L’EPOPEA DI MATTEO
RICCI IN “SHI” AL MACERATA OPERA FESTIVAL
Il gesuita che
insegnò il diritto romano ai mandarinicinesi
GIUSEPPE PENNISI
Pullulano le
convenzioni e gli accordi tra Università italiane e cinesi sull’insegnamento
del diritto romano tanto nel nostro Paese ( ad esempio, all’Università di Roma
La Sapienza) quanto in atenei dell’Estremo Oriente. In effetti, dopo un lungo
periodo di assolutismo comunista e millenni di
assolutismo imperiale, la Cina sente una forte esigenza di regole per trattare
rapporti commerciali, familiari e via discorrendo e un sistema di codici
scritti è più congeniale ai cinesi del common law basato sulla giurisprudenza precedente. Anche se i primi lavori scritti di
traduzioni del diritto romano in mandarino risalgono all’inizio del Novecento,
i semi erano stati gettati nella metà del Cinquecento con le prime missioni dei
gesuiti in Estremo Oriente.
Iniziarono a Macao dove, dopo una prima esperienza complicata, nel
1557 i gesuiti ottennero di insediarsi e rimasero fino al 1999; là impiantarono
il diritto del sistema romanistico, che è insegnato da secoli nella locale
università ed è stato tradotto in mandarino a opera
di un apposito Gabinete para a
tradução jurídica. Nel Cinquecento, erano giunti
in Cina anche gli spagnoli, ma non si insediarono.
Giunsero gli
olandesi e dal 1623 iniziarono a occupare Taiwan, impedendo un’espansione
nell’isola degli spagnoli; ma essi, poi, ne furono
cacciati nel 1662. Che anche da queste relazioni sia scaturito un dialogo a
livello giuridico e l’interesse alla iustizia con cui
l’imperatore governava in Occidente nei secoli ai quali si è fatto cenno e nel
corso di tali scambi, merita ancora una verifica. Ma
– pochi lo sanno- uno dei protagonisti dell’introduzione anche del diritto
romano ( come di tanti altri aspetti della cultura occidentale quali gli
orologi), fu Matteo Ricci che guadagnò la fiducia dell’Imperatore e della Corte.
A Matteo Ricci
s’inspira Shi ( Si faccia) , la nuova opera commissionata dal Macerata Opera
Festival, lo spettacolo inaugurale del Festival che inizia il 20 luglio sino al
14 agosto. L’autore è Carlo Boccadoro, origini maceratesi, tra i più apprezzati
compositori italiani contemporanei, su libretto di
Cecilia Ligorio, regista e drammaturga italiana con esperienze significative
nei principali teatri europei, sia nel teatro di prosa che in quello musicale.
L’opera – per due pianoforti, percussioni, attore e due
baritoni – debutta in prima assoluta il 20 luglio al Teatro Lauro Rossi (
repliche il 26 luglio, 2 e 9 agosto). L’allestimento è realizzato con la
collaborazione dell’Accademia di Belle Arti di Macerata che cura le scene, i
costumi e le luci. Le voci sono di Roberto Abbondanza
e Bruno Taddia e la partecipazione dell’attore Simone Tangolo. «Una bella
sorpresa per noi lavorare a Shi – afferma la
direttrice dell’Accademia delle Belle Arti, Paola Taddei –, si respira un’aria
davvero vivificante e, stando in contatto con la
Ligorio, abbiamo scoperto aspetti di Matteo Ricci nuovi e appassionanti».
