IL CASO/ Quel voto che può
penalizzare le nostre imprese
Gli
investimenti esteri sono certamente importanti per un Paese come l’Italia. Ma
rischiano di venir meno se peggiora il rating sul debito pubblico, ricorda
GIUSEPPE PENNISI
17 luglio
2017 Giuseppe Pennisi
Lapresse
L’Italia sta
diventando più “attraente” per gli investimenti dall’estero o si tratta di una
“fake new”, in volgare una bufala? Circa un mese e mezzo fa è stato lanciato,
con certo clamore, un rapporto di Ernst & Young secondo cui nel 2016 gli
investitori esteri avrebbero incrementato i loro investimenti diretti in Italia
del 62%. Da un rapporto della società di consulenza, l’Italia si collocherebbe
al 16mo posto delle economie mature (non proprio da esserne orgogliosi, a
nostro giudizio). La performance sarebbe, inoltre, stata la migliore di sempre,
anno su anno, tra le grandi economie europee. L’aumento riguarda anche
l’occupazione con 2.654 posti creati nel 2016, con una crescita del
92%. Per quanto riguarda i paesi di provenienza degli investimenti, si
tratta soprattutto dagli altri paesi europei, anche se le imprese statunitensi
restano i maggiori investitori (27%). La quota di investimenti cinesi nel
nostro Paese è invece ancora marginale (2%), in un quadro che, nel 2016, vede
le imprese cinesi più attive in Europa.
Occorre
dire, però, che il documento ha avuto molta meno di eco di quella che ci si
attendeva avrebbe avuto. L’ex Presidente del Consiglio Matteo Renzi ne ha preso
spunto per una delle sue dichiarazioni su quelli che sarebbero stati i successi
del governo da lui presieduto. La stampa economica ha riportato il comunicato
diramato dall’ufficio relazioni pubbliche della Ernst & Young. Ma poco di
più, anche in quanto alcuni commentatori economici ne hanno criticato
l’impostazione metodologica e la qualità dei dati.
Molto
equilibrato a riguardo il commento di Paolo Ermanno dell’Università di Udine,
in premessa di una ricerca promossa dal Centro Studi ImpresaLavoro: “Negli
ultimi anni, probabilmente a causa delle paure suscitate dalla crisi economica
- scrive Ermanno -, gli organi d’informazione nazionali hanno più volte
riportato notizie di aziende straniere che facevano ‘shopping’, questo è il
termine comunemente utilizzato, nel nostro Paese, comprandosi imprese rilevanti
del panorama economico italiano. L’effetto percepito dalla cittadinanza è stato
quello di una sorta di colonizzazione economica: le imprese di paesi
considerati fino all’altro giorno poveri, Cina o India, o di paesi troppo forti
con cui confrontarsi, come la Germania, erano rappresentate come invasori,
quasi a voler risvegliare l’atavica paura di un popolo che dalla fine
dell’impero Romano ha troppe volte subito il dominio altrui. I casi, molto
eclatanti, di Pirelli acquisita da China National Chemical Corporation e di
ItalCementi venduta al gruppo tedesco Heidelberg Cement, hanno riacceso la
polemica sul presunto colonialismo straniero verso le imprese italiane. È il
caso di sottolineare che l’immagine di un Paese colonizzato non solo non
risulta veritiera, in quanto gli italiani sono, in questi termini, più
colonizzatori che colonizzati, ma il fatto che aziende straniere investano
nelle nostre imprese può anche essere un ottimo segnale per il sistema Paese”.
In effetti,
come mostra il grafico costruito da Ermanno su dati della Banca d’Italia, negli
ultimi 25 anni, gli investimenti italiani all’estero hanno preso una strada
marcatamente differente da quella degli investimenti esteri nel nostro Paese:
La
letteratura economica evidenza quattro motivi - conclude il lavoro di Ermanno -
per cui un’impresa dovrebbe investire all’estero: primo, ricercare vantaggio in
termini di costo di produzione, per esempio grazie a manodopera a basso costo;
secondo, avvicinarsi ai clienti nei mercato, superando barriere doganali e
riducendo i costi di trasporto; terzo, assicurarsi l’approvvigionamento di
materie prime o risorse scarse; quarto, investimenti volti ad acquisire
brevetti, tecnologie, conoscenze. Gli investimenti diretti dall’estero verso
l’Italia rispondono al secondo e al quarto motivo: siamo un mercato
interessante per le aziende straniere e un sistema ricco di competenze.
Mantenere vivo l’interesse verso gli investimenti dall’estero, il famoso
“shopping”, può implicare sia ravvivare il mercato italiano, sostenendo ad
esempio la domanda interna, sia arricchire ancor di più il sistema di personale
qualificato e di aziende competitive: non è un caso che il Paese col più alto
stock di investimenti dall’estero in entrata rispetto al totale degli
investimenti dall’estero siano gli Stati Uniti (17,2% nel 2012).
L’attenzione
dell’opinione pubblica dovrebbe orientarsi su come favorire le imprese italiane
nell’acquisizione di partecipazioni all’estero. Ricorda la Banca d’Italia che
le aziende che investono in partecipazioni all’estero risultano essere in
termini di valore aggiunto in media tr volte più grandi delle aziende
esportatrici e cinque volte più grandi di quelle orientate al solo
mercato interno. Se vogliamo continuare a essere investitori attivi e non
vittime della globalizzazione, la chiave è sempre e solo una: investire in
capitale umano, in conoscenza, in efficienza del sistema produttivo.
Le ragioni
che frenano gli investimenti diretti dall’estero verso l’Italia sono state
indicate più volte: troppi lacci e lacciuoli, incertezza delle regole e della
loro applicazione, un sistema amministrazione e un sistema giudiziario che
aumentano detta incertezza e rendono molto farraginoso operare. Se si guarda
con attenzione al grafico si nota che la divergenza tra investimenti diretti
dall’Italia all’estero e dall’estero al nostro Paese è diventata molto marcata
a partire dalla metà del primo decennio di questo secolo. Si sono aggravate le
disfunzioni citate in precedenza o sono intervenute altre determinanti?
Indirettamente
si ha una risposta in uno studio sul nesso tra il rating del debito sovrano e
gli investimenti diretti dall’estero appena diramato. Ne sono autori tre
economisti finanziari dell’Università di Sidney (Peilin Cal, Qua Gan, Suk Joong
Kim - si noti l’origine cinese). Il lavoro esamina il nesso tra rating del
debito sovrano e gli investimenti diretti dall’estero utilizzando dati di 31
Paesi Ocse e 72 Paesi emergenti che non fanno parte dell’Ocse nel periodo
1985-2012. La prima conclusione è che i rating sul debito sovrano sono un
motore importante del flusso di investimenti privati diretti bilaterali. La
seconda è che, normalmente, gli investimenti vanno da Paesi con rating bassi a
Paesi con rating alti. La terza è che un Paese Ocse riceve investimenti privati
da Paesi emergenti ricchi in risorse unicamente se il rating del suo debito è
alto. Sono risultati importanti in una fase in cui il debito sovrano italiano è
sotto attento scrutinio.
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