sabato 12 maggio 2007

MILLE E UNA NOTA : L'ISLAM IN MOSTRA da Il Domenicale 12 maggio 2007

Tra i corsi in programma nella scuola di management pubblico dell’Università di Harvard, uno dei più frequentati da uomini e donne in mid-career è quello in “Musica nella via della seta”; in queste settimane, uno dei corsisti è un diplomatico italiano, inviato nel Massachussetts del nostro Ministero degli Affari Esteri proprio in quanto viene addestrato ad una carriera veloce e brillante. E’ un corso da cui si vede un’altra faccia dell’Islam rispetto a quella spesso nelle prime pagine dei giornali: una civiltà aperta e tollerante (i migliori cantori del Bukkhara erano, e sono ancora oggi, ebrei) , con un forte senso della spiritualità (anche dove è stata dominata per decenni dall’ateismo di Stato), nonché con una strumentazione ed una scrittura vocale che, quando in Europa si era ancora nei secoli bui del Medio-Evo, anticipavano quella che sarebbe stata la musica rinascimentale ed addirittura il canto di coloratura del Seicento e del Settecento. Secondo alcuni musicologi, in particolare, la coloratura, il canto di agilità, nonché la preferenza per le voci bianche, sarebbero giunti in Europa dall’Asia e dal Medio Oriente.
Avendo lavorato a lungo (quando ero in Banca Mondiale) in quelle parti del mondo ho avuto contezza in prima persona della musica e, in minor misura, del visivo dell’arte islamica. Nel 1969, potetti apprezzarla in Egitto e soprattutto a Mopti (la “Venezia-del-Mali”, porto fluviale sul Niger e centro commerciale di carovane dal Mediterraneo al Regno Dogon sulle montagne ai confini con quello che oggi è il Burkina Faso). Negli Anni Settanta ed Ottanta, mi recavo di frequente a Khartoum ; nel miglior ristorante (“El Busan”) della enorme (e polverosissima) megalopoli, si cenava al lume di candela ed accompagnati da musica e canto struggenti (non certo per turisti – rarissimi nel Sudan). In queste settimane, sino al 3 giungo, si può assaporare la cultura e la musica dell’Islam a Parma. Nella città emiliana, ha preso l’avvio una mostra sulle corti dell’Asia centrale (introdotta, nei primi giorni, da una serie di concerti), che visiterà Parigi, Londra e Lisbona prima di costituire il nucleo fondamentale del Museo permanente dell’Aga Khan i cui battenti si apriranno a Toronto nel 2009. Un’occasione unica per percorrere, nelle sale della Pilotta, due strade parallele, ma convergenti, intitolate rispettivamente a “La Parola di Dio” e a “Il potere del Sovrano”- segno chiaro e netto della separazione tra potere divino e potere temporale che per secoli ha caratterizzato l’Islam, nonostante in varie denominazioni della religione (oggi seguita da un quarto dell’umanità) le funzioni politiche e quelle religiose si trovino spesso affidate alla stessa carica.
Prima di soffermarci sul visivo, qualche parola sulla musica – in quanto pochi sono gli italiani che hanno ascoltato la musica islamica in generale e quella dell’Asia centrale in particolare. E’ una musica, al tempo stesso, aristocratica e popolare, tanto radicata da sopravvivere al comunismo sovietico (che nei confronti dell’Islam non fu meno tenero di quanto non fosse nei confronti del cristianesimo). Musica, poi, divisa in due netti filoni: uno (caratteristico delle civiltà nomadi) in cui i protagonisti sono i bardi (analoghi ai nostri trovatori e ancora di più ai cantastorie sino a tempo recenti frequenti nel nostro Mezzogiorno) con le loro lunghe narrazioni cantate a puntate (epiche la cui lunghezza era spesso pari a 30 volte quella dell’Iliade); uno (tipico, invece, delle società sedentarie) in cui musica e canto sono imperniate sulla rivelazione della parola di Dio ed hanno la doppia funzione di comunicarla ed esaltarla. Anche nelle sterminate storie cantate dei bardi, però, Dio è sempre presente – pur se nel fondale od in quello che specialisti di economia e finanza chiamerebbero “il sottostante”.
La rivoluzione sovietica del 1917 ha tentato di contenere questa tradizione musicale, istituzionalizzando l’offerta in forma centralizzata, introducendo temi collegati al “socialismo reale”, imponendo parametri musicali europei. Molti musicisti dell’Asia sotto il gioco russo – come vedremo – sono stati forzati all’emigrazione, ma la tradizione è rimasta radicata. Oggi, anche con il supporto di organizzazioni culturali come quelle dell’Aga Khan, è in corso un’intensa attività per salvaguardare tale patrimonio culturale e renderlo accessibile internazionalmente. I concerti di Parma verranno ripetuti a Parigi, Londra, Lisbona ed altre città e sono accessibili in pregevoli DvD.
