martedì 11 luglio 2017

Rossini Arcitaliano in La Nuova Anrologia Aorile Giudno 2017

ANNO 152°
Aprile-Giugno 2017
Vol. 618 - Fasc. 2282
NUOVA ANTOLOGIA
Rivista di lettere, scienze ed arti
Serie trimestrale fondata da
GIOVANNI SPADOLINI
Giovanni Spadolini, La cultura e Milano
con una testimonianza di Antonio Del Pennino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5
Giuseppe Antonio Borgese e la propaganda italiana all’estero (1914-1918) - I
a cura di Antonio Fiori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 17
Sergio zavoli, La parola . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 41
Giuseppe De Rita, Il consolato guelfo, una ipotesi di governo del futuro . . . . . . 52
Contando sui nostri “fondamentali”, p. 55; Con quale dinamica sistemica, p. 59; Governare
la domanda di sicurezza e certezza, p. 63; 4. Conclusione, p. 46.
massimo Bray, Alle origini della Enciclopedia italiana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 68
Fulvio Coltorti, Big Firm, Quarto capitalismo… e gli amanti di Desdemona . . 76
Big versus Small, p. 77; Due motori, p. 79; Speculazioni, fallimenti, espatri, p. 82; Quale
futuro?, p. 83.
Sandro Rogari, Giovanni Spadolini uomo di Stato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 86
Paolo Bagnoli, Il futuro di Piero Gobetti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 96
Antonio zanfarino, Forme costituzionali di libertà . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 102
Ermanno Paccagnini, Di certe corse a scrivere: di critica; e di narrativa . . . . . . . 109
Grazia Deledda, Tipi e paesaggi sardi
a cura di Cosimo Ceccuti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 129
Stefano Folli, Diario politico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 163
Pietro Grossi, Passaggio all’età adulta, intervista a cura di Caterina Ceccuti . . 178
Arnold Esch, Il paesaggio della Ciociara di Moravia nella percezione
letteraria e militare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 183
Renzo Arbore, Totò, un rivoluzionario della risata . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 191
Enrico Ghidetti, Malattia, medicina e romanzo popolare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 198
Giuseppe Pennisi, Gioacchino Rossini, «arcitaliano» del secolo lungo . . . . . . . . 207
Premessa, p. 207; una vita difficile: da figlio di un banditore di provincia a grand bourgeois
del Secondo Impero, p. 209; Rossini e il territorio, p. 212; Rossini e le sue donne, p. 213;
Rossini e la religione, p. 216; Rossini e «i suoi diritti», p. 219; Rossini e gli stilemi musicali,
p. 221; Conclusione, p. 222.
Paolo Bonetti, La bioetica fra legislatori e giudici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 223
La supplenza dei giudici, p. 227; Bioetica cattolica e bioetica laica, p. 230.
Piera Detassis, Cannes Next/Flix . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 235
maurizio Naldini, Soldatini, soldati e soldataglie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 240
In ricordo di Giovanni Sartori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 248
Enzo Cheli, Intorno alla “democrazia possibile” di Giovanni Sartori . . . . . . 249
Gianfranco Pasquino, Sartori e la rilevanza della scienza politica . . . . . . . . . 253
Giuliano urbani, Le origini della scuola italiana di scienza politica . . . . . . . 261
Stefano Passigli, Rappresentanza o governabilità? Il nodo della riforma
elettorale in Italia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 267
S O m m A R I O
Rosario Altieri, La forza della cooperazione ieri ed oggi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 275
Bruno Quaranta, Arpino, randagio è l’eroe piemontese . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 285
Luigi Compagna, Quelli di Coblenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 293
Renzo Ricchi, Carlo Cassola: due incontri cinquant’anni fa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 300
Enza Biagini, Silvio Ramat: due letture . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 317
1. Elis Island. Poesie da un esilio. Carteggio 2011 con un’amica, p. 317; 2. La Dirimpettaia e
altri affanni o della provocazione dei titoli, p. 322.
marco Bortolotti, Burocrazia in controluce . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 328
Sauro Albisani, Cristina Campo: una poesia mistica e visionaria . . . . . . . . . . . . . 337
Sandro Rogari, Riflessioni sull’Europa a sessant’anni dai Trattati di Roma . . . 346
Angelo Costa, Attualità di Carducci a centodieci anni dalla morte . . . . . . . . . . . . 351
RASSEGNE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 369
Paola Paciscopi, Note sulla copia dal Perugino, dono ritrovato di Romaine Brooks a d’Annunzio,
p. 369; Pasquale Baldocci, I primi albori di un risveglio europeo, p. 371; Carlo
Cesare montani, Vita della Pietra. Francesco Petrarca: una sintesi di etica e di alta poesia,
p. 373; Adriano Bassi, Musica e spot, p. 375.
