Il Maggio Musicale Fiorentino ha 70 anni. Venne creato nel quadro di un disegno che sarebbe ancora moderno: gli enti lirici sovvenzionati dallo Stato avrebbero dovuto fare essenzialmente repertorio (ma presentare una novità, possibilmente italiana l’anno), mentre due festival (a Firenze e Venezia) avrebbero dovuto avere rispettivamente il compito delle riscoperte e del confronto internazionale di musica contemporanea. Gli enti – oggi fondazioni – non fanno repertorio ma cercano ciascuno di realizzare stagioni articolate come minifestival. I compiti di Firenze e Venezia si sono accavallati.
Per i 70 anni del Maggio accanto ad una riscoperta di grido – “La Dafne” di Marco Gagliano, forse l’opera più antica di cui esista una partitura – abbiamo molta musica contemporanea: il tema della manifestazione – che si estende dal 24 aprile a fine giugno- è “mito e contemporaneità”.
Ad una prima mondiale è stata dedicata l’inaugurazione: “Antigone” di Ivan Fedele, compositore cinquantaquattrenne noto all’estero più che in Italia e per la prima volta alle prese con il teatro in musica. Per alcuni aspetti, è opera perfetta per inaugurare un festival: è breve (un atto unico di 75 minuti) e tale da dare spazio alla mondanità (una cena nei locali del teatro); tratta di temi alti -il confronto tra diritto naturale (o divino) e leggi fatte dagli uomini-; la vicenda è stata drammatizzata diecine di volte (da Sofocle a Fugard) e messa in musica in numerosi adattamenti dal Settecento (Hasse, Traetta) al Novecento (Honneger, Orff). Figlio di un matematico e laureato in filosofia, Fedele è più vicino alla scuola francese dell’Ircam che all’avanguardia di stampo tedesco. Il suo catalogo comprende un’ottantina di titoli , eseguiti dalle maggiori orchestre europee ed americane. Le aspettative, quindi, erano elevate.
Il Maggio non è lesinato sull’allestimento: l’enorme palcoscenico del Comunale di Firenze (il più vasto in Italia) è stato ulteriormente dilatato (perdendo alcune file di platea) per dare posto alla macchina di scena concepita da Sergio Tramonti per la regia di Mario Martone; due barcacce (oltre al golfo mistico) danno spazio all’enorme organico (specialmente importanti le percussioni) guidato da Michel Tabachnick; i cantanti (Monica Bacelli, Chiara Taigi, Roberto Abbondanza, Mirko guadagnino, Martin Oro) sono stati dotati di “sonorizzatori” per non essere coperti dal flusso sinfonico. In breve, il pubblico ha l’impressione di essere alle prese con un evento quasi unico (tre rappresentazioni in programma a Firenze) e probabilmente irrepetibile , come erano, all’inizio del Novecento, certi spettacoli di Max Reinhardt.
Tuttavia, ci si aspettava un libretto ed una scrittura orchestrale e vocale della più schietta contemporaneità, mentre ci si trova a rimettere l’orologio indietro di almeno trenta anni – di tornare a quelle che erano le sperimentazioni tra grande organico, effetti timbrici e musica elettronica (impiegata nell’intervento di Tiresia, scritto per un controtenore). La partitura orchestrale non manca di fascino ed il declamato scivola quasi in numeri tradizionali (arie, duetti). A fronte delle canizie di un’avanguardia con i capelli grigi, l’emozione resta epidermica. Anche in quanto il testo non coglie il confronto tra due visioni del mondo e della vita, ma pare incentrato sul dramma Creonte (e la dannazione degli Dei che portano alla morte violenta di suo figlio e di sua moglie). Un’occasione, quindi, in parte mancata.
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