Ad introdurre la mostra di arte delle corti islamiche, con un concerto di gala al Regio e quattro concerti nell’auditorio “Voltoni del Guazzatoglio” del Palazzo della Pilotta, sono stati quattro assaggi di suoni e suggestioni dell’Asia centrale. In primo luogo, un “capriccio” (forma libera) – si direbbe in lessico moderno – afgano per rubâb (liuto) e tabla (coppia di percussioni di origine indiana): dopo la lunga mesta prima parte, intrisa di melanconia e nostalgia, ritmica ma ben temperata (in cui il tabla fa da contrappunto al rubâb) , i due musicisti dialogano vivacemente tramite i loro strumenti in uno scherzo sempre più vivace tanto da diventare frenetico. In secondo luogo, i canti del Bukkhara, nell’Ubzekistan, vicino alla mitica Samarcanda. I loro cantautori sono ebrei, da decenni trasferiti nel Queens di New York (dove si tramandano l’arte di generazione in generazione), in seguito non a persecuzioni da parte dei mussulmani ma all’antisemitismo profondo dei russi comunisti nei lunghi anni dell’Impero sovietico. Quello che colpisce nel vasto repertorio di brani vocali e strumentali tramandati (con aggiornamenti ed aggiustamenti) dall’inizio del secondo millennio, è la netta preferenza per voci maschili molto “alte” (da controtenore più che da tenore), l’assenza di voci da baritono o da basso (presenti, invece, in canti ebraici ancorati alla tradizione europea, quali quelli che si ascoltano, ad esempio, nelle sinagoghe americane) nonché vocalizzi di agilità non differenti da quelli dei castrati che avrebbero fatto impazzire Corti e pubblico europeo nel Seicento e nel Settecento. In terzo luogo, i canti mistici del Pamir tagiko, alla falde quasi dell’Himalaya. Forte l’accento sulle tonalità e sulle ottave alte (mentre in Europa e nella tradizione medio-orientale copta il misticismo è spesso associato a voci di basso, come peraltro avviene nella musica slava e specialmente nella liturgia ortodossa), nonché sul ritmo, tanto che dal canto si scivola nella danza. In quarto luogo, infine, la musica spirituale dell’Azebarjan: netta la distinzione tra i languidi canti sentimentali (uno è intitolato “L’amore degli amori”) ed invece il ritmo incalzante di una canzone presa da un film patriottico sovietico; anche in quest’ultima, però, è presente il richiamo all’Alto.
Anche grazie agli utili pannelli ricchi di didascalie, la mostra (170 opere) consente una presa diretta di contatto con quell’Islam spesso chiamato “moderato”, così profondamente differente da quello radicale del terrorismo e della jihad (guerra santa). La parte su “La parola di Dio” è articolata in quattro parti: il Corano (nelle trascrizioni dei versetti , con decorazioni floreali e geometriche, sin dal IX secolo), il mondo di misticismo e di devozione (nelle immagini, spesso miniature su tela o pergamena, che accompagnavano libri religiosi o più semplicemente a carattere educativo), il cambiamento di misticismo e devozione attraverso i tempi (da segnalare le rappresentazione dei dervisci e delle discussioni tra saggi , tali da evidenziare il forte senso del movimento); il giardino visto come Paradiso (con copertine in lacca della fine del Cinquecento che sembrano anticipare il Liberrty). Laica la parte della mostra dedicata a “Il potere del Sovrano”. Il percorso è cronologico dai fatimidi (diretti discendenti di Maometto) ai moghul (che conquistarono l’India e posero fine ai regni dei Rajput); una sezione, tuttavia, riguarda l’educazione al potere- il cammino del Principe. Nell’insieme, si vede un mondo di smalti smaglianti, di dipinti stilizzati ma ricchissimi, di cristalli di roccia e ceramiche variopinte, di conoscenza profonda del resto del pianeta (sorprendente il dettaglio degli abiti degli ambasciatori occidentali, specialmente quelli delle Corti di Francia e Gran Bretagna), di un arte calligrafica complessa ed elegante. Grande raffinatezza, dunque, all’amore per il particolare.
Nulla di più distante, quindi, dello scontro tra civiltà ipotizzando in molta pubblicistica di questi ultimi anni. La grandezza, anche economica, dell’Islam si è appassita per numerose determinanti – prime fra tutte le complicate regole di successione ed il blocco alla nascita di società a responsabilità limitata che hanno impedito uno sviluppo capitalistico analogo a quello formatosi in Occidente. La mostra ed i concerti, però, ribadiscono che esiste un vastissimo Islam della tolleranza e dell’eleganza. Più che uno spiraglio in una porta che a volte sembra ermeticamente chiusa.

Nessun commento: