ma guardando specialmente al caso Italia, un teoria sui metodi di reclutamento nei partiti politici tradizionali – “Mediocracy” (“Mediocrazia- ossia il potere dei mediocri”) NBER Working Paper No. W12920. I partiti sono in concorrenza con le lobby dell’industria, della finanza, del commercio e via discorrendo per reclutare dirigenti, quadri e personale con profili analoghi. Anche ove i partiti potessero avere la prima di scelta (le lobby pagano di più ed offrono carriere più stabili), decidono di reclutare i mediocri al fine di evitare che i loro leader siano minacciati, o meglio insidiati, dall’interno. Per questo, i loro dirigenti sognano di essere invitati a cena nei salotti buoni delle banche e della finanza. Più che azionisti di riferimento di una “merchant bank” casereccia , si pongono come subappaltanti di chi le “merchant bank” (anche a cacio e pepe) congettura (a torto od a ragione) di controllarle. Ne risultano governi di subappaltanti. Ciò non solo ha aspetti che interessano i politologi (può esistere una democrazia in subappalto?) ma anche dimensioni nel campo degli economisti.
Un Governo in subappalto, infatti, ha difficoltà a decidere ; si potrebbe dire che ciò è dimostrato dalle vicende italiane degli ultimi 14 mesi. In un mondo dove tutti corrono, chi non decide, al più cammina – quindi, rispetto, agli altri sta fermo. Un’analisi della London Business School, della Boston University e della Harvad Business School conclude che l’onere è pari allo 0,6% delle risorse di famiglie ed imprese- una vera pietra di piombo.
Cari subappaltanti, quanto ci costate!!!!
In primo luogo, auguriamoci che non inneschi una reazione anti-stampa e anti-giornalisti. Non solo il giornalismo è il sale della democrazia ma, nella veste di economista, so, sulla base di analisi internazionale, che nei Paesi dove si mette il bavaglio alla stampa, lo si mette anche alla crescita del reddito ed al miglioramento della sua distribuzione.
In secondo luogo, la lettura di intercettazioni e di verbali porta ad alcune considerazioni: a) non sorprende che una cordata di affari (leciti od illeciti che siano) cerchi contatti con tutto lo schieramento politico: b) dalle carte pubblicate, i rapporti con il centro-destra sarebbe stati per lo più con intermediari (che avrebbero ben potuto millantare credito, come spesso avviene nel “demi-monde” dei Palazzi), c) quelli con i leader del centro-sinistra invece sarebbero stati diretti ed in toni confidenziali. Ne emerge un quadro ben differente di quello della “merchant bank” dove non si parla inglese che secondo Guido Rossi sarebbe stata creata a Palazzo Chigi nella precedente tornata di sinistra al Governo. I politici parrebbero (ma il condizionale è d’obbligo) cercare di essere affascinati, anzi incantati, da una finanza che li fa perfino sognare.
Due considerazioni, quindi, tra il politica e l’economico. Per un decennio, il sindacalista francese Marc Blondet (non certo collaterale alla destra) ha lamentato che nell’età della globalizzazione finanziaria, i Governi siano diventati “suppalpanti” dei mercati. Più di recente, Andrea Mattozzi (del California Institute of Technology) e Antonio Merlo (della University of Pennsylvania), hanno elaborato, sulla base di un’analisi internazionale ma guardando specialmente al caso Italia, un teoria sui metodi di reclutamento nei partiti politici tradizionali – “Mediocracy” (“Mediocrazia- ossia il potere dei mediocri”) NBER Working Paper No. W12920. I partiti sono in concorrenza con le lobby dell’industria, della finanza, del commercio e via discorrendo per reclutare dirigenti, quadri e personale con profili analoghi. Anche ove i partiti potessero avere la prima di scelta (le lobby pagano di più ed offrono carriere più stabili), decidono di reclutare i mediocri al fine di evitare che i loro leader siano minacciati, o meglio insidiati, dall’interno. Per questo, i loro dirigenti sognano di essere invitati a cena nei salotti buoni delle banche e della finanza. Più che azionisti di riferimento di una “merchant bank” casereccia , si pongono come subappaltanti di chi le “merchant bank” (anche a cacio e pepe) congettura (a torto od a ragione) di controllarle. Ne risultano governi di subappaltanti. Ciò non solo ha aspetti che interessano i politologi (può esistere una democrazia in subappalto?) ma anche dimensioni nel campo degli economisti.
Un Governo in subappalto, infatti, ha difficoltà a decidere ; si potrebbe dire che ciò è dimostrato dalle vicende italiane degli ultimi 14 mesi. In un mondo dove tutti corrono, chi non decide, al più cammina – quindi, rispetto, agli altri sta fermo. Un’analisi della London Business School, della Boston University e della Harvad Business School conclude che l’onere è pari allo 0,6% delle risorse di famiglie ed imprese- una vera pietra di piombo.
Cari subappaltanti, quanto ci costate!!!!
Alitalia, ecco perché i russi hanno fatto spallucce
Se risponde al vero il gossip principale sulla politica industriale italiana che si ascoltava ieri nelle “coulisses” dell’Assemblea della Confcommercio, l’ultima trovata prodiana sarebbe consistita nel fare tornare l’Italia indietro di 35 anni – ai tempi delle cordate (benedette da Ettore Bernabei) tra Italstat, principali imprese private del settore delle costruzioni, e grandi cooperative come la CMC (Cooperativa Muratori e Cementieri, protagonista delle grandi dighe in Africa nell’epoca d’oro della cooperazione allo sviluppo fatta all’italiana).
In breve, AirOne avrebbe proposto a Aeroflot di fare una cordata unica (con le banche che appoggiano le due compagnie) e presentare il 2 luglio (o il 12 se la scadenza verrà spostata) un solo piano e industriale e finanziario. In altri termini, si tornerebbe ai tempi in cui l’affidamento per la realizzazione della linea A della metropolitana di Roma venne dato a Intermetro (per l’appunto una s.p.a. di cui facevano parte tutti i grandi, oggi si direbbe major – dato che nella merchant bank di Palazzo Chigi ora si parla pure in inglese - delle costruzioni, pubblici, privati e cooperativi). Allora è stata una vera e propria carovana in cui ci guadagnavano un po’ tutti i partecipanti , ma ci rimisero – pare - gli italiani in termini di costi (tra i più alti al mondo) e qualità del lavoro (dato che ora siamo già in manutenzione straordinaria). Ora si tratterebbe di un tandem (pure perché i potenziali contendenti sono soltanto due). Ancora una volta, l’obiettivo sarebbe quello di non fare funzionare il mercato e la concorrenza (ma il consociativismo – questa volta industriale) e di aggiudicarsi la spoglie di quel che resta di Alitalia, mantenendo se possibile un elevato sussidio pubblico annuale ed ancora meglio rivendendone le quote acquistate dopo qualche anno (specialmente se, a ragione delle pressioni europee, si sarà riusciti a ristrutturarla, tagliando i rami secchi e rendendo ancora più stretto il pugno sulle tratte redditizie).
Non sappiamo se fosse un’idea originale del management di AirOne o venisse da qualche consigliere del Professore-Presidente del Consiglio avvezzo al modo di operare dell’Iri. Ove fosse stata approvata, sarebbe stato sufficiente il più semplice ricorso alla Corte di Giustizia Europea per invalidare tutto il curioso beauty contest ridotto a una mera licitazione privata ( un po’ come la tentata vendita della Sme circa vent’anni fa).
Fortunatamente, i russi hanno avuto una scatto di orgoglio da cosacchi: avrebbero alzato le spalle sdegnate affermando che pastrocchi di questa natura a casa loro si facevano prima della perestroika e della glasnot. In effetti, nella Federazione Russa intese di questa natura avvengono ancora (70 anni di cattive abitudini sono dure a morire). I bene informati sostengono che Aeroflot & Co. non sono angioletti innocenti di primo pelo.
La proposta sarebbe stata rifiutata per due ragioni:
a) da un lato, temevano un tranello (avrebbero avuro un ruolo minoritario, e temporaneo, nell’azienda che sarebbe sorta dalle ceneri di Alitalia);
b) da un altro, sono convinti che il loro piano industriale (e finanziario) sia ben superiore di quello di Air One e soci e, se del caso, sono pronti a farlo valere in sede europea.
L’asso nella manica non è neanche tanto nascosto: sta nelle previsioni del traffico passeggeri dell’Aita: tra il 2006 al 2010 (ossia dopodomani) il traffico aereo passeggeri aumenterà di 500.000 milioni di unità, di cui oltre un terzo in Asia e nel Bacino del Pacifico (dove Aeroflot è ben posizionata. Secondo la stessa Lufthansa, leader della Star Alliance di cui Air One fa parte, il vettore italiano ha una capacità regionale (ossia europea) e può, al più, affrontare un numero limitato di rotte intercontinentali. In tandem con Air One, avrebbero versato sangue, lavorando in essenza per il Re di Prussica. Non intendono farlo neanche se quest’ultimo è diventato, nel frattempo, un Professore.
In breve, AirOne avrebbe proposto a Aeroflot di fare una cordata unica (con le banche che appoggiano le due compagnie) e presentare il 2 luglio (o il 12 se la scadenza verrà spostata) un solo piano e industriale e finanziario. In altri termini, si tornerebbe ai tempi in cui l’affidamento per la realizzazione della linea A della metropolitana di Roma venne dato a Intermetro (per l’appunto una s.p.a. di cui facevano parte tutti i grandi, oggi si direbbe major – dato che nella merchant bank di Palazzo Chigi ora si parla pure in inglese - delle costruzioni, pubblici, privati e cooperativi). Allora è stata una vera e propria carovana in cui ci guadagnavano un po’ tutti i partecipanti , ma ci rimisero – pare - gli italiani in termini di costi (tra i più alti al mondo) e qualità del lavoro (dato che ora siamo già in manutenzione straordinaria). Ora si tratterebbe di un tandem (pure perché i potenziali contendenti sono soltanto due). Ancora una volta, l’obiettivo sarebbe quello di non fare funzionare il mercato e la concorrenza (ma il consociativismo – questa volta industriale) e di aggiudicarsi la spoglie di quel che resta di Alitalia, mantenendo se possibile un elevato sussidio pubblico annuale ed ancora meglio rivendendone le quote acquistate dopo qualche anno (specialmente se, a ragione delle pressioni europee, si sarà riusciti a ristrutturarla, tagliando i rami secchi e rendendo ancora più stretto il pugno sulle tratte redditizie).
Non sappiamo se fosse un’idea originale del management di AirOne o venisse da qualche consigliere del Professore-Presidente del Consiglio avvezzo al modo di operare dell’Iri. Ove fosse stata approvata, sarebbe stato sufficiente il più semplice ricorso alla Corte di Giustizia Europea per invalidare tutto il curioso beauty contest ridotto a una mera licitazione privata ( un po’ come la tentata vendita della Sme circa vent’anni fa).
Fortunatamente, i russi hanno avuto una scatto di orgoglio da cosacchi: avrebbero alzato le spalle sdegnate affermando che pastrocchi di questa natura a casa loro si facevano prima della perestroika e della glasnot. In effetti, nella Federazione Russa intese di questa natura avvengono ancora (70 anni di cattive abitudini sono dure a morire). I bene informati sostengono che Aeroflot & Co. non sono angioletti innocenti di primo pelo.
La proposta sarebbe stata rifiutata per due ragioni:
a) da un lato, temevano un tranello (avrebbero avuro un ruolo minoritario, e temporaneo, nell’azienda che sarebbe sorta dalle ceneri di Alitalia);
b) da un altro, sono convinti che il loro piano industriale (e finanziario) sia ben superiore di quello di Air One e soci e, se del caso, sono pronti a farlo valere in sede europea.
L’asso nella manica non è neanche tanto nascosto: sta nelle previsioni del traffico passeggeri dell’Aita: tra il 2006 al 2010 (ossia dopodomani) il traffico aereo passeggeri aumenterà di 500.000 milioni di unità, di cui oltre un terzo in Asia e nel Bacino del Pacifico (dove Aeroflot è ben posizionata. Secondo la stessa Lufthansa, leader della Star Alliance di cui Air One fa parte, il vettore italiano ha una capacità regionale (ossia europea) e può, al più, affrontare un numero limitato di rotte intercontinentali. In tandem con Air One, avrebbero versato sangue, lavorando in essenza per il Re di Prussica. Non intendono farlo neanche se quest’ultimo è diventato, nel frattempo, un Professore.
martedì 19 giugno 2007
NICOLAIS , L’UOMO GIUSTO CONTRO LE LEGGI-GIUNGLA
L’analisi d’impatto della regolazione (Air) è stato uno dei fiori all’occhiello della XIII legislatura. Introdotta negli Stati Uniti all’epoca di Ronald Reagan (che la appoggio con tutta la forza che può esercitare la Casa Bianca) era stata, in America, lo strumento chiave per disboscare le norme grandi e piccole che erano riuscite a resistere la regola generale secondo cui dopo un certo numero di anni le leggi vengono automaticamente approvate (sunset regulation) ove non approvate di nuovo dal Congresso. Approdava in Europa tramite l’Ocse che nell’ultimo scorcio degli Anni Novanta condusse una serie di studi monografici. Le prospettive erano incoraggianti. Pure nel nostro Paese dove la Presidenza del Consiglio finanziò una vasta ricerca e ne produsse i risultati in tre eleganti volumi. La stessa Commissione Europea introdusse l’Air (nel 2002) per tutte le più importanti direttive , oltre che per i regolamenti più significativi. Tuttavia , a gran parte del Continente vecchio – dove i parrucconi dominano ed imperversano – le montagne legislative piacciono – anche perché in tal modo è più facile interpretare le norme a favore degli amici e applicarle, se del caso, contro gli avversari. L’Italia detiene un primato in questo campo. Quindi, è stata la prima ad applaudire il cambiamento di accento in sede Ocse: l’Air non è da utilizzare per abbattere l’Everest di leggi, decreti e regolamenti ma per valutarne una non meglio definita “qualità”. Vari comitati e commissioni, co-adiuvati da esperti grandi e piccoli, sono stati creati alla bisogna.
Durante la XIV legislatura il frutto del loro lavoro era, più o meno, visibile: quando giungeva al Parlamento nell’ambito del programma di deleggificazione , iniziato nel 2001. Adesso, per dirla con Petrolini, è diventato come le catenine d’oro o d’argento che vengono regalate a nipotini: così fine, così fine che non si vede proprio.
Pur se non lo vediamo noi, lo analizzano e valutano all’estero (sulla base dei dati che riescono a racimolare). Un paio di settimane fa, nella lontana Washington D.C., la Brookings Institution (autorevolissimo pensatoio orientato a sinistra) ha pubblicato un dettagliato lavoro statistico di tre esperti di rango: Caroline Cecot, Robert W. Hahan e Andrea Renda. Lo studio non riguarda specificamente l’Air in Italia (rimasta sostanzialmente avvolta di mistero pure per Brookings) ma raffronta l’esperienza Usa con quella Ue. Le conclusioni sono agghiaccianti: non solo nel Continente vecchio si è iniziato tardi ma anche male (il metodo seguito – pure in Italia – non fa ricorso all’analisi economica) ma il campione di valutazioni Air esaminato dalla Brookings mostra un deterioramento progressivo dal 2003 – ossia da subito dopo l’introduzione dello strumento. In effetti, per andare a situazioni nostrane, con un’Air efficiente ed efficace non si sarebbe mai giunti alle generalizzazione del Durc (documento unico di regolazione contributiva) nato con la buona intenzione di contenere il lavoro al nero in settori sensibili (edilizia) e che dal primo giugno pure la più piccola ditta nel comparto più innocente deve farsi rilasciare dall’Inps ogni tre mesi con grande dispiego quanto meno della risorsa più scarsa – il tempo.
Cosa fare? Il Ministro Luigi Nicolais è scienziato di vaglio e uomo di cui il rigore è noto a tutti coloro che lo hanno incrociato nel mondo accademico italiano ed americano. Lo studio della Brookings dovrebbe indurlo a raddrizzare la rotta e, se del caso, a prendere marinai che sappiano portare il vascello verso un’effettiva riduzione della giungla normativa in modo da rendere la vita più semplice a tutti ed a facilitare coloro che, pure nel Paese dove imperversa “l’economia della pigrizia” (descritta nel saggio recente di Roberto Petrini), intendono lavorare e produrre. Nessuno sa quanto la giungla è spessa. Ci sono stime del suo costo: lo 0,6% del pil. Se l’analisi d’impatto impatta male (come dicono sia studi quali quello della Brookings sia evidenza spicciola come il caso Durc), diamoci una sveglia. Cambiando metodo e, se necessario, impattatori.
Durante la XIV legislatura il frutto del loro lavoro era, più o meno, visibile: quando giungeva al Parlamento nell’ambito del programma di deleggificazione , iniziato nel 2001. Adesso, per dirla con Petrolini, è diventato come le catenine d’oro o d’argento che vengono regalate a nipotini: così fine, così fine che non si vede proprio.
Pur se non lo vediamo noi, lo analizzano e valutano all’estero (sulla base dei dati che riescono a racimolare). Un paio di settimane fa, nella lontana Washington D.C., la Brookings Institution (autorevolissimo pensatoio orientato a sinistra) ha pubblicato un dettagliato lavoro statistico di tre esperti di rango: Caroline Cecot, Robert W. Hahan e Andrea Renda. Lo studio non riguarda specificamente l’Air in Italia (rimasta sostanzialmente avvolta di mistero pure per Brookings) ma raffronta l’esperienza Usa con quella Ue. Le conclusioni sono agghiaccianti: non solo nel Continente vecchio si è iniziato tardi ma anche male (il metodo seguito – pure in Italia – non fa ricorso all’analisi economica) ma il campione di valutazioni Air esaminato dalla Brookings mostra un deterioramento progressivo dal 2003 – ossia da subito dopo l’introduzione dello strumento. In effetti, per andare a situazioni nostrane, con un’Air efficiente ed efficace non si sarebbe mai giunti alle generalizzazione del Durc (documento unico di regolazione contributiva) nato con la buona intenzione di contenere il lavoro al nero in settori sensibili (edilizia) e che dal primo giugno pure la più piccola ditta nel comparto più innocente deve farsi rilasciare dall’Inps ogni tre mesi con grande dispiego quanto meno della risorsa più scarsa – il tempo.
Cosa fare? Il Ministro Luigi Nicolais è scienziato di vaglio e uomo di cui il rigore è noto a tutti coloro che lo hanno incrociato nel mondo accademico italiano ed americano. Lo studio della Brookings dovrebbe indurlo a raddrizzare la rotta e, se del caso, a prendere marinai che sappiano portare il vascello verso un’effettiva riduzione della giungla normativa in modo da rendere la vita più semplice a tutti ed a facilitare coloro che, pure nel Paese dove imperversa “l’economia della pigrizia” (descritta nel saggio recente di Roberto Petrini), intendono lavorare e produrre. Nessuno sa quanto la giungla è spessa. Ci sono stime del suo costo: lo 0,6% del pil. Se l’analisi d’impatto impatta male (come dicono sia studi quali quello della Brookings sia evidenza spicciola come il caso Durc), diamoci una sveglia. Cambiando metodo e, se necessario, impattatori.
ECCO PERCHE' LA PREVIDENZA COMPLEMENTARE NON DECOLLA
In Italia la previdenza complementare non decolla per ragioni più profonde dell’illusione dei sindacati di far tornare indietro l’orologio, o per la speranza di qualche sindacalista (e non solo) di tentare un po’ di particolarismi.
Alla fine del primo semestre 2005, gli aderenti a fondi pensione o a piani previdenziali individuali erano 2,9 milioni pari al 12% degli occupati e le risorse (uno stock) 42 miliardi di euro pari al 3% del pil (un flusso)-meno dello 0,3-0,2% dello stock di ricchezza degli italiani. Ossia un’inezia . Questa piccola “cagnotte” è frantumata in Italia su 635 fondi, 135 di nuova istituzione (in base alle normative degli ultimi anni) e 500 preesistenti. I fondi negoziali sono 43, interessano ormai tutti i settori dell’economia ma hanno appena 1,1 milioni di iscritti; nel 2004, nonostante gli sforzi per incoraggiarli, gli iscritti sono aumentati appena del 2,7%; pare che ci sia stata addirittura una decelerazione nel primo semestre 2005.
Il fondo Espero, dedicato al vasto comparto scuola, ricerca ed università, ha appena 30.000 aderenti. Se Sparta piange, Atene non ride: l’ottantina di fondi “aperti” avevano meno di 900.000 iscritti il 31 dicembre 2004 (con una crescita del 3% nei 12 mesi precedenti); anche se le adesioni hanno dato segni di vivacità negli ultimi mesi (e ciò ha attizzato la polemica sul decreto tfr/tfs) , è illusorio pensare che arrivino mai ad un alto tasso di copertura.
Pensare che la destinazione del tfr/tfs risolva il problema equivale a credere che l’aspirina risolva malattie oncologiche. Occorre affrontare questi nodi di fondo. Partiamo dal primo: l’alto livello della contribuzione obbligatoria (il 33% in Italia rispetto ad esempio al 7% in Gran Bretagna ed al 18% circa in Francia e Germania) che rende oggettivamente difficile il risparmio a molte fasce di lavoratori (specialmente quelli più giovani e con famiglia). Poi c'è la polverizzazione del settore che ha dato vita ad una miriade di fondi lillipuziani che rischiano di essere fortemente penalizzati alla prima tensione sui mercati finanziari e spazzati via al primo temporale azionario o monetario. A raffronto dei 135 “nuovi” fondi nostrani ed ai 500 preesistenti, quando vennero varati i fondi pensioni cileni (sostitutivi non integrativi della previdenza obbligatoria) , il loro numero venne limitato a sei proprio per assicurare che fossero sufficientemente robusti. Il libro “Workable pension systems”, uscito negli Usa e di cui il sottoscritto è uno dei co-autori, conferma l’esigenza di fondi con una consistenza tale da poter avere una strategia adeguata di diversificazione del rischio.
Ancora: la diffidenza dei lavoratori (che di solito sanno leggere, scrivere e far di conto) nei confronti della capacità delle parti sociali di sapere orientare e vigilare le società di gestione del risparmio. Ad esempio, la mattina del 21 ottobre veniva diffuso su Internet un saggio di Harry M. Kat, Theo P. Kocken, Jan Willem-Engel (il primo della City University of London e gli altri due di Cardano Risk Management) sull’impiego degli hedges di altri derivati per risolvere la crisi dei fondi pensione britannici. Sono i componenti dei consigli di vigilanza in grado di trattare queste materie.
Il consiglio è che, in mercati aperti, chi vuole aderire a fondi pensione complementari guardi con attenzione a quelli internazionali . Tfr/tfr non sono che un palliativo. Che darà un contributo limitato sino a quando non saranno risolti i nodi indicati.
Alla fine del primo semestre 2005, gli aderenti a fondi pensione o a piani previdenziali individuali erano 2,9 milioni pari al 12% degli occupati e le risorse (uno stock) 42 miliardi di euro pari al 3% del pil (un flusso)-meno dello 0,3-0,2% dello stock di ricchezza degli italiani. Ossia un’inezia . Questa piccola “cagnotte” è frantumata in Italia su 635 fondi, 135 di nuova istituzione (in base alle normative degli ultimi anni) e 500 preesistenti. I fondi negoziali sono 43, interessano ormai tutti i settori dell’economia ma hanno appena 1,1 milioni di iscritti; nel 2004, nonostante gli sforzi per incoraggiarli, gli iscritti sono aumentati appena del 2,7%; pare che ci sia stata addirittura una decelerazione nel primo semestre 2005.
Il fondo Espero, dedicato al vasto comparto scuola, ricerca ed università, ha appena 30.000 aderenti. Se Sparta piange, Atene non ride: l’ottantina di fondi “aperti” avevano meno di 900.000 iscritti il 31 dicembre 2004 (con una crescita del 3% nei 12 mesi precedenti); anche se le adesioni hanno dato segni di vivacità negli ultimi mesi (e ciò ha attizzato la polemica sul decreto tfr/tfs) , è illusorio pensare che arrivino mai ad un alto tasso di copertura.
Pensare che la destinazione del tfr/tfs risolva il problema equivale a credere che l’aspirina risolva malattie oncologiche. Occorre affrontare questi nodi di fondo. Partiamo dal primo: l’alto livello della contribuzione obbligatoria (il 33% in Italia rispetto ad esempio al 7% in Gran Bretagna ed al 18% circa in Francia e Germania) che rende oggettivamente difficile il risparmio a molte fasce di lavoratori (specialmente quelli più giovani e con famiglia). Poi c'è la polverizzazione del settore che ha dato vita ad una miriade di fondi lillipuziani che rischiano di essere fortemente penalizzati alla prima tensione sui mercati finanziari e spazzati via al primo temporale azionario o monetario. A raffronto dei 135 “nuovi” fondi nostrani ed ai 500 preesistenti, quando vennero varati i fondi pensioni cileni (sostitutivi non integrativi della previdenza obbligatoria) , il loro numero venne limitato a sei proprio per assicurare che fossero sufficientemente robusti. Il libro “Workable pension systems”, uscito negli Usa e di cui il sottoscritto è uno dei co-autori, conferma l’esigenza di fondi con una consistenza tale da poter avere una strategia adeguata di diversificazione del rischio.
Ancora: la diffidenza dei lavoratori (che di solito sanno leggere, scrivere e far di conto) nei confronti della capacità delle parti sociali di sapere orientare e vigilare le società di gestione del risparmio. Ad esempio, la mattina del 21 ottobre veniva diffuso su Internet un saggio di Harry M. Kat, Theo P. Kocken, Jan Willem-Engel (il primo della City University of London e gli altri due di Cardano Risk Management) sull’impiego degli hedges di altri derivati per risolvere la crisi dei fondi pensione britannici. Sono i componenti dei consigli di vigilanza in grado di trattare queste materie.
Il consiglio è che, in mercati aperti, chi vuole aderire a fondi pensione complementari guardi con attenzione a quelli internazionali . Tfr/tfr non sono che un palliativo. Che darà un contributo limitato sino a quando non saranno risolti i nodi indicati.
L’ORO CHE GRANDE AFFARE. SOLO PER 15 GIORNI
Negli ultimi 12 mesi, il valore (in dollari Usa) di un’oncia d’oro è aumentato da $ 657.90 a $ 671.80 (il 7,2%) nonostante una leggera contrazione subita nelle ultime quattro settimane (- 2,1). Ciò vuole dire che il metallo giallo sta tornando di moda, anche in quanto il mercato obbligazionario (specialmente quello americano) sta perdendo lustro, pure a ragione dei timori di un rialzo dei tassi d’interesse, come prospettato da 21 delle maggiori banche e società di gestione del risparmio alla fine della prima decade di giugno?
I fautori del metallo giallo (si veda l’ultima newsletter di Blanchard – The gold standard for intelligent investor) ne delinea le virtù tradizionali (segnatamente quella di essere un bene rifugio sicuro specialmente in periodo di forti disavanzi dei conti pubblici e di quelli con l’estero e di ripresa delle tendenze inflazionistiche), sottolinea come l’offerta stia incontrando limiti tecnici (in Sud Africa, la produzione è ai livelli più bassi dal 1931) mentre la domanda soprattutto di India ed ancor di più di Cina (la cui Banca centrale comincia ad essere stanca di accumulare miliardi su miliardi di dollari Usa) è in rapido aumento (soprattutto da quando sono stati autorizzati acquisti di lingotti anche da parte di individui e di imprese) e pone l’accento su come in un mercato in cui le azioni hanno raggiunto vette elevatissimi (ma la volatilità è dietro l’angolo) e le obbligazioni danno poche soddisfazioni come strumento per diversificare i portafogli e contenere il rischio “perché la sua valorizzazione aumenta in risposta di eventi – guerre, terrorismo, catastrofi naturali, turbative dei mercati – che erodono invece la valorizzazione di tradizionali investimenti cartacei come le azioni e le obbligazioni”.
Un lavoro (ancora inedito) del Trinità College di Dublino scava su questi ultimi punti –ossia in che misura l’oro è un efficace bene rifugio ed un efficiente strumento di diversificazione dei portafogli. L’analisi empirica – se ne possono chiedere i dettagli agli autori – Dirk Baur, baurd@tcd.ie e Brian Lucey blucey@tcd.ie – esamina i movimenti di valorizzazioni e rendimenti nei mercati azionari ed obbligazionari di Usa, Regno Unito e Germania e la loro interazione con le quotazioni del metallo giallo. Le conclusioni sono che l’oro è un elemento di equilibrio efficiente di un portafoglio rispetto alle azioni; è, però, un bene rifugio efficace soltanto in caso di condizioni estreme del mercato mobiliare; tale caratteristica, poi, è di breve durata – 15 giorni di mercati aperti dopo che si è verificato uno shock estremo.
A conclusioni analoghe arriva Mebane T. Faber nell’ultimo fascicolo del periodico Journal of Wealth Management, pur seguendo una metodologia di analisi differente : per il periodo 1972-2006 viene giustapposto un paniere di prodotti di base e materie prime (tra cui anche l’oro) con i più significativi indici del mercato mobiliare (azioni ed obbligazione) negli Usa ed in altri 20 Paesi (corretti tramite indicatori di volatilità). La morale è che nonostante la veneranda età e nonostante il livello di alta sofisticazione raggiunto dagli strumenti derivati, il lingotto resta un bene rifugio del quale non è facile fare a meno. E se per gli investitori professionali, la sua “utilità” dura al massimo 15 giorni, per il risparmiatore è tornato un buon affare. Dice nulla il balzo del 50% realizzato in soli due anni?
US Dollar Index vs. GoldUS$ Index vs. Gold (annual rate of change)
I fautori del metallo giallo (si veda l’ultima newsletter di Blanchard – The gold standard for intelligent investor) ne delinea le virtù tradizionali (segnatamente quella di essere un bene rifugio sicuro specialmente in periodo di forti disavanzi dei conti pubblici e di quelli con l’estero e di ripresa delle tendenze inflazionistiche), sottolinea come l’offerta stia incontrando limiti tecnici (in Sud Africa, la produzione è ai livelli più bassi dal 1931) mentre la domanda soprattutto di India ed ancor di più di Cina (la cui Banca centrale comincia ad essere stanca di accumulare miliardi su miliardi di dollari Usa) è in rapido aumento (soprattutto da quando sono stati autorizzati acquisti di lingotti anche da parte di individui e di imprese) e pone l’accento su come in un mercato in cui le azioni hanno raggiunto vette elevatissimi (ma la volatilità è dietro l’angolo) e le obbligazioni danno poche soddisfazioni come strumento per diversificare i portafogli e contenere il rischio “perché la sua valorizzazione aumenta in risposta di eventi – guerre, terrorismo, catastrofi naturali, turbative dei mercati – che erodono invece la valorizzazione di tradizionali investimenti cartacei come le azioni e le obbligazioni”.
Un lavoro (ancora inedito) del Trinità College di Dublino scava su questi ultimi punti –ossia in che misura l’oro è un efficace bene rifugio ed un efficiente strumento di diversificazione dei portafogli. L’analisi empirica – se ne possono chiedere i dettagli agli autori – Dirk Baur, baurd@tcd.ie e Brian Lucey blucey@tcd.ie – esamina i movimenti di valorizzazioni e rendimenti nei mercati azionari ed obbligazionari di Usa, Regno Unito e Germania e la loro interazione con le quotazioni del metallo giallo. Le conclusioni sono che l’oro è un elemento di equilibrio efficiente di un portafoglio rispetto alle azioni; è, però, un bene rifugio efficace soltanto in caso di condizioni estreme del mercato mobiliare; tale caratteristica, poi, è di breve durata – 15 giorni di mercati aperti dopo che si è verificato uno shock estremo.
A conclusioni analoghe arriva Mebane T. Faber nell’ultimo fascicolo del periodico Journal of Wealth Management, pur seguendo una metodologia di analisi differente : per il periodo 1972-2006 viene giustapposto un paniere di prodotti di base e materie prime (tra cui anche l’oro) con i più significativi indici del mercato mobiliare (azioni ed obbligazione) negli Usa ed in altri 20 Paesi (corretti tramite indicatori di volatilità). La morale è che nonostante la veneranda età e nonostante il livello di alta sofisticazione raggiunto dagli strumenti derivati, il lingotto resta un bene rifugio del quale non è facile fare a meno. E se per gli investitori professionali, la sua “utilità” dura al massimo 15 giorni, per il risparmiatore è tornato un buon affare. Dice nulla il balzo del 50% realizzato in soli due anni?