RECENSIONI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 378
Fulvio Janovitz, La pietra di identificazione. Memorie e ricordi (1938-1945), di Cosimo
Ceccuti, p. 378; Antonella Leonardi, Gli autori siciliani della “Nuova Antologia”, di Luigi
Compagna, p. 379; Sandro Rogari, Risorgimento e Italia liberale. Figure e momenti fra
Emilia, Romagna e Toscana, di Gabriele Paolini, p. 380; La Vergine e la Femme fatale.
L’eterno femminino nell’immaginario grafico del Simbolismo e dell’Art Nouveau, di maria
Donata Spadolini, p. 383; michele Brancale, Esodo in ombra, di Cosimo Ceccuti, p. 385;
Gabriella Alfieri, Verga, di Dora marchese, p. 387; Giorgio Battisti, Federica Saini Fasanotti,
Storia militare dell’Afghanistan. Dall’Impero dei Durrānī alla Resolute Support mission, di
Silvio Beretta, p. 388; Stefano zecchi, Paradiso occidente, di Carlo Cesare montani, p. 392.
L’avvisatore librario, di Aglaia Paoletti Langé . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 394

GIOACCHINO ROSSINI, «ARCITALIANO»
DEL SECOLO LUNGO
Premessa
La bibliografia relativa a Gioacchino Rossini è immensa, anche e soprattutto
grazie, negli ultimi trentasette anni, all’attività della Fondazione Rossini
e del Rossini Opera Festival (ROF). Numerosissime le biografie. un suo biografo,
ad esempio, fu il contemporaneo Stendhal, il quale assistette a rappresentazioni
di numerose sue opere (anche prime esecuzioni assolute) ed
era affascinato dalla sua musica. In tempi più recenti, ma prima della seconda
guerra mondiale e quando poche opere di Rossini erano rimaste in repertorio,
Giuseppe Radiciotti pubblicò un lavoro monumentale in tre volumi sul compositore.
Durante la seconda guerra mondiale, per i tipi della u.t.E.t. e
nella collana I Grandi Italiani, diretta da Luigi Federzoni, fu uno dei maggiori
romanzieri e drammaturghi dell’epoca, Riccardo Bacchelli, a narrare la vita
di Rossini. In tempi più recenti c’è stata una ricca fioritura americana sulle
orme di Philip Gossett e della sua scuola. Svela lati nuovi il volume del 2009
su Rossini, l’uomo, la musica di Giovanni Carli Ballola. Fondamentali, i due
volumi di Sergio Ragni Isabella Colbran – Isabella Rossini che riguardano
unicamente un aspetto della vita del compositore (la sua relazione con Isabella
Colbran, che divenne la sua prima moglie), ma includono un vastissimo
materiale d’archivio, altrimenti di difficile reperimento (epistolari, articoli
di giornale), che aiuta a comprendere «l’uomo» Rossini.
Questo articolo non intende aggiungere nulla a lavori di ben altro spessore
che devono essere letti per gustare a pieno la musica rossiniana oggi,
ma si propone di sottolineare le caratteristiche tutte italiane, anzi arcitaliane,
di un compositore e di un intellettuale che si mise in pensione a
trentasette anni e passò circa metà nella sua vita all’estero durante quello
che potrebbe essere chiamato «il secolo lungo» – il lasso di tempo che va
dalla rivoluzione francese alla prima guerra mondiale. Rossini nacque nel
1792 quando in Francia la rivoluzione era già in atto (anzi si stava avvicinando
termidoro e la fine del terrore) e morì nel 1868 (decenni prima
dei colpi di pistola a Sarajevo) ma quando già si stava entrando nella fase
dell’industrializzazione trionfante, stava nascendo la prima globalizzazione
(1870-1910), si stavano completando le unificazioni nazionali di Germania
e d’Italia, e due Imperi multinazionali (quello ottomano e la duplice monarchia
austro-ungarica) stavano scricchiolando.