L’ulteriore strumento del quale Ricci si servì per conquistare rispetto e
autorità presso i cinesi fu l’utilizzo della logica occidentale, in particolare
della dialettica, soprattutto nelle dispute pubbliche
con maestri confuciani e buddisti. Egli intendeva la dialettica come arte della
dimostrazione e della persuasione. La dialettica è aspetto fondante del diritto
processuale romano. Infine, Ricci comprese molto presto
che nella situazione eccezionale sarebbe stato indispensabile conoscerne bene
la cultura e i classici della Cina. Per questo si mise con grande impegno allo
studio dei Quattro Libri, che tradusse in latino. Ricci conosceva bene (
qualcuno sosteneva che li conoscesse a memoria e
certamente meglio di molti mandarini cinesi) anche le Cinque Dottrine, altro
testo canonico presente nei programmi degli esami di stato per il mandarinato
dei funzionari governativi. L’attenzione per la letteratura cinese si fondava su due ragioni: non sarebbe stato possibile riferirsi
adeguatamente agli interlocutori senza conoscere i testi canonici della loro
formazione ( e qui parliamo non soltanto di confuciani, ma anche di taoisti e
di buddisti); Ricci aveva trovato come strumento
utilissimo di persuasione utilizzare nella presentazione delle proprie tesi
anche l’autorità dei testi classici della Cina.
Ricci inoltre seppe
procurarsi rispetto e ammirazione per la grandezza morale e civile delle «terre
de’ Cristiani», ossia l’Europa. Egli pensava che per
richiamare l’attenzione dei cinesi sulla religione cristiana sarebbe stato
estremamente utile mostrare i frutti delle civiltà che questa sapeva esprimere,
seguendo il precetto evangelico, e non solo, per cui la bontà di una fede o di una dottrina viene riconosciuta dalle opere che questa è
in grado di produrre. Egli aveva scoperto che i suoi interlocutori erano
favorevolmente colpiti dalle istituzioni caritative e sociali vigenti in
Europa. Ricci scelse inoltre interlocutori privilegiati.
Questo fu un momento decisivo nella strategia di Ricci: scegliere
l’interlocutore a cui rivolgersi in modo preferenziale e con il quale stringere
alleanza. Quando cominciò a capire che per giungere all’imperatore egli doveva
passare comunque attraverso la classe mandarinale e,
ancor più, quando cominciò a temere che sarebbe stato impossibile incontrare
direttamente l’imperatore, Ricci si rivolse decisamente a questa, scegliendo
dunque il confucianesimo come dottrina privilegiata di dialogo e riferimento. Il confucianesimo era infatti la dottrina di
riferimento di letterati e mandarini, governanti della Cina. Le ragioni di
questa scelta, oltre che “politiche”, erano, d’altra parte, filosofiche e
teologiche. Il confucianesimo presentava, rispetto alle altre due religioni della Cina, taoismo e buddismo, il
vantaggio di non avere una metafisica e una dottrina dell’altra vita: in tal
modo non veniva a costituire un ostacolo insormontabile nella predicazione del
cristianesimo, fondato su principi metafisici del
tutto alternativi, anzi incompatibili, con quelli sui quali sono fondati
taoismo e buddismo.
Non è un caso che
autori come Cicerone, Seneca, Marco Aurelio, Epitteto avessero tanta parte
nella formazione dei gesuiti nei diversi cicli di insegnamento del Collegio Romano e non è a caso che, quando Ricci prova ad
esporre in cinese un primo modello occidentale di dottrina morale, ricorra a
man bassa al Manuale di Epitteto, che nelle Venticinque sentenze, pubblicate
nel 1605 a Pechino, ma composte tra la fine del 1599
e il 1600 a Nanchino, per metà traduce quasi alla lettera, per l’altra metà
riassume e parafrasa. Insomma, Ricci non trovò di meglio, per presentare ai
cinesi la morale europea ed il diritto, che introdurli al pensiero di Epitteto.
La morale stoica venne così a svolgere una funzione
di ponte e di intermediazione tra la morale confuciana e quella cristiana, che,
non essendo esclusivamente fondata sulla ragione, come le prime due, ma anche
sulla rivelazione, non poteva essere presentata subito nella sua integrità.
IL SACERDOTE SI
SERVÌ DELLA FILOSOFIA E DELLA DIALETTICA OCCIDENTALE PER CONQUISTARE RISPETTO E
AUTORITÀ, INGAGGIANDO DISPUTE PUBBLICHE CON MAESTRI CONFUCIANI E BUDDISTI
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