US Dollar Index vs. GoldUS$ Index vs. Gold (annual rate of change)
sabato 16 giugno 2007
PRODI METTE A PUNTO IL DPEF DELLA FELICITA’
Prodi ha annunciato che il prossimo Documento di Programmazione Economica e Finanziaria (Dpef) verrà presentato il 28 giugno. Ha, però, difficoltà sull’orientamento di fondo da dare al documento. Pur se i conti pubblici paiono in regola con il patto di stabilità (ma dal modello econometrico della Bce si evince che tale risultato è da attribuirsi ai provvedimenti della XIV Legislatura non a quelli dell’ultimo anno), gli aspetti strutturali di politica economica indicati nel Dpef del 7 luglio 2006 non sono stati neanche sfiorati. Il documento dell’anno scorso individuava quattro aree: pensioni, ammodernamento Pa, sanità, finanza locale. Per la previdenza si sarebbe dovuti arrivare ad una riforma entro e non oltre il 30 marzo. Ora si parla di 30 giugno, ma probabilmente non se ne farà niente: entrerà in vigore la legge Maroni del 2004 con lo “scalone” e non avverrà l’aggiornamento dei coefficienti di trasformazione (i parametri per trasformare in annualità, e quindi in assegni mensili, il montante dei contributi accumulati). Per la Pa si sono fatti addirittura passi indietro : non è stata introdotta la meritocrazia negli uffici e la formazione è nel caos a ragione di una proposta nei confronti della quale pendono ricorsi delle Regioni alla Corte Costituzionale ed i sindacati sono in subbuglio. In tema di sanità e di finanza locale, l’unica misura sono gli incrementi (non graditi) delle addizionali delle imposte regionali.
Quindi occorre trovare una nuova rotta. Su suggerimento dei suoi ex-colleghi dell’ateneo di Bologna, Prodi la sta cercano in quel filone di “economia della felicità”, coltivato, in Italia, da Luigino Bruni e Stefano Zamagni. In primo luogo, per spiegare le differenze tra obiettivi (del 2006) e risultati (quali si presentano adesso), il fedelissimo Ricardo Franco Levi (Ricky Levi per gli amici) ha scovato una vera chicca: l’Italia è un Paese iperteso (sotto il profilo economico) e dove è quindi molto difficile realizzare una politica di felicità (economica). L’appiglio è un saggio freschissimo di David Blanchflower del Darmouth College e di Andrei Oswald della Università di Warwick (“Hypertension and Happiness Across Nations"- “Ipertensione e felicità tra le Nazioni” ) pubblicato in maggio nella serie degli NBER Working Paper (è il numero W12934). E’ un’analisi comparata di 26 Paesi: quelli “più felici” sono anche quelli dove i livelli di ipertensione (misurati con analisi del sangue) sono i più bassi. Quindi, evitare di somministrare i calmanti- Cosa difficile, argomenta Ricky Levi, perché nella complessa compagine di Governo ci troviamo con Ministri e Sottosegretari che fanno concorrenza (sleale) ai tranquillanti.
Più incoraggiante il saggio_"Perspectives from the Happiness Literature and the Role of New Instruments for Policy Analysis" (“Prospettive dalla letteratura sulla felicità ed il ruolo dei nuovi strumenti per l’analisi delle politiche economiche”) pubblicato da B.S: Van Praag della Università di Amsterdam in Germania (IZA Discussion Paper No. 2568) e scovato dal buon Ricky Levi. E’ un lavoro teorico ma indica quali indicatori utilizzare nell’analisi della felicità e quali strumenti impiegare a fini di politica economica.
Sulla stessa vena l’ultimo lavoro di due dei “padri” dell’economia della felicità – Bruno Frey e Alois Stutzer "What Happiness Research Can Tell Us About Self-Control Problems and Utility Misprediction" (“Cosa ci dice la ricerca della felicità in materia di autocontrollo e di previsioni errate delle utilità”) apparso in primavera avanzata tra Institute for Empirical Research in Economics Working Paper ( è il numerpo 267). Ha un chiaro nesso con le analisi sulle difficoltà di fare politica economica della felicità ; riguarda, però, aspetti micro-economici (il fumo, il troppo tempo a guardare la Tv) più che i nodi macro-economici che il Dpef deve sciogliere.
La ricerca continua. Il Dpef della felicità è lontano. Il Palazzo (Chigi) è, comunque, felice.
Quindi occorre trovare una nuova rotta. Su suggerimento dei suoi ex-colleghi dell’ateneo di Bologna, Prodi la sta cercano in quel filone di “economia della felicità”, coltivato, in Italia, da Luigino Bruni e Stefano Zamagni. In primo luogo, per spiegare le differenze tra obiettivi (del 2006) e risultati (quali si presentano adesso), il fedelissimo Ricardo Franco Levi (Ricky Levi per gli amici) ha scovato una vera chicca: l’Italia è un Paese iperteso (sotto il profilo economico) e dove è quindi molto difficile realizzare una politica di felicità (economica). L’appiglio è un saggio freschissimo di David Blanchflower del Darmouth College e di Andrei Oswald della Università di Warwick (“Hypertension and Happiness Across Nations"- “Ipertensione e felicità tra le Nazioni” ) pubblicato in maggio nella serie degli NBER Working Paper (è il numero W12934). E’ un’analisi comparata di 26 Paesi: quelli “più felici” sono anche quelli dove i livelli di ipertensione (misurati con analisi del sangue) sono i più bassi. Quindi, evitare di somministrare i calmanti- Cosa difficile, argomenta Ricky Levi, perché nella complessa compagine di Governo ci troviamo con Ministri e Sottosegretari che fanno concorrenza (sleale) ai tranquillanti.
Più incoraggiante il saggio_"Perspectives from the Happiness Literature and the Role of New Instruments for Policy Analysis" (“Prospettive dalla letteratura sulla felicità ed il ruolo dei nuovi strumenti per l’analisi delle politiche economiche”) pubblicato da B.S: Van Praag della Università di Amsterdam in Germania (IZA Discussion Paper No. 2568) e scovato dal buon Ricky Levi. E’ un lavoro teorico ma indica quali indicatori utilizzare nell’analisi della felicità e quali strumenti impiegare a fini di politica economica.
Sulla stessa vena l’ultimo lavoro di due dei “padri” dell’economia della felicità – Bruno Frey e Alois Stutzer "What Happiness Research Can Tell Us About Self-Control Problems and Utility Misprediction" (“Cosa ci dice la ricerca della felicità in materia di autocontrollo e di previsioni errate delle utilità”) apparso in primavera avanzata tra Institute for Empirical Research in Economics Working Paper ( è il numerpo 267). Ha un chiaro nesso con le analisi sulle difficoltà di fare politica economica della felicità ; riguarda, però, aspetti micro-economici (il fumo, il troppo tempo a guardare la Tv) più che i nodi macro-economici che il Dpef deve sciogliere.
La ricerca continua. Il Dpef della felicità è lontano. Il Palazzo (Chigi) è, comunque, felice.
venerdì 15 giugno 2007
QUESTO HEDGE SOMIGLIA PIU’ A UN FONDO COMUNE
Quanto e a chi rendono gli hedge fund? Il tema è di grande attualità: il 6 giugno (ma pochi se ne sono accorti) con il comunicato conclusivo della riunione di Heiligendamm, i Capi di Stati e di Governo dei “grandi” del mondo, il G8, benedicevano la strategia di “autoregolamentazione” e di “vigilanza indiretta” definita in precedenza dai loro Ministri economici e finanziari; nel fine settimana dell’8-9 giugno il mondo delle telecomunicazioni (e della finanza) è stato sulle spine a proposito della battaglia di una serie di “activist investors” (guidati dall’hedge fund Efficient Capital Structures) per il controllo e la riorganizzazione del gigante del settore Vodafone; quasi in parallelo, gli specialisti dell’azionario sono stati scossi da uno studio dell’Economist Intelligence Unit (Eiu) secondo cui “gli hedge fund rendono unicamente ai loro gestori” e da un’analisi riservata di Bridgewater Associates a detta della quale “gli hedge funds fanno il contrario di quanto promettono” – non portano soddisfazioni con un comportamento “contrarian” (cioè differente da quello della media degli investitori) ma si muovono sullo stesso solco di quegli indici azionari da cui dicono di tenere le distanze.
Partiamo dal lavoro di Bridgewater Associates, in base al quale negli ultimi 24 mesi l’andamento degli “hedge funds” è stato mediamente correlato al 60% con l’indice Standard & Poor, al 67% con il Morgan Stanley Capital Inertational Eafe (Europa, Australia e Estremo Oriente), e ben 87% con gli indici dei mercati emergenti. Quindi, tanto rumor per nulla? Se l’analisi di Bridgewater Associates viene estesa sino al 1994, la correlazione è più bassa: tra il 49% ed il 54%. Da un canto, ciò indica che gli operatori dei fondi in questioni sono diventati più cauti; da un altro, che i fondamentali del mercato hanno maggiore volatilità. In altri termino, ciò convalida l’analisi dell’Eiu secondo cui si pagano fee elevate più per l’immagine che per la sostanza – un bene posizionale come il vino bianco di Meursault (per cui si pagano 150 euro la bottiglia).
Un risultato che, ad una lettura superficiale, può risultare divergente è in un saggio apparso nell’ultimo fascicolo della rivista “European Financial Management “ (Vol. 13, n.2, pp. 309-331) . Viene utilizzata una strumentazione raffinata di analisi finanziaria (l’algoritmo Fama-French per l’analisi di rischio) per studiare l’andamento dei rendimenti su un arco di tempo molto esteso: dal 1990 al 2003. “Tutte le categorie di hedge fund riportano rendimenti molto più elevati degli indici aggregati di Borsa”. Tuttavia, tale andamento è da attribuirsi unicamente ai risultati molto più che buoni del 40-47% dei fondi: Quindi, il suggerimento: gli investitori istituzionali ed i fondi pensioni scelgano con cura a chi affidare le loro risorse.
Un’indicazione interessante viene da un lavoro di quattro università Usa (apparso come Ecgi Finance working paper N. 139/2006). L’analisi riguarda un periodo breve (il 2004-2005) e solo i fondi Usa: scava nell’effetto annuncio. Gli “hedge fund” che si presentano a gestione attiva e dinamica espongono rendimenti elevati di breve periodo (il 5-7% per una finestra di 20 giorni). Molto elevati quando attivismo e dinamismo vogliono dire un’acquisizione od una ristrutturazione aziendale non amichevole (quale evocate dalle cronache finanziarie di questi giorni a proposito della Vodafone). Altro aspetto: dopo l’impennata (dati alla mano) non ci sarebbe distruzione di valore ma rientro in un alveo più contenuto.
Ancora più interessante (ma pertinente unicamente agli hedge americani) una caratteristica identificata in un lavoro della New York University (Egci Finance Working Paper N. 140/2006) che esamina i frutti di un attivismo molto speciale (avvalersi di una norma contabile Usa che consente di posticipare le dichiarazioni alle autorità di vigilanza) nel periodo gennaio 2003- dicembre 2005. Con un investimento anche appena del 5% in una SpA in fondo dinamico ed attivo riesce, nel 60% dei casi, di piegare il management alle proprie richieste.
La bellezza – dice un proverbio britannico – è negli occhi di chi guarda. Ma – aggiungiamo – ne plasma anche i comportamenti.
Partiamo dal lavoro di Bridgewater Associates, in base al quale negli ultimi 24 mesi l’andamento degli “hedge funds” è stato mediamente correlato al 60% con l’indice Standard & Poor, al 67% con il Morgan Stanley Capital Inertational Eafe (Europa, Australia e Estremo Oriente), e ben 87% con gli indici dei mercati emergenti. Quindi, tanto rumor per nulla? Se l’analisi di Bridgewater Associates viene estesa sino al 1994, la correlazione è più bassa: tra il 49% ed il 54%. Da un canto, ciò indica che gli operatori dei fondi in questioni sono diventati più cauti; da un altro, che i fondamentali del mercato hanno maggiore volatilità. In altri termino, ciò convalida l’analisi dell’Eiu secondo cui si pagano fee elevate più per l’immagine che per la sostanza – un bene posizionale come il vino bianco di Meursault (per cui si pagano 150 euro la bottiglia).
Un risultato che, ad una lettura superficiale, può risultare divergente è in un saggio apparso nell’ultimo fascicolo della rivista “European Financial Management “ (Vol. 13, n.2, pp. 309-331) . Viene utilizzata una strumentazione raffinata di analisi finanziaria (l’algoritmo Fama-French per l’analisi di rischio) per studiare l’andamento dei rendimenti su un arco di tempo molto esteso: dal 1990 al 2003. “Tutte le categorie di hedge fund riportano rendimenti molto più elevati degli indici aggregati di Borsa”. Tuttavia, tale andamento è da attribuirsi unicamente ai risultati molto più che buoni del 40-47% dei fondi: Quindi, il suggerimento: gli investitori istituzionali ed i fondi pensioni scelgano con cura a chi affidare le loro risorse.
Un’indicazione interessante viene da un lavoro di quattro università Usa (apparso come Ecgi Finance working paper N. 139/2006). L’analisi riguarda un periodo breve (il 2004-2005) e solo i fondi Usa: scava nell’effetto annuncio. Gli “hedge fund” che si presentano a gestione attiva e dinamica espongono rendimenti elevati di breve periodo (il 5-7% per una finestra di 20 giorni). Molto elevati quando attivismo e dinamismo vogliono dire un’acquisizione od una ristrutturazione aziendale non amichevole (quale evocate dalle cronache finanziarie di questi giorni a proposito della Vodafone). Altro aspetto: dopo l’impennata (dati alla mano) non ci sarebbe distruzione di valore ma rientro in un alveo più contenuto.
Ancora più interessante (ma pertinente unicamente agli hedge americani) una caratteristica identificata in un lavoro della New York University (Egci Finance Working Paper N. 140/2006) che esamina i frutti di un attivismo molto speciale (avvalersi di una norma contabile Usa che consente di posticipare le dichiarazioni alle autorità di vigilanza) nel periodo gennaio 2003- dicembre 2005. Con un investimento anche appena del 5% in una SpA in fondo dinamico ed attivo riesce, nel 60% dei casi, di piegare il management alle proprie richieste.
La bellezza – dice un proverbio britannico – è negli occhi di chi guarda. Ma – aggiungiamo – ne plasma anche i comportamenti.
giovedì 14 giugno 2007
UN’APOCALISSE DIGITALE
E’ iniziata l’estate dell’apocalisse. E’ il tema della biennale di Venizia e del Ravenna Festival; anche il Ravello Festival, intitolato a “La Passione”, ha un programma con echi apocalittici. L’Apocalisse di Giovanni, intercalata con poesie di Paul Celan e di di Jacques Maritain, è l’argomento dell’”opera video” di Adriano Guarnirei che dopo la prima mondiale a Roma, si potrà vedere ed ascoltare al Ravenna Festival (sino al 22 giugno) e probabilmente l’autunno prossimo in circuiti italiani e stranieri. Guarnieri afferma che il lavoro dovrebbe attirare i giovani per il ruolo che in esso ha il visivo ad alta tecnologia. In effetti, è un oratorio profano di un’ora e mezzo in cui grande organico orchestrale, musica dal vivo, solisti in buca, 14 voci, live electronics, danze e mimi ripropongono un tema eterno: la lotta tra la Babilonia terrestre (del potere e della lussuria) e la Gerusalemme celeste (risplendente di “pietra di diaspro”, bianca e lucente, come nell’Apocalisse di Giovanni.
La parte visiva è importante quanto quella musicale. Cristina Mazzavillani Muti è una specialista di scenografie virtuali digitali. Assistita da Ezio Antonelli (immagini virtuali), Alessandro Lai (costumi) e Patrizio Maggi (luci), e svincolata dal dovere seguire un intreccio, crea (con un gioco di immagini virtuali, proiezioni e specchi) un susseguirsi di effetti speciali strettamente legati alla musica per dare corpo agli stati d’animo. I cantanti restano ai lati dell’orchestra ed i cori nel fondo scena, ma con un numero limitato di mimi e ballerini – la coreografia è di Silvia Curti – Cristina Mazzavillani Muti rappresenta efficacemente sul palcoscenico il dramma spiritual espresso dalla scrittura orchestrale e vocale e dal live electronics. Accurata la fantasia di colori che accompagnano le singole sequenze musicali sino a esplodere del luminosissimo bianco del finale.
Piero Borgonovo dirige con perizia l’orchestra del Teatro dell’Opera di Roma alle prese con una scrittura impervia (specialmente nella prima parte). Spiccano le parti solistiche all’arpa, al violoncello ed al flauto iperbasso. Tra i 14 solisti vocali, di rilievo due dei soprani (Antonella Ruggiero e Alda Caiello) e i due controtenori (Marco Lazzara e Gianluca Blefiori Doro).
Pietra di Diaspro porterà i giovani nei teatri lirici? Forse in Paesi (Germania, Francia, Usa, Gran Bretagna) dove il pubblico giovane è maggiormente assuefatto che da noi alla musica contemporanea. In Italia, Pietra è uno spettacolo d’élite per un pubblico d’élite.
