A poche settimane dal successo alla Scala (dovuto in gran misura ai virtuosismi vocali di Désirée Rancatore e Juan Diego Floréz) arriva a Roma “La Fille du Régiment”. L’allestimento è lo stesso - quello concepito alla fine degli Anni Cinquanta da Franco Zeffirelli per il Teatro Massimo di Palermo e di cui Zeffirelli realizzò scene e costumi e Filippo Crivelli (allora suo assistente) la regia. Anche alcuni degli interpreti sono i medesimi (Francesca Franci nel ruolo della Marquise de Berckenfield, Anna Proclemer in quello della Duchesse de Krakenthorp). Mancano i grandi nomi di richiamo per il pubblico (come appunto Floréz) perché a Roma (dove si mettono in scena solo 6 repliche rispetto alle 9 di Milano) si punta, credo anche per ragioni di bilancio, su un cast in parte, meno conosciuto. L’orchestra, tuttavia, è affidata ad un concertatore conosciuto come Bruno Campanella.
L’allestimento Crivelli-Zeffirelli andò in scena a Palermo nel 1959. Dopo un decennio circa di oblio, è sbarcato a Roma nel 1968 e da allora ha girato nei maggiori teatri sia italiani sia stranieri (Dallas, Bregens, Ginevra, tra gli altri). E’ stato, di volta in volta, aggiornato nei dettagli ma l’idea di base (l’ispirazione alle stampe di Epinal sulle “campagne pacioccone” in epoca napoleonica resta immutata; le scene dipinte, i siparietti, i costumi sgargianti e le gags mantengono la freschezza di cinquanta anni fa (anche se oggi come allora travisano leggermente lo spirito del lavoro).
Accenniamo alla trama. Marie è cresciuta come un soldataccio in quanto abbandonata dal padre. L’esercito l’ha, in pratica, adottata e la fanciulla, pur assolvendo il ruolo di vivandiera, è diventata esperta nelle arti delle armi. In seguito si è innamorata del giovane svizzero Tonio, che l’ha salvata mentre stava cadendo in un burrone. Ma il sergente Sulpice (geloso come fosse suo padre) vuole ostacolarli poiché Tonio è tirolese (nella versione italiana la vicenda si svolge in Svizzera) e vuole, invece, che Marie sposi uno dei suoi soldati. L’intrigo si risolve quando la Marquise de Birkenfeld scopre in Marie una sua nipote (e successivamente la propria figlia) e, dopo una serie di divertenti peripezie, acconsente al matrimonio tra i due giovani.
Composta su commissione dell’Opéra Comique è una delle opere più popolari di Donizetti: tra il 1840 ed il 1875, unicamente a Parigi se ne contano più di 600 repliche. Nella lettura di Crivelli-Zeffirelli è un’opera comica. Più che un’opéra comique in senso stretto (anche se alcuni parti sono recitate, non cantate, come richiedeva lo stile della Salle Favart), è, a mio avviso, un melodramma leggero con una forte punta di ironia nei confronti del melodramma serio che proprio in quegli anni Donizetti stava sviluppando. Richiede un soprano di coloratura ed un tenore lirico di agilità in grado di affrontare una scrittura vocale spericolata, anche a ragione degli arricchimenti apportati dalla tradizione. Ad esempio, l’aria principale del tenore “Ah, mes amis”, nell’autografo donizettiano, prevede tre “do” acuti (e sono già un bel po’); con il passare dei lustri, viene offerta (ad esempio, da Pavarotti, Kraus e oggi da Juan Diego Florèz) con nove “do” sovracuti, con poco rispetto per la filologia ma trascinando il pubblico all'entusiasmo.Analogamente, le arie di Marie sono diventate esercizi di puro virtuosismo. Le acrobazie vocali spesso distolgono l’attenzione dall’eleganza strumentale di questo Donizetti raffinato come in pochi altri lavori.
L’aspetto migliore dell’edizione al Teatro dell’Opera di Roma è la cura con cui Campanella mette in risalto l’eleganza (e la leggera malinconia che sempre s’accompagna all’ironia) della scrittura orchestrale, evidenziando le delicate parti solistiche (che sovente si tende a soffocare). Sotto questo profilo è una “Fille” innovativa, oltre che di qualità. L’aspetto più discutibile (ma lo era in gran misura anche alla Scala poche settimane fa) è la dizione: il recitar cantando in francese è pieno di trabocchetti per chi non è di lingua madre. E della compagnia romana, nessuno è cresciuto Oltralpe. Solamente il coro, guidato da Gea Garatti Ansimi, si presenta con un francese credibile, frutto di molte prove e del numero comparativamente elevato di opere francesi programmate a Roma negli ultimi anni.
Cinzia Forte è una Marie credibile; nervosa all’inizio dello spettacolo (ha spinto troppo due sovracuti nella prima aria), è migliorata progressivamente nel corso della serata, meritandosi applausi a scena aperta da “Il faut partir, mes bons compagnons d’armes”. Bruce Sledge è stato chiamato a sostituire il previsto Tmislav Muzek: ha dimostrato ancora una volta di non essere più una promessa ma uno dei rari giovani tenori di agilità per questo repertorio. La sfida era evidentemente “Mes amis”: ha mostrato, senza tentare di strafare, tutta l’agilità necessaria tanto nell’ascendere quanto nello scendere dai terrificanti “do”. Il duetto “Depuis l’’instant où dans mes bras” è stato cantato con maestria: particolarmente morbido il cantabile di Sledge e brillante invece la seconda parte in cui il canto del soprano e del tenore prima si alterna e poi si unisce.
Il Sulpice di Alberto Rinaldi è ben calibrato nel timbro e nel fraseggio; è poi pienamente all’altezza dei due protagonisti nel terzetto “Tous les trois réunis” (in cui si avverte un piglio rossiniano – la eco de “Le Comte Ory”). La Marquise di Francesca Franci è improntata a grande equilibrio scenico e vocale: divertente nella esilarante scena della lezione di danza, toccante in “Quand le destina au milieu de la guerre”. La Duchesse de Krakenthorp di Anna Proclemer è una simpatica caratterizzazione con il limite però di una dizione francese lungi dall’essere corretta (aspetto che si nota particolarmente in un ruolo parlato).
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