FINANZA E POLITICA/ Trump,
Macron e le battaglie pericolose per l'Italia
Mentre si
paventa una ripresa per l’Italia dell’1,3% nel 2017, non bisogna sottovalutare
i rischi di un ritorno del protezionismo. GIUSEPPE PENNISI ci ricorda perché
03 luglio
2017 Giuseppe Pennisi
Emmanuel Macron (Lapresse)
La settimana
appena trascorsa è terminata con la pubblicazione di due rapporti, prodotti
rispettivamente dal Centro Studi Confindustria (Csc) e dall’Assolombarda
presentati come molti positivi sull’andamento dell’economia italiana. In breve
- i dettagli sono su tutti i maggiori quotidiani -, prefigurano che si sarebbe
raggiunta una crescita del Pil dell’1,3% l’anno, prima della fine del 2107,
tasso che si sarebbe mantenuto o anche rafforzato nel 2018. Ciò avverrebbe
tramite la leva delle esportazioni, specialmente delle medie imprese. Di
conseguenza, la politica economica dovrebbe dare particolare attenzione a
questa tipologia di aziende, specialmente a quelle ad alta tecnologia.
Due rapidi
commenti. In primo luogo, un tasso di sviluppo dell’1,3% l’anno, veniva
considerato, prima della crisi iniziata nel 2008, come un tasso di crescita
“naturale” per un Paese dalle caratteristiche demografiche e dalla struttura
produttiva come quella dell’Italia. Era la conclusione a cui arrivava un gruppo
di lavoro composto da Banca mondiale, Banca centrale europea, Commissione
europea e Ocse; il gruppo aveva utilizzato la modellistica economica più
recente. Non so se sono stati compiuti studi analoghi da quella data. Da
allora, l’attenzione si è focalizzata su come uscire dalla crisi e sull’output
gap. Le analisi disponibili sull’output gap sembrano considerare,
implicitamente, un tasso di crescita dell’1,3% l’anno “naturale” per l’Italia.
Se le prospettive del Csc e dell’Assolombarda si verificasse saremmo tornati
alla situazione pre-crisi, dopo però avere perso un quarto di Pil negli “anni
difficili” 2008-2017. Dobbiamo fare di più e di meglio.
È banale
sottolineare che ci vorrebbe una ripresa più rapida perché l’Italia non perda
quasi venti anni di reddito nazionale (dieci in cui si è contratto quasi di un
quarto e almeno altrettanti per tornare al livello del 2008). Più insidioso è
il fatto che i documenti Ccs e Confindustria propongano di fare leva
principalmente sulle esportazioni,
In
contemporanea con i due documenti Csc e Assolombarda, è stato pubblicato il
rapporto Europe: coming together or falling apart? del Centro Europa
ricerche (Cer), un istituto privato che ha quasi mezzo secolo di vita ed è
stato creato da Giorgio Ruffolo proprio con l’intenzione di esaminare i nostri
problemi senza confinarci alle nostre frontiere. Il rapporto Cer non ha quasi
avuto eco su quella che si autodefinisce “la grande stampa”. Va, però, letto
con attenzione. Pone l’accento infatti sul ritorno del protezionismo. Non solamente
l’America First di Donald Trump e la fine delle trattative per un’area
atlantica per gli scambi e gli investimenti non promettono bene in termini di
“scambi più liberi per un mondo più libero” (lo slogan free trader del
Kennedy Round degli anni Sessanta), ma in Francia lo stesso discorso
d’insediamento del neo-Presidente Emmanuel Macron profuma di colbertismo.
Quindi il neoliberismo internazionale degli anni di Ronald Reagan e Margaret
Thatcher sembra finito per sempre, ma una nuova ondata protezionistica è
sostenuta politicamente dai sovranismi, dai nazionalismi, dalla xenofobia.
Anche se
alle elezioni vincono gli avversari di questi movimenti, concessioni dovranno
essere fatte a queste forze per evitare spaccature troppo marcate all’interno
sia dei singoli Paesi che dell’intera Unione europea. Le esportazioni Ue sono
in gran misura orientate verso i mercati dell’Est - oltre il 9% verso l’Estremo
Oriente -, mercati che oggi promettono meno che nel recente passato (anche e
soprattutto per ragioni puramente politiche).
L’Italia,
dal canto suo, ha mantenuto barriere doganali maggiori di quelle di altri Paesi
con il suo livello di sviluppo (in settori come il tessile, il carbone,
prodotti petroliferi). Ha una tariffa doganale mediamente del 3,5% rispetto al
2,8% della media Ocse. Tale “protezionismo implicito” rispecchia la scarsa
competitività. Ma può essere facile bersaglio in caso di “guerre commerciali”.
Quindi, è sulla domanda interna (e sugli investimenti e sui consumi per
attivarla) che occorre puntare.
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