La parte visiva è importante quanto quella musicale. Cristina Mazzavillani Muti è una specialista di scenografie virtuali digitali. Assistita da Ezio Antonelli (immagini virtuali), Alessandro Lai (costumi) e Patrizio Maggi (luci), e svincolata dal dovere seguire un intreccio, crea (con un gioco di immagini virtuali, proiezioni e specchi) un susseguirsi di effetti speciali strettamente legati alla musica per dare corpo agli stati d’animo. I cantanti restano ai lati dell’orchestra ed i cori nel fondo scena, ma con un numero limitato di mimi e ballerini – la coreografia è di Silvia Curti – Cristina Mazzavillani Muti rappresenta efficacemente sul palcoscenico il dramma spiritual espresso dalla scrittura orchestrale e vocale e dal live electronics. Accurata la fantasia di colori che accompagnano le singole sequenze musicali sino a esplodere del luminosissimo bianco del finale.
Piero Borgonovo dirige con perizia l’orchestra del Teatro dell’Opera di Roma alle prese con una scrittura impervia (specialmente nella prima parte). Spiccano le parti solistiche all’arpa, al violoncello ed al flauto iperbasso. Tra i 14 solisti vocali, di rilievo due dei soprani (Antonella Ruggiero e Alda Caiello) e i due controtenori (Marco Lazzara e Gianluca Blefiori Doro).
Pietra di Diaspro porterà i giovani nei teatri lirici? Forse in Paesi (Germania, Francia, Usa, Gran Bretagna) dove il pubblico giovane è maggiormente assuefatto che da noi alla musica contemporanea. In Italia, Pietra è uno spettacolo d’élite per un pubblico d’élite.
LE RIDUZIONI TRIBUTARIE DI TPS- NECESSARIE E REMOTE
Alla vigilia (quasi) della discussione dei lineamenti del Documento di Programmazione Economica e Finanziaria (DPEF), il Ministro del Tesoro e delle Finanze Tomaso Padoa-Schioppa (TPS) si è ricordato di quanto ItaliaOggi ripete da un anno: l’Italia ha il primato del più alto carico tributario e contributivo al mondo. Non bisogna vergognarsene ma non bisogna neanche esserne orgogliosi - come diceva Tevye, il povero contadino ebreo nella Russia zarista immortalato dai racconti di Sholom Aleichem, nonché da una fortunata commedia musicale e da fortunatissimo film.
Sotto il profilo economico non è questione di onta o di orgoglio – ma come lo stesso TPS scrisse anni fa- di sopravvivenza nel contesto internazionale: con un carico fiscale che sfiora il 43% del pil (a ragione in gran misura degli aumenti nel 1993-2000 e di quelli attuati con l’ultima finanziaria) è difficile competere con aree (come il Nord America) dove la pressione è circa un terzo del pil ed ancora di più con quelle (l’Asia emergente) dove non arriva ad un quinto del reddito nazionale. Negli stessi Usa (nonostante i disavanzi dei conti pubblici e dei conti con l’estero) si sta viaggiando ad un sistema a tre sole aliquote (15%, 25% e 35%), ma depurato da detrazioni e deduzioni (una vera e propria giungla – da loro come da noi).
TPS, tuttavia, non ha adesso la veste del ricercatore. Ma è Ministro della Repubblica – quello in particolare di indicare la rotta in materia di tasse ed imposta (nonostante debba avere ogni tanto a che fare con un Vice recalcitrante). Quindi, non può limitarsi a dire che le tasse sono troppe e troppo alte. Ha il compito di indicare la rotta.
Alcuni suggerimenti vengono immediatamente in mente. In primo luogo, pensare alla famiglia, in Italia triturata come in nessun altro Paese dal fisco e dai suoi oneri. . Il passo essenziale è quello di introdurre il “quoziente familiare” per l’imposizione dei redditi dei nuclei: una proposta puntuale, quantizzata e testata su 10 milioni di dichiarazioni dei redditi, è stata messa a punto da Luigi Campiglio e Tatiana Oneta (nessuno dei due è collaterale all’attuale opposizione) e può essere letta al sito http://docenti.unicatt.it. I calcoli concludono che le famiglie avrebbero un sollievo fiscale consistente, senza che ci sia una caduta di entrate. Le stime sono fatte su famiglie regolari e non tengono conto di unioni di fatto. Altro punto essenziale è abrogare l’imposta di successione (nel mondo anglosassone viene chiamata “Death Tax” ossia “tassa sulla morte”) reintrodotta, di soppiatto con l’ultima finanziaria. Una recente ricerca dell’Istituto Tedesco di Studi di Economia del Lavoro, Iza (Iza Discussion Paper N. 2578), un centro studi distinto e distante dalle nostre beghe, conclude che molti Stati la hanno abrogata perché appartiene al passato remoto (venne introdotta con la tassazione capitarla e fondiaria quando i sistemi tributari erano rudimentali). Gran parte dei Paesi anglo-sassoni la hanno cancellata in quanto il suo accertamento e la sua riscossione costa molto di più del gettito tributario che genera. La mantiene la Francia, ma il programma di Sarkozy ne prevede l’eliminazione. Dobbiamo restare i soli con il triste onore di mantenere una “Death Tax” (tassa sulla morte, la chiamano così in inglese) che scoraggia quei lasciti alle generazioni future che spesso sono il sale dei nuclei?
In secondo luogo, pur se un sollievo alla famiglia ha riflessi immediati su consumi ed investimenti e di medio e lungo periodo sulla demografia, occorre mettere mano alla fiscalità sulle imprese. Nelle “considerazioni finali” pronunciate il 31 maggio scorso dal Governatore della Banca d’Italia, è stato ricordato come solo la Francia (e per un soffio) ci batte in termini di pressione tributarie sulle imprese. Tra breve, saremo i primi (in quanto il Governo francese ha annunciato una riduzione della fiscalità di impresa). Se si tiene conto del costo degli adempimenti (complicatissimi in Italia) il primato lo abbiamo già adesso.
TPS passi all’azione. Oppure vada a guidare un centro studi.
Sotto il profilo economico non è questione di onta o di orgoglio – ma come lo stesso TPS scrisse anni fa- di sopravvivenza nel contesto internazionale: con un carico fiscale che sfiora il 43% del pil (a ragione in gran misura degli aumenti nel 1993-2000 e di quelli attuati con l’ultima finanziaria) è difficile competere con aree (come il Nord America) dove la pressione è circa un terzo del pil ed ancora di più con quelle (l’Asia emergente) dove non arriva ad un quinto del reddito nazionale. Negli stessi Usa (nonostante i disavanzi dei conti pubblici e dei conti con l’estero) si sta viaggiando ad un sistema a tre sole aliquote (15%, 25% e 35%), ma depurato da detrazioni e deduzioni (una vera e propria giungla – da loro come da noi).
TPS, tuttavia, non ha adesso la veste del ricercatore. Ma è Ministro della Repubblica – quello in particolare di indicare la rotta in materia di tasse ed imposta (nonostante debba avere ogni tanto a che fare con un Vice recalcitrante). Quindi, non può limitarsi a dire che le tasse sono troppe e troppo alte. Ha il compito di indicare la rotta.
Alcuni suggerimenti vengono immediatamente in mente. In primo luogo, pensare alla famiglia, in Italia triturata come in nessun altro Paese dal fisco e dai suoi oneri. . Il passo essenziale è quello di introdurre il “quoziente familiare” per l’imposizione dei redditi dei nuclei: una proposta puntuale, quantizzata e testata su 10 milioni di dichiarazioni dei redditi, è stata messa a punto da Luigi Campiglio e Tatiana Oneta (nessuno dei due è collaterale all’attuale opposizione) e può essere letta al sito http://docenti.unicatt.it. I calcoli concludono che le famiglie avrebbero un sollievo fiscale consistente, senza che ci sia una caduta di entrate. Le stime sono fatte su famiglie regolari e non tengono conto di unioni di fatto. Altro punto essenziale è abrogare l’imposta di successione (nel mondo anglosassone viene chiamata “Death Tax” ossia “tassa sulla morte”) reintrodotta, di soppiatto con l’ultima finanziaria. Una recente ricerca dell’Istituto Tedesco di Studi di Economia del Lavoro, Iza (Iza Discussion Paper N. 2578), un centro studi distinto e distante dalle nostre beghe, conclude che molti Stati la hanno abrogata perché appartiene al passato remoto (venne introdotta con la tassazione capitarla e fondiaria quando i sistemi tributari erano rudimentali). Gran parte dei Paesi anglo-sassoni la hanno cancellata in quanto il suo accertamento e la sua riscossione costa molto di più del gettito tributario che genera. La mantiene la Francia, ma il programma di Sarkozy ne prevede l’eliminazione. Dobbiamo restare i soli con il triste onore di mantenere una “Death Tax” (tassa sulla morte, la chiamano così in inglese) che scoraggia quei lasciti alle generazioni future che spesso sono il sale dei nuclei?
In secondo luogo, pur se un sollievo alla famiglia ha riflessi immediati su consumi ed investimenti e di medio e lungo periodo sulla demografia, occorre mettere mano alla fiscalità sulle imprese. Nelle “considerazioni finali” pronunciate il 31 maggio scorso dal Governatore della Banca d’Italia, è stato ricordato come solo la Francia (e per un soffio) ci batte in termini di pressione tributarie sulle imprese. Tra breve, saremo i primi (in quanto il Governo francese ha annunciato una riduzione della fiscalità di impresa). Se si tiene conto del costo degli adempimenti (complicatissimi in Italia) il primato lo abbiamo già adesso.
TPS passi all’azione. Oppure vada a guidare un centro studi.
SARANNO GLI ITALIANI A PAGARE IL CONTO DELL'ALITALIA
“Rien ne va plus. Les jeux sont faits”. Questa è ormai la situazione di quella che avrebbe dovuto essere l’”asta”, secondo la terminologia del Presidente del Consiglio Romano Prodi, per privatizzare Alitalia. Non soltanto - come abbiamo visto sin dalla pubblicazione del bando di gara alla fine dello scorso anno - non ci sarà “asta” ma si è tentato un beauty contest (raffronto, per spogli successivi, di proposte industriali e di proposte finanziarie da parte di potenziali acquirenti). Lo stesso beauty contest pare saltato a ragione del disinteresse di uno dei potenziali partner (l’americano) che si è formalmente ritirato dalla competizione e dal probabile “bye-bye” anche dell’altro (il russo che manifesta di non gradire la piega che sta prendendo la situazione). Resterebbe in lizza soltanto la cordata Air One-Sanpaolo Intesa, ma una gara con un concorrente solo (che rischia per di più di avere il monopolio della lucrativa tratta Milano-Roma) non è certo una disfida; ciò ha già fatto arricciare le sopracciglia alle autorità anti-trust sia europee sia italiane. Ad aggiungere confusione e disorientamento, ove mai ce ne fosse bisogno, sono venute due settimane fa, a gara aperta, le dichiarazioni del Ministro dei Trasporti Alessandro Bianchi (nelle vesti, si suppone, non di docente universitario di trasportistica ma di componente del Governo ancora in carica) il quale ha detto chiaro e forte che quello si vuole non è una privatizzazione ma una ricapitalizzazione da effettuarsi, in parte con l’apporto di capitali proveniente dalle vendita di una quota di minoranza della compagnia, ed in parte (quella più sostanziale e più sostanziosa) con i soldi di tutti.
Su una linea ancora più trasparente i revisori dei conti Deloitte & Touch che il 12 giugno ha, dopo lunghe discussione con il management della compagnia, certificato sì il consuntivo 2006 (da cui si ricava che, allo stato attuale, Alitalia perde 2 milioni di euro al giorno) ma avvertito che “la continuità aziendale (della società - n.d.r.) dipende dagli esiti, ad oggi non prevedibili, della procedura di vendita in corso, e quindi dalla individuazione, allo stato attuale incerta, del futuro azionista ultimo di riferimento che dovrà farsi carico del piano di risanamento del gruppo presentato al Ministero”. In linguaggio non tecnico questa frase vuol dire:
a) ci piacerebbe che si trovi capitale fresco per una ricapitalizzazione, ma non è detto che ci sia chi è disposto a rischiare e sia nelle condizioni di farlo. In altri termini, se Air One (con SanpaoloIntesa) sono pronti ad entrare, non è assodato che lo facciano visti sia i possibili procedimenti anti-trust sia le perplessità espresse dalla Lufthansa (la capogruppo della Star Alliance di cui Air One fa parte) in merito alla capacità tecnico-organizzativa di diventare un vettore internazionale ed intercontinentale;
b) se, saltata la privatizzazione, si deve accantonare pure la ricapitalizzazione (il piano B rivelato il 30 maggio da Bianchi), o viene attuato un programma di risanamento definito con le autorità pubbliche (e dunque con i soldi dei contribuenti) o si portano i libri in tribunale.
Avvertivamo già da tempo che tanto la (mai iniziata) “asta” (di cui continua a parlottare il Premier) quanto il beauty contest fossero poco più di una mantella per ampliare il raggio di azione del “partito aziende” (un soggetto politico costituito non di elettori ma di aziende collaterali) d’impronta prodiana. Lo ha ben compreso il gruppo americano ATG (affiancato da Mediobanca) che ha lasciato il tavolo prima ancora di acquisire, dalla data room, tutte le informazioni finanziarie di dettaglio (le più importanti riguardano la redditività per le singole tratte). Lo hanno capito pure i russi di Aeroflot (affiancati da Unicredito). La partita, in dirittura di arrivo, assomigliava molto alla vecchia vicenda della Sme: una licitazione sostanzialmente privata per darla agli “amici degli amici”. La differenza sarebbe stata che il concorrente-acquirente (unico) avrebbe portato un po’ di denaro fresco nell’immediato per partecipare ad una ristrutturazione da farsi, in gran misura, a carico di Pantalone (ossia dei soliti noti) per rivendere (presumibilmente con una valorizzazione soddisfacente) al termine del vincolo temporale (si parla di tre anni) in cui stare con la compagnia di bandiera. Due settimane fa si potevano fare congetture su chi ci avrebbe guadagnato (il “partito-aziende”) e chi rimesso (gli italiani). Ora è probabile che anche Air One esca dalla comune e che il risanamento di un’azienda a lungo guidata dai fedelissimi di Prodi venga posto (e per una questione nazional-popolare di bandiera e per salvaguardare posti di lavoro) interamente a carico della collettività. Pagheremo il biglietto due volte: con le maxi-tariffe Alitalia in tratte protette e con le nostre tasse. Che bello!
14 Giugno 2007 alitalia bianchi intesa sanpaolo Italia prodi
Su una linea ancora più trasparente i revisori dei conti Deloitte & Touch che il 12 giugno ha, dopo lunghe discussione con il management della compagnia, certificato sì il consuntivo 2006 (da cui si ricava che, allo stato attuale, Alitalia perde 2 milioni di euro al giorno) ma avvertito che “la continuità aziendale (della società - n.d.r.) dipende dagli esiti, ad oggi non prevedibili, della procedura di vendita in corso, e quindi dalla individuazione, allo stato attuale incerta, del futuro azionista ultimo di riferimento che dovrà farsi carico del piano di risanamento del gruppo presentato al Ministero”. In linguaggio non tecnico questa frase vuol dire:
a) ci piacerebbe che si trovi capitale fresco per una ricapitalizzazione, ma non è detto che ci sia chi è disposto a rischiare e sia nelle condizioni di farlo. In altri termini, se Air One (con SanpaoloIntesa) sono pronti ad entrare, non è assodato che lo facciano visti sia i possibili procedimenti anti-trust sia le perplessità espresse dalla Lufthansa (la capogruppo della Star Alliance di cui Air One fa parte) in merito alla capacità tecnico-organizzativa di diventare un vettore internazionale ed intercontinentale;
b) se, saltata la privatizzazione, si deve accantonare pure la ricapitalizzazione (il piano B rivelato il 30 maggio da Bianchi), o viene attuato un programma di risanamento definito con le autorità pubbliche (e dunque con i soldi dei contribuenti) o si portano i libri in tribunale.
Avvertivamo già da tempo che tanto la (mai iniziata) “asta” (di cui continua a parlottare il Premier) quanto il beauty contest fossero poco più di una mantella per ampliare il raggio di azione del “partito aziende” (un soggetto politico costituito non di elettori ma di aziende collaterali) d’impronta prodiana. Lo ha ben compreso il gruppo americano ATG (affiancato da Mediobanca) che ha lasciato il tavolo prima ancora di acquisire, dalla data room, tutte le informazioni finanziarie di dettaglio (le più importanti riguardano la redditività per le singole tratte). Lo hanno capito pure i russi di Aeroflot (affiancati da Unicredito). La partita, in dirittura di arrivo, assomigliava molto alla vecchia vicenda della Sme: una licitazione sostanzialmente privata per darla agli “amici degli amici”. La differenza sarebbe stata che il concorrente-acquirente (unico) avrebbe portato un po’ di denaro fresco nell’immediato per partecipare ad una ristrutturazione da farsi, in gran misura, a carico di Pantalone (ossia dei soliti noti) per rivendere (presumibilmente con una valorizzazione soddisfacente) al termine del vincolo temporale (si parla di tre anni) in cui stare con la compagnia di bandiera. Due settimane fa si potevano fare congetture su chi ci avrebbe guadagnato (il “partito-aziende”) e chi rimesso (gli italiani). Ora è probabile che anche Air One esca dalla comune e che il risanamento di un’azienda a lungo guidata dai fedelissimi di Prodi venga posto (e per una questione nazional-popolare di bandiera e per salvaguardare posti di lavoro) interamente a carico della collettività. Pagheremo il biglietto due volte: con le maxi-tariffe Alitalia in tratte protette e con le nostre tasse. Che bello!
14 Giugno 2007 alitalia bianchi intesa sanpaolo Italia prodi
martedì 12 giugno 2007
DIECI OTTIMI MOTIVI PER METTERSI ALL’OPERA
Quali Festival di musica lirica seguire in Italia ed all’estero nell’estate che sta per iniziare allo scopo di unire il dilettevole (ossia l’ascolto di buona musica) all’utile (ossia incontri che potranno rivelarsi interessanti nel medio ed in certi casi pure nel breve periodo)? Soltanto in Italia, ci saranno una trentina di Festival (per tutti i gusti, per tutte le tasche e di tutti i livelli qualitativi). Se si tiene conto di quelli all’estero si arriva ad oltre il centinaio. Un vero e proprio labirinto. Si possono fornire alcune indicazioni (sui festival italiani prima e su quelli stranieri poi) per orientarsi seguendo come criterio di base quello di coniugare l’utile e dilettevole.
“LA RONDINE” IN VERSILIA PER LA “ROMA-CHE-PUO’”
Secondo questo metro di valutazione, in Italia la serata più importante è il 10 agosto, la notte di San Lorenzo. A Torre del Lago , nei pressi di Viareggio, si daranno appuntamento non solo la Versilia chic ma anche “la-Roma-che-può” (nonché musicomani stranieri). E la “prima” del nuovo allestimento de “La Rondine” di Giacomo Puccini in una produzione che successivamente si vedrà a Lucca, Nizza ed altri teatri. Sotto il profilo artistico, l’interesse è dato dal fatto che verrà presentata la terza, ed ultima, versione con un finale più drammatico delle prime due (di norma si mette in scena la seconda), mai completamente orchestrato da Puccini; si farà ricorso all’orchestrazione di Lorenzo Ferrero per le cinque pagine mancanti (utilizzando in effetti un’interpolazione ascoltata in Italia solo nel 1994 a Torino ma ormai entrata nella pressi di molti teatri stranieri, principalmente di quelli britannici). Altro aspetto di rilievo: è la prima regia lirica di Lorenzo Amato (figlio dell’attuale Ministro dell’Interno)- un debutto atteso dopo le prove date come attore e come regista di prosa. Si cimenta con la raffinata partitura Alberto Veronesi (figlio, a sua volta, del noto oncologo ma direttore artistico da anni del Festival dedicato a Puccini, di cui ha recuperato lavori quasi spariti).
Non mancano alberghi di classe a Viareggio. Importante prenotare per tempo la cena “dopo opera” a Villa Caproni (nei pressi del teatro), luogo di incontro di artisti, di ospiti e di un numero limitato di commensali a pagamento.
I ROBOT CATALANI DEL RING FIORENTINO
La 70sima edizione del “Maggio Musicale Fiorentino”, iniziata il 24 aprile con la prima mondiale di un’opera contemporanea, si estende sino a fine giugno. La parte più succulenta è dal 14 al 29 giugno quando vengono presentati il prologo (“Das Rheingold”- “L’Oro del Reno”) e la prima “giornata” (“Die Walküre”- “La Valchiria”) del “Ring” (“L’anello del Nibelungo”) di Richard Wagner ; la seconda e la terza “giornata” (“Siegfried”, “Sigfrido”, e “Das Götterdämerung”, “Il crepuscolo degli Dei”) della tetralogia saranno in programma nel 2008 e nel 2009. Dirige Zubin Mehta ( che già nel 1978-82 concertò un “Ring” memorabile con la regia di Luca Ronconi e le scene ed i costumi di Pierlugi Pizzi). La compagnia di canto è del miglior livello. L’aspetto più interessante, tuttavia, è l’allestimento, affidato al gruppo catalano “La Fura dels Baus”, noto per messe in scene post-moderne. Il mito wagneriano viene trasportato in un mondo di Robot dove dominano effetti speciali da fare invidia alle varie tornate di “Guerre Stellari”. Non si esclude la presenza di Angela Merkel – appassionata wagneriana.
Anche a Firenze , come a Viareggio, non mancano alberghi per tutti gli standard. Chi vuole alloggiare di fronte al teatro (“Die Walküre” dura oltre 5 ore mentre “Das Rheingold” è un atto unico di 2 ore e mezzo e sarà seguito da cene organizzate dalla “Firenze-bene”) ha due scelte l’Albergo Consigli (un villino sul Lungarno) e la residenza “Il Maggio” (solo cinque stanze, ma per veri intenditori). Per chi si ferma per le due opere, sfiziosa una puntata alla Fiaschetteria Il Latini
LE RARITA’ DI MARTINA FRANCA
Per chi passa le vacanze in Puglia (luogo di incontri politici di tutti i gradi), l’appuntamento è il Festival della Valle d’Itria , in programma a Martina Franca dal 19 luglio all’8 agosto. E’ all’insegna delle rarità - opere sparite dai cartelloni , come “Marcella” di Umberto Giordano e “Amica” di Pietro Mascagni ed una rivisitazione del barocco (“Achille in Sciro” di Domenico Sarro). La vera chicca è la messa in scena dell’edizione in francese di “Salome” di Richard Strauss, specialmente approntata per Parigi nel 1909 (con una dose aggiuntiva all’eros della versione originale tedesca, di solito eseguita).
Martina Franca dispone di un paio di alberghi a quattro stelle, ma se possibile è meglio scendere in “masserie” con piccoli appartamenti indipendenti e trattamento di bed & breakfast ; se ne trova un’ampia scelta navigando su Internet. Per una vera cucina pugliese, si può provare “I portici”.
IL GIOCO DEI POTENTI A MACERATA
Molto politico (e con la presenza di molti uomini politici) il Festival dello Sferisterio a Macerata, dal 26 luglio al 9 agosto. Il tema è “il gioco dei potenti”. Viene aperto da due conferenze sul potere , di Massimo Cacciari e di Anna Proclemer. Quattro le opere in programma – di cui due (“Maria Stuarda” di Gaetano Donizzetti e “Saul” di Flavio Testi) saranno la prossima stagione nei cartelloni della Scala di Milano e del Teatro dell’Opera di Roma. Anche le altre due (“Macbeth” di Giuseppe Verdi e “Norma” di Vincenzo Bellini). In una serata di gala il 27 luglio, infine, Alessandra Ferri darà addio alla carriera.
Macerata è la sede di una delle più antiche università europee. I suoi alberghi, quindi, sono in gran misura tarati alle esigenze di professori pendolari. Su tutti spicca il Claudiani . Due ristoranti preziosi a pochi passi: “Da Rosa” e “L’osteria dei fiori”. A pochi chilometri (a Passo di Treia) “Il vecchio granaio”, agriturismo in villa con piscina ottocentesca e cucina di classe.
JESI E LA VISIONE DI ROMA
Ancora una volta, alla fine quasi della stagione dei Festival, la piccola ma dinamica Jesi, ora al centro di un circuito di cinque teatri marchigiani (con appendici negli Usa, Baltimora, e nei Balcani, Belgrado) propone un programma di rarità: Roma come vista da Pergolesi e Spontini – i due musicisti jesini a cui è dedicata la manifestazione, ormai al settimo anni. Dal 7 al 16 settembre, si ascolterà e vedrà il primo allestimento in tempi moderni di “Adriano in Siria” di Gian Battista Pergolesi e la monumentale “La Vestale” di Gaspare Spontini, che verrà presentata in versione integrale (ma per marionette- quelle dei Fratelli Colla).
A Jesi gli artisti alloggiano al “Mariani” (piccolo albergo in pieno centro). Altrimenti si va al “Federico Secondo” nel verde ed a pochi minuti a piedi dalla città.”Galeazzi” è il ristorante delle Marche-che-possono (cucina di classe, prezzi commensurati). Gli artisti si incrociano all’Hosteria San Floriano.
PERCHE’ ANCHE NEL 2007 AIX EN PROVENCE E’UN MUST
Due le ragioni per tornare a Aix anche nel 2007: a) viene inaugurato il primo luglio il Grand Théâtre de Provence , una struttura modernissima di 1200 posti, finanziata quasi interamente da enti locali e da privati; b) si svolge l’appuntamento annuale de Le Cercle des Econmistes, il pensatoio economico che più ha contribuito al programma di Nicolas Sarkozy (che potrebbe giungere all’improvviso, con il suo entourage).
Il Festival è stato esteso a quasi un intero mese, a ragione della crescente domanda che ha comportato, per alcuni abbonamenti, l’utilizzazione di “call options” per il loro acquisto pluriennale. Molti i piatti forti: la prosecuzione con “Die Walküre” di un allestimento del “Ring” (regia di Stéphane Brawnscheig, la direzione d’orchestra di Sir Simon Rattle e i Berliner Philarmoniker in buca) che viene replicato in primavera a Salisburgo; b) un nuovo ardito allestimento de “Le nozze di Figaro” di Wolfgang A. Mozart; c) la riprese di una messa in scena da sogno (di dieci anni fa) de “L’Orfeo” di Claudio Monteverdi; d) una nuova produzione di “Una casa da morti” di Leos Janaceck. Tutti spettacoli che l’autunno e l’inverno prossimo saranno in varie capitali europee della musica (Parigi, Vienna, Milano, Bruxelles)
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“Le Grand Hotel du Roi René” è da decenni il preferito da critici e intellettuali. Il ristorante “Le deux garçons”, in stile belle époque, evoca ancora la coppia fissa Jean Cocteau e Jean Marais – tra i fondatori del Festival.
LE SORPRESE DI WOLF TRAP
Il Wolf Trap Festival è quello seguito dalla “Washington-che-conta”. Dono di una miliardaria americana, Filene Shouse, che ha donato il terreno e vi ha costruito un bel teatro (in parte coperto ed in parte all’aperto), propone questa estate un programma molto vario da fine giugno a metà agosto. A 30 chilometri dalla Casa Bianca, accanto a scelte tradizionali (come il mozartiano “Flauto Magico”) ci sono due leccornie: “Volpone”, un’opera di John Musto dalla commedia di Ben Johnson che ha debuttato negli Usa nel 2006 ed è già contesa dai principali teatri europei, e “L’Etoile” di Emmanuel Chabrier, un’opera fantastica del romanticismo francese che sta tornando in repertorio.
Si alloggia ovviamente nella capitale americana. A Wolf Trap c’è un ristorante a poche decine di metri dal teatro, ma la “Washington-che-conta” preferisce arrivare verso le 18,30 (gli spettacoli iniziano alle 20 in punto) ed indugiare in eleganti pic-nic a base di champagne e foie gras. Quanto più si è casual tanto più si è considerati eleganti (anche se gli smoking non sfigurano, specialmente nelle sere in cui arriva, ma lo sanno solo pochi intimi, il Presidente degli Stati Uniti).
MONACO: IN UN MESE IL MEGLIO DI UN ANNO
In luglio, ogni anno, il Nationaltheater di Monaco ripropone quasi ogni sera una differente opera di quelle che hanno avuto maggior successo nella stagione precedente (che si estende da settembre a fine giugno) Vi aggiunge una prima mondiale: quest’anno “Alice in Wonderland” di Unsuk Chin, un compositore coreano la cui scrittura è orecchiabile. Il Festival (frequentatissimo dal mondo industriale della Baviera e dell’Austria) termina tradizionalmente con un gala in cui si mettono in scena “Die Meistersinger von Nürnberg” (“I maestri cantori di Norimberga) di Richard Wagner. Per il gala, occorre prenotare con molto anticipo e tener conto che i prezzi sono elevati. Hotel per tutti i portafogli. Per una cena nella città vecchia, vale una visita alla Gasthaus Glockenbach
IN UN CASTELLO DELL’ESTREMO NORD
Dal 29 giugno al 29 luglio, a Savonlinna, in Filandia, si svolge uno dei Festival più frequentati non solo da scandinavi ma anche da chi conta nelle Repubbliche Baltiche e in Russia. L’ambiente è affascinante: un castello medioevale in uno scenario lacustre. Questa estate, oltre a opere tradizionali (come “Carmen” di Georges Bizet, “Macbeth” di Giuseppe Verdi, “Lucia di Lamermoor” di Gaetano Donizzetti), il Bolshoi di Mosca vi porta il proprio allestimento di “Boris Gudonov” di Modest Musorgski e si mette in scena la “prima” mondiale di “Daddy’s Girl” del compositore finlandese Olli Kortekangas (si promette musica orecchiabile). Limitata la scelta di alberghi. Il più ambito è il Keurusselka . Divertente e gustoso il Liekkilohiravintola Flame Salmon Restaurant, specializzato in salmone.
UN CONCENTRATO DI WAGNER (SENZA SETTE ANNI DI ATTESA)
Il Festival del Tirolo, a Erl (ai confini tra Austria e Baviera), è la meta dei wagneriani che non se la sentono di aspettare sette anni in lista di attesa per avere un biglietto per il Festival di Bayreuth .Dal 5 al 28 luglio, con cantanti giovani ma di classe ed un’orchestra di 150 elementi (un terzo sono italiani), Gustav Kuhn (maestro concertatore e regista) mette in scena tre edizioni integrali del “Ring”, tre di “Parsifal” e tre di “Tristano ed Isotta”. I prezzi dei biglietti sono competitivi. Imbattibili quelli delle tante locande a conduzione familiare sparse tra Erl e villaggi nei dintorni. Occasioni di incontri: non ne mancano perché a 80 chilometri da Monaco di Baviera , in una direzione, e da Salisburgo , dall’altra, la minuscola Erl è diventata un crocevia di melomani. E non solo.
“LA RONDINE” IN VERSILIA PER LA “ROMA-CHE-PUO’”
Secondo questo metro di valutazione, in Italia la serata più importante è il 10 agosto, la notte di San Lorenzo. A Torre del Lago , nei pressi di Viareggio, si daranno appuntamento non solo la Versilia chic ma anche “la-Roma-che-può” (nonché musicomani stranieri). E la “prima” del nuovo allestimento de “La Rondine” di Giacomo Puccini in una produzione che successivamente si vedrà a Lucca, Nizza ed altri teatri. Sotto il profilo artistico, l’interesse è dato dal fatto che verrà presentata la terza, ed ultima, versione con un finale più drammatico delle prime due (di norma si mette in scena la seconda), mai completamente orchestrato da Puccini; si farà ricorso all’orchestrazione di Lorenzo Ferrero per le cinque pagine mancanti (utilizzando in effetti un’interpolazione ascoltata in Italia solo nel 1994 a Torino ma ormai entrata nella pressi di molti teatri stranieri, principalmente di quelli britannici). Altro aspetto di rilievo: è la prima regia lirica di Lorenzo Amato (figlio dell’attuale Ministro dell’Interno)- un debutto atteso dopo le prove date come attore e come regista di prosa. Si cimenta con la raffinata partitura Alberto Veronesi (figlio, a sua volta, del noto oncologo ma direttore artistico da anni del Festival dedicato a Puccini, di cui ha recuperato lavori quasi spariti).
Non mancano alberghi di classe a Viareggio. Importante prenotare per tempo la cena “dopo opera” a Villa Caproni (nei pressi del teatro), luogo di incontro di artisti, di ospiti e di un numero limitato di commensali a pagamento.
I ROBOT CATALANI DEL RING FIORENTINO
La 70sima edizione del “Maggio Musicale Fiorentino”, iniziata il 24 aprile con la prima mondiale di un’opera contemporanea, si estende sino a fine giugno. La parte più succulenta è dal 14 al 29 giugno quando vengono presentati il prologo (“Das Rheingold”- “L’Oro del Reno”) e la prima “giornata” (“Die Walküre”- “La Valchiria”) del “Ring” (“L’anello del Nibelungo”) di Richard Wagner ; la seconda e la terza “giornata” (“Siegfried”, “Sigfrido”, e “Das Götterdämerung”, “Il crepuscolo degli Dei”) della tetralogia saranno in programma nel 2008 e nel 2009. Dirige Zubin Mehta ( che già nel 1978-82 concertò un “Ring” memorabile con la regia di Luca Ronconi e le scene ed i costumi di Pierlugi Pizzi). La compagnia di canto è del miglior livello. L’aspetto più interessante, tuttavia, è l’allestimento, affidato al gruppo catalano “La Fura dels Baus”, noto per messe in scene post-moderne. Il mito wagneriano viene trasportato in un mondo di Robot dove dominano effetti speciali da fare invidia alle varie tornate di “Guerre Stellari”. Non si esclude la presenza di Angela Merkel – appassionata wagneriana.
