Nonostante l’ottimismo ostentato dal Presidente del Consiglio, il confronto sul futuro delle pensioni è diventato un scontro all’interno della maggioranza e delle forze politiche e sociali che ne fanno parte. In questo scontro, il sindacato sta facendo mosse sbagliate in modo macroscopico, forse per la prima volta da quando (circa 20 anni fa) è iniziato il dibattito sulle pensioni del futuro.
L’errore di fondo sta nel avere fatto diventare la soppressione del cosiddetto “scalone” (le misure che in base alla riforma del 2004 porterebbero, nel 2008, il limite di età per le pensioni di anzianità da 57 a 60 anni) il punto principale della trattativa – ove non lo stendardo delle richieste sindacali. Il Segretario della Cgil Guglielmo Epifani ha minacciato uno sciopero generale se il Governo non adotta speditamente provvedimenti per abolire, o quanto meno, modificare drasticamente lo “scalone”. Le altre maggiori confederazioni non potranno non accodarsi alla Cgil, anche se non hanno immediatamente seguito Epifani nella minaccia dello sciopero; hanno chiesto l’intervento, sullo “scalone”, del Presidente del Consiglio in persona (delegittimando i Ministri dell’Economia e del Lavoro).
Il braccio di ferro sullo “scalone” è diventato un simbolo analogo all’abrogazione o drastica modifica dell’art. 30 dello Statuto dei Lavoratori (quello sulla “giusta causa” per i licenziamenti) chiesto a gran voce, all’inizio della scorsa legislatura, da chi proponeva una liberalizzazione del mercato del lavoro.
Quanti sono gli interessati allo “scalone”? In primo luogo, portare a 60 anni l’età minima per fruire di pensioni di anzianità non riguarda quei lavoratori definiti “precoci” (perché hanno iniziato ad andare in fabbrica od in ufficio quando erano molto giovani – presumibilmente nella seconda metà degli Anni Sessanta). Essi, infatti, vanno in pensione di vecchiaia (non di anzianità) dopo 40 anni di contributi (effettivi e figurativi) con il sistema retributivo (ossia con trattamenti legati alle retribuzioni), quale che sia la loro età anagrafica. In secondo luogo, lo “scalone” non sfiora neanche gli addetti a lavori “usuranti” (per i quali sono state definite modalità specifiche in una serie di decreti dei Ministri del Lavoro, dell’Economia, della Sanità e della Funzione Pubblica).
Quindi, lo “scalone” fa paura principalmente ove non esclusivamente a chi progetta di andare in pensione retributiva in età ancora relativamente giovane per poter intraprendere una nuova attività oppure per dedicarsi interamente a quella che è già una sua seconda attività nello status di lavoratore dipendente. Utilizzando i dati Inps ed Inpdap, coloro potenzialmente interessati allo “scalone” sono circa 190.000 nell’arco dei prossimi tre anni – ossia 63,000 l’anno. Si affievolirebbe l’interesse di molti di loro ad andare in pensione a 57 anni se avessero piena contezza che il meccanismo di aggiornamento dei trattamenti (collegato all’indice del costo della vita degli operai, non all’andamento dei salari, nonché con ulteriori penalizzazioni per le pensioni più elevate) comporta, anno dopo anno, una perdita consistente di tenore di vita relativamente a chi decide di mettersi in quiescenza più tardi. Quindi, lo scontro riguarda un numero relativamente limitato di uomini e donne, verosimilmente più fortunati di molte altre categorie, pur se poco informati sulle conseguenze di medio e lungo periodo di andare in pensione a 57 anni: i loro trattamenti verrebbero decurtati severamente in termini reali dal momento del pensionamento alla soglia dei 75 anni (quando le esigenze di ciascuno probabilmente aumenteranno).
La richiesta di abbattimento dello “scalone” è una posizione perdente, come, da parte di alcuni esponenti dell’attuale opposizione, cinque anni fà si rivelò perdente l’irrigidimento sull’abrogazione o drastica modifica dell’art. 30 dello Statuto dei Lavoratori – misura che, tutto sommato, interessava una manciata di imprese. Lo è ancora di più per un sindacato che nel 1995 ha ottenuto che il periodo di transizione da pensione retributive a pensioni contributive durasse 18 anni (non 3 come in Svezia o mediamente 5 come nell’altra ventina di Paesi che hanno varato riforme analoghe). Ed ha così già dato un privilegio consistente a 10 milioni di persone, molti dei quali delle fasce medio-alte della società italiana.
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