Anche a Firenze , come a Viareggio, non mancano alberghi per tutti gli standard. Chi vuole alloggiare di fronte al teatro (“Die Walküre” dura oltre 5 ore mentre “Das Rheingold” è un atto unico di 2 ore e mezzo e sarà seguito da cene organizzate dalla “Firenze-bene”) ha due scelte l’Albergo Consigli (un villino sul Lungarno) e la residenza “Il Maggio” (solo cinque stanze, ma per veri intenditori). Per chi si ferma per le due opere, sfiziosa una puntata alla Fiaschetteria Il Latini
LE RARITA’ DI MARTINA FRANCA
Per chi passa le vacanze in Puglia (luogo di incontri politici di tutti i gradi), l’appuntamento è il Festival della Valle d’Itria , in programma a Martina Franca dal 19 luglio all’8 agosto. E’ all’insegna delle rarità - opere sparite dai cartelloni , come “Marcella” di Umberto Giordano e “Amica” di Pietro Mascagni ed una rivisitazione del barocco (“Achille in Sciro” di Domenico Sarro). La vera chicca è la messa in scena dell’edizione in francese di “Salome” di Richard Strauss, specialmente approntata per Parigi nel 1909 (con una dose aggiuntiva all’eros della versione originale tedesca, di solito eseguita).
Martina Franca dispone di un paio di alberghi a quattro stelle, ma se possibile è meglio scendere in “masserie” con piccoli appartamenti indipendenti e trattamento di bed & breakfast ; se ne trova un’ampia scelta navigando su Internet. Per una vera cucina pugliese, si può provare “I portici”.
IL GIOCO DEI POTENTI A MACERATA
Molto politico (e con la presenza di molti uomini politici) il Festival dello Sferisterio a Macerata, dal 26 luglio al 9 agosto. Il tema è “il gioco dei potenti”. Viene aperto da due conferenze sul potere , di Massimo Cacciari e di Anna Proclemer. Quattro le opere in programma – di cui due (“Maria Stuarda” di Gaetano Donizzetti e “Saul” di Flavio Testi) saranno la prossima stagione nei cartelloni della Scala di Milano e del Teatro dell’Opera di Roma. Anche le altre due (“Macbeth” di Giuseppe Verdi e “Norma” di Vincenzo Bellini). In una serata di gala il 27 luglio, infine, Alessandra Ferri darà addio alla carriera.
Macerata è la sede di una delle più antiche università europee. I suoi alberghi, quindi, sono in gran misura tarati alle esigenze di professori pendolari. Su tutti spicca il Claudiani . Due ristoranti preziosi a pochi passi: “Da Rosa” e “L’osteria dei fiori”. A pochi chilometri (a Passo di Treia) “Il vecchio granaio”, agriturismo in villa con piscina ottocentesca e cucina di classe.
JESI E LA VISIONE DI ROMA
Ancora una volta, alla fine quasi della stagione dei Festival, la piccola ma dinamica Jesi, ora al centro di un circuito di cinque teatri marchigiani (con appendici negli Usa, Baltimora, e nei Balcani, Belgrado) propone un programma di rarità: Roma come vista da Pergolesi e Spontini – i due musicisti jesini a cui è dedicata la manifestazione, ormai al settimo anni. Dal 7 al 16 settembre, si ascolterà e vedrà il primo allestimento in tempi moderni di “Adriano in Siria” di Gian Battista Pergolesi e la monumentale “La Vestale” di Gaspare Spontini, che verrà presentata in versione integrale (ma per marionette- quelle dei Fratelli Colla).
A Jesi gli artisti alloggiano al “Mariani” (piccolo albergo in pieno centro). Altrimenti si va al “Federico Secondo” nel verde ed a pochi minuti a piedi dalla città.”Galeazzi” è il ristorante delle Marche-che-possono (cucina di classe, prezzi commensurati). Gli artisti si incrociano all’Hosteria San Floriano.
PERCHE’ ANCHE NEL 2007 AIX EN PROVENCE E’UN MUST
Due le ragioni per tornare a Aix anche nel 2007: a) viene inaugurato il primo luglio il Grand Théâtre de Provence , una struttura modernissima di 1200 posti, finanziata quasi interamente da enti locali e da privati; b) si svolge l’appuntamento annuale de Le Cercle des Econmistes, il pensatoio economico che più ha contribuito al programma di Nicolas Sarkozy (che potrebbe giungere all’improvviso, con il suo entourage).
Il Festival è stato esteso a quasi un intero mese, a ragione della crescente domanda che ha comportato, per alcuni abbonamenti, l’utilizzazione di “call options” per il loro acquisto pluriennale. Molti i piatti forti: la prosecuzione con “Die Walküre” di un allestimento del “Ring” (regia di Stéphane Brawnscheig, la direzione d’orchestra di Sir Simon Rattle e i Berliner Philarmoniker in buca) che viene replicato in primavera a Salisburgo; b) un nuovo ardito allestimento de “Le nozze di Figaro” di Wolfgang A. Mozart; c) la riprese di una messa in scena da sogno (di dieci anni fa) de “L’Orfeo” di Claudio Monteverdi; d) una nuova produzione di “Una casa da morti” di Leos Janaceck. Tutti spettacoli che l’autunno e l’inverno prossimo saranno in varie capitali europee della musica (Parigi, Vienna, Milano, Bruxelles)
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“Le Grand Hotel du Roi René” è da decenni il preferito da critici e intellettuali. Il ristorante “Le deux garçons”, in stile belle époque, evoca ancora la coppia fissa Jean Cocteau e Jean Marais – tra i fondatori del Festival.
LE SORPRESE DI WOLF TRAP
Il Wolf Trap Festival è quello seguito dalla “Washington-che-conta”. Dono di una miliardaria americana, Filene Shouse, che ha donato il terreno e vi ha costruito un bel teatro (in parte coperto ed in parte all’aperto), propone questa estate un programma molto vario da fine giugno a metà agosto. A 30 chilometri dalla Casa Bianca, accanto a scelte tradizionali (come il mozartiano “Flauto Magico”) ci sono due leccornie: “Volpone”, un’opera di John Musto dalla commedia di Ben Johnson che ha debuttato negli Usa nel 2006 ed è già contesa dai principali teatri europei, e “L’Etoile” di Emmanuel Chabrier, un’opera fantastica del romanticismo francese che sta tornando in repertorio.
Si alloggia ovviamente nella capitale americana. A Wolf Trap c’è un ristorante a poche decine di metri dal teatro, ma la “Washington-che-conta” preferisce arrivare verso le 18,30 (gli spettacoli iniziano alle 20 in punto) ed indugiare in eleganti pic-nic a base di champagne e foie gras. Quanto più si è casual tanto più si è considerati eleganti (anche se gli smoking non sfigurano, specialmente nelle sere in cui arriva, ma lo sanno solo pochi intimi, il Presidente degli Stati Uniti).
MONACO: IN UN MESE IL MEGLIO DI UN ANNO
In luglio, ogni anno, il Nationaltheater di Monaco ripropone quasi ogni sera una differente opera di quelle che hanno avuto maggior successo nella stagione precedente (che si estende da settembre a fine giugno) Vi aggiunge una prima mondiale: quest’anno “Alice in Wonderland” di Unsuk Chin, un compositore coreano la cui scrittura è orecchiabile. Il Festival (frequentatissimo dal mondo industriale della Baviera e dell’Austria) termina tradizionalmente con un gala in cui si mettono in scena “Die Meistersinger von Nürnberg” (“I maestri cantori di Norimberga) di Richard Wagner. Per il gala, occorre prenotare con molto anticipo e tener conto che i prezzi sono elevati. Hotel per tutti i portafogli. Per una cena nella città vecchia, vale una visita alla Gasthaus Glockenbach
IN UN CASTELLO DELL’ESTREMO NORD
Dal 29 giugno al 29 luglio, a Savonlinna, in Filandia, si svolge uno dei Festival più frequentati non solo da scandinavi ma anche da chi conta nelle Repubbliche Baltiche e in Russia. L’ambiente è affascinante: un castello medioevale in uno scenario lacustre. Questa estate, oltre a opere tradizionali (come “Carmen” di Georges Bizet, “Macbeth” di Giuseppe Verdi, “Lucia di Lamermoor” di Gaetano Donizzetti), il Bolshoi di Mosca vi porta il proprio allestimento di “Boris Gudonov” di Modest Musorgski e si mette in scena la “prima” mondiale di “Daddy’s Girl” del compositore finlandese Olli Kortekangas (si promette musica orecchiabile). Limitata la scelta di alberghi. Il più ambito è il Keurusselka . Divertente e gustoso il Liekkilohiravintola Flame Salmon Restaurant, specializzato in salmone.
UN CONCENTRATO DI WAGNER (SENZA SETTE ANNI DI ATTESA)
Il Festival del Tirolo, a Erl (ai confini tra Austria e Baviera), è la meta dei wagneriani che non se la sentono di aspettare sette anni in lista di attesa per avere un biglietto per il Festival di Bayreuth .Dal 5 al 28 luglio, con cantanti giovani ma di classe ed un’orchestra di 150 elementi (un terzo sono italiani), Gustav Kuhn (maestro concertatore e regista) mette in scena tre edizioni integrali del “Ring”, tre di “Parsifal” e tre di “Tristano ed Isotta”. I prezzi dei biglietti sono competitivi. Imbattibili quelli delle tante locande a conduzione familiare sparse tra Erl e villaggi nei dintorni. Occasioni di incontri: non ne mancano perché a 80 chilometri da Monaco di Baviera , in una direzione, e da Salisburgo , dall’altra, la minuscola Erl è diventata un crocevia di melomani. E non solo.
GIACOMO, L’ULTIMO COMPOSITORE
L’anno pucciniano (il 22 dicembre 2008 ricorrono i 150 anni dalla nascita del compositore) non sarà un’altra sbornia. Come è stato, nel 2005, l’anno mozartiano, quando c’ stata una vera e propria invasione di lavori di Wolfgang Amadeus e l’intero Festival estivo di Salisburgo è stato dedicato alle sue 22 opere per il teatro in musica. La ragione principale è che mentre delle 22 opere di Mozart solo poco più di una mezza dozzina vengono rappresentate correntemente (e soltanto una frazione del resto della vastissima produzione di Mozart viene normalmente eseguito in sale da concerto), sei dei dieci lavori di Puccini per il teatro sono o di repertorio o comunque nei cartelloni abituali di enti e fondazioni che, come quelli italiani, seguono, sotto il profilo organizzativo, il metodo della “stagione”. Altri due (“Il trittico” e “La rondine”) compaiono con una certa frequenza sui palcoscenici, pur se non con l’assiduità di “Manon Lescaut, “Bohème”, “Tosca” , “Madama Butterfly”, “Fanciulla del West” e “Turandot”. Di rarissima, rappresentazione scenica soltanto le due opere giovanili: “Le Villi” e “Edgard”. In un’epoca in cui il cinematografo stava soppiantando l’opera lirica come principale spettacolo di massa, Puccini fu l’ultimo dei maggiori compositori italiani non solo ad innovare nel modo di fare teatro in musica ma anche ad avere successo in tutto il mondo, tanto da essere un vero autore internazionale. Alcuni dei suoi capolavori vennero commissionati non da teatri non italiani ma stranieri, come il Metropolitan di New York, la Staatsoper di Vienna e l’Opéra di Montecarlo. Oggi i compositori americani di successo – negli Usa è in corso un revival dell’opera – si riallacciano direttamente a Puccini tanto nella scrittura orchestrale e vocale quanto nella drammaturgia.
Sulla base di quanto già comunicato dei vari cartelloni, l’unica lacuna di rilievo dell’anno pucciniano, in Italia, è la messa in scena della prima edizione di “Madama Butterffly” (quella che crollò alla Scala nel 1904 – di solito viene rappresentata la quarta edizione , riveduta e corretta per l’Opèra di Parigi nel 1906) con un Pinkerton apertamente offensivo nei confronti dei giapponesi, una Cio-Cio-San, piccola ma generosa prostituta che rifiuta il denaro offertole dall’americano, nonché la suddivisione dell’opera in due soli atti. Un’edizione critica, a cura di Julian Smith, è stata allestita (nel 2000) dalla Welsh National Opera e da allora appare frequentemente nei teatri stranieri, ma solo di tanto in tanto in quelli italiani.
Più importante di questa o quella integrazione alle manifestazioni per il 150nario, è una riflessione sul periodo in cui operò Puccini (dall’ultimo scorcio del XIX secolo ai primi 25 anni del XX) e sulla eredità lasciata alle generazioni future.
Sono due temi differenti ma, sotto molti punti di vista, convergenti. Per il teatro d’opera italiano i decenni di attività di Puccini coincisero con la fine della fase in cui in Italia (esperienza unica nel panorama europeo) trionfò la lirica commerciale. La “musa bizzarra e altera” (come definita accuratamente da Herbert Lindenberger) non era una riserva dei mecenati o dei palchettisti-sostenitori provenienti della aristocrazia ed alta borghesia, ma uno degli spettacoli popolari per eccellenza; in tutte le città italiane si costruivano o si ammodernavano teatri che si sostenevano quasi interamente con i proventi da biglietteria; nelle città maggiori più teatri operavano in concorrenza, anche sotto il profilo dei prezzi e della qualità (a Milano ad esempio le “stagioni” della Scala contenevano un numero limitato di titoli ma le rappresentazioni erano di alto livelli; al Dal Verme ed al Manzoni si offrivano, a prezzi contenuti, cartelloni più estesi con titoli di solito molto conosciuti, inframmezzati, di tanto in tanto, da novità di giovani). L’iniziativa imprenditoriale dei grandi impresari (che aveva caratterizzato la prima metà dell’Ottocento) era stata sostituita da quella dei grandi editori (quali Ricordi e Sonzogno) e dalle loro rivalità; mentre all’inizio del XIX secolo gli autori trattavano direttamente con gli impresari (e dovevano spesso seguirne i capricci in tema di scelte di libretti e di interpreti) , alla fine del secolo gli editori fungevano da intermediari tra compositori e impresari;si affermavano le normative nazionali e le convenzioni internazionali sui copyright. Vigeva un sistema di mercato - ma di mercato autoregolato dalla concorrenza-competizione-cooperazione (pure collusione) tra editori. In tale mercato autoregolato stava entrando la politica.
Il punto di svolta può essere considerato, convenzionalmente, il 1921 quando la proprietà del più noto teatro italiano, La Scala, a causa di una gravissima crisi finanziaria, passò dai privati al Comune che la costituisce in un Ente Autonomo comunale, sotto il controllo dello Stato che ne avrebbe assicurato il finanziamento annuale. Gli altri teatri lirici, maggiori e minori, seguirono la stessa sorte in seguito sia all’avanzata del cinema sia al “morbo di Baumol” (dal nome dell’economista americano che lo ha teorizzato) secondo cui arti sceniche a tecnologia fissa perdono gradualmente ma inesorabilmente competitività in quanto non possono fruire della riduzione di costi conseguente il progresso tecnico. In questa fase di transizione visse ed operò Puccini.
Non partecipò a politica attiva (anche se nel 1919, per sfuggire alla accuse di filogermanesimo, aveva musicato un “Inno a Roma” su testo di Fausto Salvatori- lavoro che lui stesso definì “una bella porcheria”). Fu Senatore del Regno , su proposta di Mussolini, per poco più di due mesi – dal 18 settembre 1924 alla morte, il 29 novembre 1924. Il suo unico incontro con Mussolini (nel 1923) sollecitato per esprimere “alcune sue idee sul teatro lirico nazionale da erigersi a Roma”, fu breve e brusco – troncato da un netto “non ci sono denari” da parte del Capo del Governo. Al pari di Igor Stravinskij, Puccini era un impolitico ma, in tempi turbolenti (come quelli attorno alla Prima Guerra Mondiale), aspirava ad una politica che fornisse un quadro di pace e serenità in cui si potesse comporre. Dopo Puccini , la politica diventò centrale nella vita musicale italiana.
Quale il lascito? Da un lato, come scrive uno dei maggiori studiosi di Puccini, Julian Budden, “con “Turandot” la tradizione dell’opera italiana, che durava più di tre secoli, giunse alla sua conclusione”. Da un altro, però, come si è accennato, Puccini fu il solo compositore italiano a cavallo tra il XIX e XX secolo ad essere realmente internazionale, a superare il melodramma ed altre forme d’opera italiane innescando in esse elementi tanto francesi quanto tedeschi ed anche asiatici. La sua eredità più che in Italia fu nel resto del mondo : un nuovo modo di concepire il teatro in musica venne compreso soprattutto da Benjamin Britten e dai compositori americani della metà del Novecento – quali Carlisle Floyd, Thea Musgrave , Robert Ward, Jack Beeson, Kirche Meechem- e da quelli che stanno mietendo successi in questo primo scorcio di XXI secolo – quali André Previn, Gerald Barry, Nicholas Maw . John Adams, Thomas Pasateri, Dominick Argento. Ed ovviamente, il loro “zio” putativo Giancarlo Menotti.
LA “ENTARTETE MUSIK” [P1] ITALIANA
“Entartete Musik” ovvero “musica degenerata” è il nome che la Germania nazista diede a gran parte dell’innovazione musicale che tra il 1920 ed il 1942 si sviluppò al di là delle Alpi e del Reno. Una mostra sulla “Entertete Musik” venne addirittura organizzata a Düsserdolf nel maggio 1938 quando quasi tutti i musicisti “degenerati” erano riparati all’estero e qualcuno di loro (ad esempio, Walter Baunfels) inviato al confino Si possono individuare due filoni distinti: uno principalmente austriaco che ebbe sbocco nella dodecafonia (Schömberg, Berg, Zemliksky) ed uno di stampo più prettamente tedesco (Korngold, Schreker, Krenek, Weill) in cui l’esperienza post-romantica si fondeva con l’espressionismo, la musica popolare ed il jazz . La “Entarteke Musik” non è mai stata considerata “degenerata” in Italia. In piena guerra, nel novembre 1942, al Teatro dell’Opera di Roma è stato rappresentato “Wozzek” di Alban Berg (opera vietatissima in Germania) in versione ritmica italiana (secondo l’uso dell’epoca), con Tito Gobbi nella veste di protagonista e Tullio Serafin alla guida dell’orchestra . Inoltre, oltre a Berg, un altro “degenerato”, Krenek, era tra gli ospiti abituale del Festival internazionale di Musica Contemporanea di Venezia, lanciato per decisione specifica di Palazzo Venezia come concorrente del Festival di Salisburgo.
La “Entartete Musik” è tornata nei teatri di tutto il mondo – e la Decca le ha dedicato una collana di dischi (difficilmente trovabile nei negozi italiani). In Italia, non solamente le due principali opere di Berg sono sempre state presenti nei cartelloni ma da un paio di lustri si ascoltano e si vedono anche drammi in musica di Korngold, Krenek, Schreker, Schömberg, e Zemlisky, con successo di pubblico, oltre che di critica. Il solo che manca sino ad ora all’appello è “Die Geizeichneten” (“I bollati”) di Schreker non tanto per l’argomento scabrosamente esplicito quanto per il complesso impegno produttivo.
C’è però anche una “Entartete Musik” italiana che nasce proprio nell’ultima fase della vita e dell’attività di Puccini; per parafrasare il titolo del lavoro di Schreker, è rimasta “bollata” per decenni dall’accusa di essere “musica fascista”. Benito Mussolini, violinista dilettante (di pessima qualità), aveva un notevole interesse nella musica, e nella politica musicale, ed era appassionato di lirica. Considerava l’opera come espressione di italianità con un forte appello popolare. In effetti, nel ventennio, nonostante l’avanzata del cinema come forma di spettacolo e la crisi finanziaria dei teatri d’opera, la lirica era ancora di grande richiamo. Nascevano gli enti lirico- sinfonici ed i teatri di tradizione , sovvenzionati in varia misura dallo Stato; tutte le città, anche le più piccole, avevano stagioni d’opera; la mano pubblica sosteneva artisticamente i palcoscenici di provincia con iniziative itineranti , quali il “carro di Tespi”. Il Governo (Mussolini trattava in prima persona molte di queste questioni) doveva barcamenarsi tra due scuole contrapposte: i tradizionalisti (Mascagni, Cilea, Giordano, Montemezzi) e gli innovatori (Casella, Malipiero, Pizzetti, Dallapiccola, Russolo, Pratella). Con rare eccezioni (quali le opere più popolari di Mascagni, Cilea e Giordano), tutti i loro titoli sono spariti dai nostri cartelloni, mentre alcuni (si pensi a “L’amore dei tre Re” di Italo Montemezzi ed “I capricci di Callot” di Gian Francesco Malipiero) sono nella programmazione ordinaria dei maggiori teatri americani, tedeschi e britannici. E’ stata accusata di fascismo pure la musica di Dallapiccola nonostante il compositore sia stato uno dei rari professori universitari a dare le dimissioni dalla cattedra al varo delle leggi razziali.
Sarebbe uno sbaglio sostenere che si tratta di lavori che meritano di essere indiscriminatamente riproposti: ad esempio, il “Nerone” di Pietro Mascagni (al cui libretto pare abbia collaborato Mussolini in persona) è un drammone polveroso, magniloquente e di pessima scrittura orchestrale e vocale. Altri (come “La Nave” di Italo Montemezzi o “L’Orfeide” di Gian Francesco Malipiero) richiedono uno sforzo produttivo che pochi teatri sarebbero in grado di sostenere.
Proprio partendo da Gian Francesco Malipiero (che era la vera e propria antitesi di Puccini) si potrebbe, nell’anno pucciniano, fare una scommessa e riproporre un autore italiano di spicco della “Entartete Musik”. Penso a due opere: la commedia “I capricci di Callot” (importandone, se si vuole, un allestimento di quelli correnti in Germania e Svizzera) e il dramma “La favola del figlio cambiato”. La messa in scena della seconda avrebbe pure un contenuto ironico.
L’idea di una collaborazione tra Luigi Pirandello (autore del libretto) e Gian Francesco Malipiero (autore della musica) sarebbe stata proprio di Mussolini che vedeva in essa una grande sintesi di italianità (il maggior scrittore ed il maggior musicista dell’epoca insieme) per un’opera che avrebbe dovuto viaggiare in tutto il mondo. Il Capo del Governo volle presenziare alla “prima”, a Roma il 24 marzo 1934. Dopo il primo atto, diventò furioso e stimolò una vera e propria ribellione del pubblico. Le cronache dicono che passeggiava nervoso nel Palco Reale (disturbando l’esecuzione) sbraitando contro la commissione di censura ministeriale: “Una scena in una casa di tolleranza? E la moralità? E la famiglia? Me presente!!!”. “Entartete”, forse. Purché puritana.
BOX 1
LE CELEBRAZIONI IN TERRA PUCCINIANA
Lucca e Torre del Lago saranno l’epicentro delle celebrazioni , alla cui preparazione lavorano da anni il Comitato Nazionale per le Celebrazioni Pucciniane, il Centro Studi Giacomo Puccini e la Fondazione Festival Pucciniano. Quattro gli eventi più significativi: a) l’inaugurazione del nuovo Grande Teatro a Torre del Lago (una struttura fissa ad anfiteatro all’aperto per 3200 posti con, nel suo ambito, un auditorium al chiuso per circa 500 spettatori); b) la rappresentazione, nel corso dell’anno, di tutte le dieci opere di Puccini tra il Teatro del Giglio di Lucca ed il nuovo Grande Teatro, nonché di gran parte della musica sacra, strumentale e per voce e tastiera; c) un convegno internazionale di studi che inizierà a Lucca ma proseguirà a Milano ed a New York; d) un concerto al Teatro del Giglio il 22 dicembre, la data della nascita che, grazie alle tecnologie della comunicazione e dell’informazione, verrà visto ed ascoltato anche da milioni di spettatori in tutto il mondo.
Interessanti alcune caratteristiche a carattere economico e finanziario: a) la costruzione del nuovo Grande Teatro (un costo di 17 milioni di euro) è finanziata quasi interamente da enti locali (Regione, Provincia, Comune) e da sponsor (Enel, Poste, Fondazione Monte dei Paschi di Siena e molti altri); b) la biglietteria copre già il 43% dei costi di gestione del Festival Pucciniano di Torre del Lago (luglio- agosto di ogni anno); c) il programma musicale sarà affiancato da una serie di mostre (ad esempio Puccini e la sua terra; Puccini ed il suo tempo) allo scopo di effettuare anche un’operazione di “marketing territoriale”. Dato che le opere di Puccini vengono rappresentate, con successo, in tutti i continenti, gli enti locali, il Centro Studi e la Fondazione Festival intendono cogliere l’occasione del 150nario per incoraggiare i pucciniani ed il turismo culturale in generale a visitare i luoghi dove il compositore è nato ed è cresciuto ed ha passato diversi anni della sua vita adulta.
BOX 2
Non sono stati ancora annunciati i programmi dei maggiori teatri. Ci sarà, però, molta attenzione alla ricorrenza. Il Teatro alla Scala di Milano, ad esempio, mette in cantiere un nuovo allestimento di “Bohème” (dopo circa mezzo secolo in cui è stato rappresentato quello del 1963 ideato da Franco Zeffirelli) ed una edizione del “Trittico” diretta da Riccardo Chailly (di difficile esecuzione perché richiede oltre 30 solisti – nel 2007 in Italia sette teatri hanno unito le loro forze per allestirne una versione trasportabile su vari palcoscenici). Il Teatro dell’Opera di Roma inaugurerà la stagione con “Tosca” (che ebbe proprio lì la “prima” mondiale il 19 gennaio 1900 – data considerata, convenzionalmente, l’inizio del Novecento musicale italiano) e in marzo presenterà una nuova produzione di “Fanciulla del West” con Danieli Dessì e Fabio Armiliato e la bacchetta di Gianluigi Gelmetti. A Torre del Lago, a Lucca, a Nizza, a Trieste (è probabile che si aggiungano altri teatri) verrà presentata la terza, ed ultima, versione de “La Rondine” con un finale più drammatico delle prime due (di norma si mette in scena la seconda edizione); dato che cinque pagine di tale finale non sono mai state orchestrate da Puccini, si farà ricorso all’orchestrazione di Lorenzo Ferrero (utilizzando in effetti un’interpolazione ascoltata in Italia unicamente nel 1994 a Torino ma ormai entrata nella prassi di molti teatri stranieri, principalmente di quelli britannici). Il Teatro Regio di Torino, inoltre, proporrà un raro nuovo allestimento di “Edgard” (anche a ragione del successo della recente registrazione della Deutsche Grammophone con Placido Domingo nella veste del protagonista, con Alberto Veronesi alla guida dell’Orchestra e del Coro dell’Accademia di Santa Cecilia). “Manon Lescaut” si vedrà, in differenti edizioni, a Genova ed allo Sferisterio di Macerata, “Turandot” al San Carlo di Napoli ed alle Terme di Caracalla di Roma.
[P1]AS
Sulla base di quanto già comunicato dei vari cartelloni, l’unica lacuna di rilievo dell’anno pucciniano, in Italia, è la messa in scena della prima edizione di “Madama Butterffly” (quella che crollò alla Scala nel 1904 – di solito viene rappresentata la quarta edizione , riveduta e corretta per l’Opèra di Parigi nel 1906) con un Pinkerton apertamente offensivo nei confronti dei giapponesi, una Cio-Cio-San, piccola ma generosa prostituta che rifiuta il denaro offertole dall’americano, nonché la suddivisione dell’opera in due soli atti. Un’edizione critica, a cura di Julian Smith, è stata allestita (nel 2000) dalla Welsh National Opera e da allora appare frequentemente nei teatri stranieri, ma solo di tanto in tanto in quelli italiani.
Più importante di questa o quella integrazione alle manifestazioni per il 150nario, è una riflessione sul periodo in cui operò Puccini (dall’ultimo scorcio del XIX secolo ai primi 25 anni del XX) e sulla eredità lasciata alle generazioni future.
Sono due temi differenti ma, sotto molti punti di vista, convergenti. Per il teatro d’opera italiano i decenni di attività di Puccini coincisero con la fine della fase in cui in Italia (esperienza unica nel panorama europeo) trionfò la lirica commerciale. La “musa bizzarra e altera” (come definita accuratamente da Herbert Lindenberger) non era una riserva dei mecenati o dei palchettisti-sostenitori provenienti della aristocrazia ed alta borghesia, ma uno degli spettacoli popolari per eccellenza; in tutte le città italiane si costruivano o si ammodernavano teatri che si sostenevano quasi interamente con i proventi da biglietteria; nelle città maggiori più teatri operavano in concorrenza, anche sotto il profilo dei prezzi e della qualità (a Milano ad esempio le “stagioni” della Scala contenevano un numero limitato di titoli ma le rappresentazioni erano di alto livelli; al Dal Verme ed al Manzoni si offrivano, a prezzi contenuti, cartelloni più estesi con titoli di solito molto conosciuti, inframmezzati, di tanto in tanto, da novità di giovani). L’iniziativa imprenditoriale dei grandi impresari (che aveva caratterizzato la prima metà dell’Ottocento) era stata sostituita da quella dei grandi editori (quali Ricordi e Sonzogno) e dalle loro rivalità; mentre all’inizio del XIX secolo gli autori trattavano direttamente con gli impresari (e dovevano spesso seguirne i capricci in tema di scelte di libretti e di interpreti) , alla fine del secolo gli editori fungevano da intermediari tra compositori e impresari;si affermavano le normative nazionali e le convenzioni internazionali sui copyright. Vigeva un sistema di mercato - ma di mercato autoregolato dalla concorrenza-competizione-cooperazione (pure collusione) tra editori. In tale mercato autoregolato stava entrando la politica.
Il punto di svolta può essere considerato, convenzionalmente, il 1921 quando la proprietà del più noto teatro italiano, La Scala, a causa di una gravissima crisi finanziaria, passò dai privati al Comune che la costituisce in un Ente Autonomo comunale, sotto il controllo dello Stato che ne avrebbe assicurato il finanziamento annuale. Gli altri teatri lirici, maggiori e minori, seguirono la stessa sorte in seguito sia all’avanzata del cinema sia al “morbo di Baumol” (dal nome dell’economista americano che lo ha teorizzato) secondo cui arti sceniche a tecnologia fissa perdono gradualmente ma inesorabilmente competitività in quanto non possono fruire della riduzione di costi conseguente il progresso tecnico. In questa fase di transizione visse ed operò Puccini.
Non partecipò a politica attiva (anche se nel 1919, per sfuggire alla accuse di filogermanesimo, aveva musicato un “Inno a Roma” su testo di Fausto Salvatori- lavoro che lui stesso definì “una bella porcheria”). Fu Senatore del Regno , su proposta di Mussolini, per poco più di due mesi – dal 18 settembre 1924 alla morte, il 29 novembre 1924. Il suo unico incontro con Mussolini (nel 1923) sollecitato per esprimere “alcune sue idee sul teatro lirico nazionale da erigersi a Roma”, fu breve e brusco – troncato da un netto “non ci sono denari” da parte del Capo del Governo. Al pari di Igor Stravinskij, Puccini era un impolitico ma, in tempi turbolenti (come quelli attorno alla Prima Guerra Mondiale), aspirava ad una politica che fornisse un quadro di pace e serenità in cui si potesse comporre. Dopo Puccini , la politica diventò centrale nella vita musicale italiana.
Quale il lascito? Da un lato, come scrive uno dei maggiori studiosi di Puccini, Julian Budden, “con “Turandot” la tradizione dell’opera italiana, che durava più di tre secoli, giunse alla sua conclusione”. Da un altro, però, come si è accennato, Puccini fu il solo compositore italiano a cavallo tra il XIX e XX secolo ad essere realmente internazionale, a superare il melodramma ed altre forme d’opera italiane innescando in esse elementi tanto francesi quanto tedeschi ed anche asiatici. La sua eredità più che in Italia fu nel resto del mondo : un nuovo modo di concepire il teatro in musica venne compreso soprattutto da Benjamin Britten e dai compositori americani della metà del Novecento – quali Carlisle Floyd, Thea Musgrave , Robert Ward, Jack Beeson, Kirche Meechem- e da quelli che stanno mietendo successi in questo primo scorcio di XXI secolo – quali André Previn, Gerald Barry, Nicholas Maw . John Adams, Thomas Pasateri, Dominick Argento. Ed ovviamente, il loro “zio” putativo Giancarlo Menotti.
LA “ENTARTETE MUSIK” [P1] ITALIANA
“Entartete Musik” ovvero “musica degenerata” è il nome che la Germania nazista diede a gran parte dell’innovazione musicale che tra il 1920 ed il 1942 si sviluppò al di là delle Alpi e del Reno. Una mostra sulla “Entertete Musik” venne addirittura organizzata a Düsserdolf nel maggio 1938 quando quasi tutti i musicisti “degenerati” erano riparati all’estero e qualcuno di loro (ad esempio, Walter Baunfels) inviato al confino Si possono individuare due filoni distinti: uno principalmente austriaco che ebbe sbocco nella dodecafonia (Schömberg, Berg, Zemliksky) ed uno di stampo più prettamente tedesco (Korngold, Schreker, Krenek, Weill) in cui l’esperienza post-romantica si fondeva con l’espressionismo, la musica popolare ed il jazz . La “Entarteke Musik” non è mai stata considerata “degenerata” in Italia. In piena guerra, nel novembre 1942, al Teatro dell’Opera di Roma è stato rappresentato “Wozzek” di Alban Berg (opera vietatissima in Germania) in versione ritmica italiana (secondo l’uso dell’epoca), con Tito Gobbi nella veste di protagonista e Tullio Serafin alla guida dell’orchestra . Inoltre, oltre a Berg, un altro “degenerato”, Krenek, era tra gli ospiti abituale del Festival internazionale di Musica Contemporanea di Venezia, lanciato per decisione specifica di Palazzo Venezia come concorrente del Festival di Salisburgo.
La “Entartete Musik” è tornata nei teatri di tutto il mondo – e la Decca le ha dedicato una collana di dischi (difficilmente trovabile nei negozi italiani). In Italia, non solamente le due principali opere di Berg sono sempre state presenti nei cartelloni ma da un paio di lustri si ascoltano e si vedono anche drammi in musica di Korngold, Krenek, Schreker, Schömberg, e Zemlisky, con successo di pubblico, oltre che di critica. Il solo che manca sino ad ora all’appello è “Die Geizeichneten” (“I bollati”) di Schreker non tanto per l’argomento scabrosamente esplicito quanto per il complesso impegno produttivo.
C’è però anche una “Entartete Musik” italiana che nasce proprio nell’ultima fase della vita e dell’attività di Puccini; per parafrasare il titolo del lavoro di Schreker, è rimasta “bollata” per decenni dall’accusa di essere “musica fascista”. Benito Mussolini, violinista dilettante (di pessima qualità), aveva un notevole interesse nella musica, e nella politica musicale, ed era appassionato di lirica. Considerava l’opera come espressione di italianità con un forte appello popolare. In effetti, nel ventennio, nonostante l’avanzata del cinema come forma di spettacolo e la crisi finanziaria dei teatri d’opera, la lirica era ancora di grande richiamo. Nascevano gli enti lirico- sinfonici ed i teatri di tradizione , sovvenzionati in varia misura dallo Stato; tutte le città, anche le più piccole, avevano stagioni d’opera; la mano pubblica sosteneva artisticamente i palcoscenici di provincia con iniziative itineranti , quali il “carro di Tespi”. Il Governo (Mussolini trattava in prima persona molte di queste questioni) doveva barcamenarsi tra due scuole contrapposte: i tradizionalisti (Mascagni, Cilea, Giordano, Montemezzi) e gli innovatori (Casella, Malipiero, Pizzetti, Dallapiccola, Russolo, Pratella). Con rare eccezioni (quali le opere più popolari di Mascagni, Cilea e Giordano), tutti i loro titoli sono spariti dai nostri cartelloni, mentre alcuni (si pensi a “L’amore dei tre Re” di Italo Montemezzi ed “I capricci di Callot” di Gian Francesco Malipiero) sono nella programmazione ordinaria dei maggiori teatri americani, tedeschi e britannici. E’ stata accusata di fascismo pure la musica di Dallapiccola nonostante il compositore sia stato uno dei rari professori universitari a dare le dimissioni dalla cattedra al varo delle leggi razziali.
Sarebbe uno sbaglio sostenere che si tratta di lavori che meritano di essere indiscriminatamente riproposti: ad esempio, il “Nerone” di Pietro Mascagni (al cui libretto pare abbia collaborato Mussolini in persona) è un drammone polveroso, magniloquente e di pessima scrittura orchestrale e vocale. Altri (come “La Nave” di Italo Montemezzi o “L’Orfeide” di Gian Francesco Malipiero) richiedono uno sforzo produttivo che pochi teatri sarebbero in grado di sostenere.
Proprio partendo da Gian Francesco Malipiero (che era la vera e propria antitesi di Puccini) si potrebbe, nell’anno pucciniano, fare una scommessa e riproporre un autore italiano di spicco della “Entartete Musik”. Penso a due opere: la commedia “I capricci di Callot” (importandone, se si vuole, un allestimento di quelli correnti in Germania e Svizzera) e il dramma “La favola del figlio cambiato”. La messa in scena della seconda avrebbe pure un contenuto ironico.
L’idea di una collaborazione tra Luigi Pirandello (autore del libretto) e Gian Francesco Malipiero (autore della musica) sarebbe stata proprio di Mussolini che vedeva in essa una grande sintesi di italianità (il maggior scrittore ed il maggior musicista dell’epoca insieme) per un’opera che avrebbe dovuto viaggiare in tutto il mondo. Il Capo del Governo volle presenziare alla “prima”, a Roma il 24 marzo 1934. Dopo il primo atto, diventò furioso e stimolò una vera e propria ribellione del pubblico. Le cronache dicono che passeggiava nervoso nel Palco Reale (disturbando l’esecuzione) sbraitando contro la commissione di censura ministeriale: “Una scena in una casa di tolleranza? E la moralità? E la famiglia? Me presente!!!”. “Entartete”, forse. Purché puritana.
BOX 1
LE CELEBRAZIONI IN TERRA PUCCINIANA
Lucca e Torre del Lago saranno l’epicentro delle celebrazioni , alla cui preparazione lavorano da anni il Comitato Nazionale per le Celebrazioni Pucciniane, il Centro Studi Giacomo Puccini e la Fondazione Festival Pucciniano. Quattro gli eventi più significativi: a) l’inaugurazione del nuovo Grande Teatro a Torre del Lago (una struttura fissa ad anfiteatro all’aperto per 3200 posti con, nel suo ambito, un auditorium al chiuso per circa 500 spettatori); b) la rappresentazione, nel corso dell’anno, di tutte le dieci opere di Puccini tra il Teatro del Giglio di Lucca ed il nuovo Grande Teatro, nonché di gran parte della musica sacra, strumentale e per voce e tastiera; c) un convegno internazionale di studi che inizierà a Lucca ma proseguirà a Milano ed a New York; d) un concerto al Teatro del Giglio il 22 dicembre, la data della nascita che, grazie alle tecnologie della comunicazione e dell’informazione, verrà visto ed ascoltato anche da milioni di spettatori in tutto il mondo.
Interessanti alcune caratteristiche a carattere economico e finanziario: a) la costruzione del nuovo Grande Teatro (un costo di 17 milioni di euro) è finanziata quasi interamente da enti locali (Regione, Provincia, Comune) e da sponsor (Enel, Poste, Fondazione Monte dei Paschi di Siena e molti altri); b) la biglietteria copre già il 43% dei costi di gestione del Festival Pucciniano di Torre del Lago (luglio- agosto di ogni anno); c) il programma musicale sarà affiancato da una serie di mostre (ad esempio Puccini e la sua terra; Puccini ed il suo tempo) allo scopo di effettuare anche un’operazione di “marketing territoriale”. Dato che le opere di Puccini vengono rappresentate, con successo, in tutti i continenti, gli enti locali, il Centro Studi e la Fondazione Festival intendono cogliere l’occasione del 150nario per incoraggiare i pucciniani ed il turismo culturale in generale a visitare i luoghi dove il compositore è nato ed è cresciuto ed ha passato diversi anni della sua vita adulta.
BOX 2
Non sono stati ancora annunciati i programmi dei maggiori teatri. Ci sarà, però, molta attenzione alla ricorrenza. Il Teatro alla Scala di Milano, ad esempio, mette in cantiere un nuovo allestimento di “Bohème” (dopo circa mezzo secolo in cui è stato rappresentato quello del 1963 ideato da Franco Zeffirelli) ed una edizione del “Trittico” diretta da Riccardo Chailly (di difficile esecuzione perché richiede oltre 30 solisti – nel 2007 in Italia sette teatri hanno unito le loro forze per allestirne una versione trasportabile su vari palcoscenici). Il Teatro dell’Opera di Roma inaugurerà la stagione con “Tosca” (che ebbe proprio lì la “prima” mondiale il 19 gennaio 1900 – data considerata, convenzionalmente, l’inizio del Novecento musicale italiano) e in marzo presenterà una nuova produzione di “Fanciulla del West” con Danieli Dessì e Fabio Armiliato e la bacchetta di Gianluigi Gelmetti. A Torre del Lago, a Lucca, a Nizza, a Trieste (è probabile che si aggiungano altri teatri) verrà presentata la terza, ed ultima, versione de “La Rondine” con un finale più drammatico delle prime due (di norma si mette in scena la seconda edizione); dato che cinque pagine di tale finale non sono mai state orchestrate da Puccini, si farà ricorso all’orchestrazione di Lorenzo Ferrero (utilizzando in effetti un’interpolazione ascoltata in Italia unicamente nel 1994 a Torino ma ormai entrata nella prassi di molti teatri stranieri, principalmente di quelli britannici). Il Teatro Regio di Torino, inoltre, proporrà un raro nuovo allestimento di “Edgard” (anche a ragione del successo della recente registrazione della Deutsche Grammophone con Placido Domingo nella veste del protagonista, con Alberto Veronesi alla guida dell’Orchestra e del Coro dell’Accademia di Santa Cecilia). “Manon Lescaut” si vedrà, in differenti edizioni, a Genova ed allo Sferisterio di Macerata, “Turandot” al San Carlo di Napoli ed alle Terme di Caracalla di Roma.
[P1]AS
PENSIONI PADOA SENTA SOLO STESSO ’
Siamo entrati nelle settimane calde della preparazione del Documento di Programmazione Economica e Finanziaria (Dpef) per i prossimi tre anni. Il Presidente del Consiglio, Romano Prodi, si è impegnato a presentarlo il 28 giugno in modo che il dibattito parlamentare inizi il 3 luglio. Venerdì 15 giugno il Governo ne presenterà i lineamenti alle parti sociali (che in effetti si aspettano almeno un semi-lavorato che non tratti soltanto di massimi sistemi). Come già documentato da Il Tempo del 28 maggio, i contenuti del documento (e della manovra settembrina) dipendono quasi interamente da cosa verrà deciso in materia di previdenza. A bocce ferme (e mantenendo immutata la riforma Maroni del 2004, con relativo “scalone” per i pensionamenti d’anzianità) sarebbero sufficienti 5-10 miliardi di euro di riduzione della spesa e aumenti delle entrate per restare nell’alveo concordato con l’Ue. Se venissero accolte le richieste della sinistra radicale, il conto arriverebbe a 30-40 miliardi , una stangata analoga a quella dell’anno scorso e tale da ammazzare i cavalli (le imprese) che tirano la carretta dell’economia italiana. Respingendo quanto vuole la sinistra radicale, ma abrogando lo “scalone” (ormai assurto a vessillo dell’orgoglio sindacale) ci vorrebbero dai 14 ai 19 miliardi – ancora una volta una cura molto pesante.
Che farà Tomaso Padoa-Schioppa (TPS per amici vicini e lontani)? E’ appena uscito piuttosto malconcio da un dibattito molto speciale al Senato che non ha giovato alla sua immagine (sulla stessa stampa estera, specialmente quella parigina a cui tiene tanto). Ha compreso la lezione: si è tenuto alla larga dalla polemica sulla previdenza con Château de la Muette, sede dell’Ocse nel quartiere più elegante della Ville Lumière. Non ha aggiunto la propria voce a quella di dirigenti ed esperti del Ministero del Lavoro che esprimevano “dissenso tecnico” nei confronti del metodo con il quale nella pubblicazione Pensions at Glance (“Uno sguardo alle pensioni”) vengono presentati i problemi dei sistemi previdenziali dei 29 Paesi Ocse – e la brutta figura che vi fa l’Italia (rispetto agli altri). Il metodo è estremamente semplificato – come è necessario per costruire tavole sinottiche di Paesi molto differenti (in termini di demografia, mercato del lavoro, previdenza). Il messaggio è, però, chiaro e forte: non solo si devono respingere tentativi di annacquare lo “scalone” ma se non si fa una rapida correzione, o la spesa previdenziale sbancherà i conti dello Stato o i nostri figli resteranno senza pensioni.
E’ noto, però, che Romano Prodi vuole fare da supermediatore e pur di non subire uno sfratto dal Palazzo darebbe un ritocco alla riforma Maroni per accontentare sindacati e sinistra radicale.
TPS – La preghiamo- eviti un’altra magra figura. Con il background francofilo si ricordi di quanto è successo a Giovanna D’Arco per dare troppo ascolto alle voci. Legga, invece, il libro appena pubblicato, presso il suo stesso editore (Il Mulino), dal Ministro dell’Interno Giuliano Amato a quattro mani con l’economista Mauro Maré dell’Università della Tuscia:Il gioco delle pensioni . Rien-ne-va-plus? . Il saggio sostiene tesi analoghe a quelle dell’Ocse (nonché del Fondo monetario, della Commissione europea e dei principali centri studi privati internazionali). Anche Lei, TPS, quando da Francoforte impartiva lezioni dalle colonne del Corriere della Sera, sosteneva molto cure più severe di quelle dell’Ocse & Co., nonché dell’accoppiata Amato-Mare, in materia di previdenza: ci ammoniva che in Svezia il periodo di transizione dal meccanismo retributivo a quello contributivo è stata fatta in tre anni (dal 1995 al 1998) mentre in Italia se ne prevedono 18 che , tenendo conto delle pensioni di reversibilità, potrebbero diventare dai 28 ai 35.
Eviti di trovarsi in una situazione schizofrenicamente pirandelliana con sé stesso (oltre che con l’Amato-Maré). Tanto più che la Storia insegna che i prodi durano poco.
Che farà Tomaso Padoa-Schioppa (TPS per amici vicini e lontani)? E’ appena uscito piuttosto malconcio da un dibattito molto speciale al Senato che non ha giovato alla sua immagine (sulla stessa stampa estera, specialmente quella parigina a cui tiene tanto). Ha compreso la lezione: si è tenuto alla larga dalla polemica sulla previdenza con Château de la Muette, sede dell’Ocse nel quartiere più elegante della Ville Lumière. Non ha aggiunto la propria voce a quella di dirigenti ed esperti del Ministero del Lavoro che esprimevano “dissenso tecnico” nei confronti del metodo con il quale nella pubblicazione Pensions at Glance (“Uno sguardo alle pensioni”) vengono presentati i problemi dei sistemi previdenziali dei 29 Paesi Ocse – e la brutta figura che vi fa l’Italia (rispetto agli altri). Il metodo è estremamente semplificato – come è necessario per costruire tavole sinottiche di Paesi molto differenti (in termini di demografia, mercato del lavoro, previdenza). Il messaggio è, però, chiaro e forte: non solo si devono respingere tentativi di annacquare lo “scalone” ma se non si fa una rapida correzione, o la spesa previdenziale sbancherà i conti dello Stato o i nostri figli resteranno senza pensioni.
E’ noto, però, che Romano Prodi vuole fare da supermediatore e pur di non subire uno sfratto dal Palazzo darebbe un ritocco alla riforma Maroni per accontentare sindacati e sinistra radicale.
TPS – La preghiamo- eviti un’altra magra figura. Con il background francofilo si ricordi di quanto è successo a Giovanna D’Arco per dare troppo ascolto alle voci. Legga, invece, il libro appena pubblicato, presso il suo stesso editore (Il Mulino), dal Ministro dell’Interno Giuliano Amato a quattro mani con l’economista Mauro Maré dell’Università della Tuscia:Il gioco delle pensioni . Rien-ne-va-plus? . Il saggio sostiene tesi analoghe a quelle dell’Ocse (nonché del Fondo monetario, della Commissione europea e dei principali centri studi privati internazionali). Anche Lei, TPS, quando da Francoforte impartiva lezioni dalle colonne del Corriere della Sera, sosteneva molto cure più severe di quelle dell’Ocse & Co., nonché dell’accoppiata Amato-Mare, in materia di previdenza: ci ammoniva che in Svezia il periodo di transizione dal meccanismo retributivo a quello contributivo è stata fatta in tre anni (dal 1995 al 1998) mentre in Italia se ne prevedono 18 che , tenendo conto delle pensioni di reversibilità, potrebbero diventare dai 28 ai 35.
Eviti di trovarsi in una situazione schizofrenicamente pirandelliana con sé stesso (oltre che con l’Amato-Maré). Tanto più che la Storia insegna che i prodi durano poco.
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