Nell’articolo si faranno riferimenti a produzioni del ROF. Il ROF è
una vera eccezione nel mondo culturale italiano: non solo perché, lavorando
d’intesa con la Fondazione Rossini, ha riscoperto tante opere dimenticate
(quasi tutte le opere serie e semiserie) nonché alcuni capolavori considerati
perduti (come Il viaggio a Reims), ma in quanto «rende» all’Italia sotto il
profilo economico ed è un ottimo esempio di collaborazione fra pubblico
e privato. Non ha mai chiuso un bilancio in passivo e ha dato un contributo
importante alla comunità territoriale in quel lembo che tocca marche e
Romagna ed all’Italia, pur essendo nato come una piccola iniziativa finanziata
principalmente da enti e imprese a livello locale.
Gli effetti economici del ROF sulle attività produttive del litorale adriatico
negli anni di recessione si sono avvertiti in positivo in maniera significativa,
malgrado l’area abbia avuto una perdita di attività a ragione specificatamente
della crisi della Banca marche e delle difficoltà di imprese
industriali come la Berloni e la Indesit. Dai bilanci civilistici e dai bilanci
sociali nonché da uno studio degli impatti del ROF effettuato dall’università
di urbino emergono questi aspetti salienti: a) nel periodo del festival, il
fatturato del settore dei servizi di Pesaro aumenta di 11 milioni di euro. In
sintesi, contando l’indotto, un euro di contributo pubblico (al netto dei
rientri diretti agli enti previdenziali e all’erario) ne genera sette di valore
aggiunto a Pesaro e al suo hinterland; b) nell’arco degli ultimi otto anni i
costi complessivi della manifestazione sono diminuiti del 25% (da 6,6 a 5
milioni di euro) e il numero di dipendenti fissi è restato costante a 12 unità
(gli addetti raggiungono i 235 circa nelle settimane del festival). Dei 5
milioni circa di spese, gli oneri sociali (versati a ENPALS, INPS, ecc.) e le
imposte – in breve, il «rientro diretto all’erario» – ammontano a circa 600
milioni; c) la biglietteria porta incassi per un milione circa di euro (non ne
può portare di più a ragione della capacità fisica dei teatri); due terzi degli
spettatori sono stranieri molto fidelizzati. Gli sponsor privati – imprese,
banche, fondazioni – contribuiscono per circa un milione di euro l’anno.
Il resto proviene da Enti pubblici (Stato, Regione, Comune), da coproduzioni
e da vendite di allestimenti.
208 Giuseppe Pennisi
Inoltre il ROF è l’unico festival italiano che dal 2016 ha dato impulso
a Rossini in Wildbad (Belcanto Opera Festival), un festival di musica
lirica che si tiene in estate a Bad Wilbad, una stazione termale tedesca
nella Foresta Nera, dove nel 1856 Rossini ha trascorso un periodo di riposo.
Rossini in Wildbad ed il ROF hanno ciascuno la propria programmazione,
collaborano tra di loro. Invece, lo Spoleto Festival uSA, a Charleston
South Carolina, creato da Giancarlo menotti nel 1977, dal 1993 non
ha più alcun rapporto con il Festival dei Due mondi che si svolge nella
città umbra.
Dopo un paragrafo in cui si considererà succintamente la «arcitalianità»
di Rossini nei suoi rapporti con la politica del «secolo lungo», si esamineranno
alcuni aspetti tematici quali i suoi rapporti con il territorio, con le
donne, con la religione, con i «diritti» (quali quelli pensionistici e d’autore),
con l’evoluzione degli stilemi del teatro in musica.
Una vita difficile: da figlio di un banditore di provincia a grand bourgeois
del Secondo Impero
L’iconografia rossiniana – è sufficiente scorrere i ritratti riprodotti nei
manifesti del ROF in questi quaranta anni circa – lo mostrano bene in
carne e bon vivant, ove non gaudente. Le ricette culinarie, in libri di cucina
spesso a lui intitolati, rafforzano questa immagine. Essa, oltre tutto, si
inquadra benissimo con la forza ritmica, i crescendo travolgenti, il contrappunto
martellante delle sue opere, specialmente quelle a carattere comico
(Il barbiere di Siviglia e L’italiana in Algeri) rimaste sempre in repertorio
(pur se in versioni adattate ai gusti ed alle disponibilità di un’epoca, quella
del melodramma verdiano in cui i soprani anfibi ed i tenori «di grazia» ed
a registro alto, erano rari). tuttavia, per Rossini gli «anni facili» (per mutuare
il titolo di un famoso film di Luigi zampa) furono quelli dopo il definitivo
trasferimento a Parigi nel 1855, quando aveva superato i sessanta anni.
Prima di allora, la sua fu «una vita difficile» (per mutuare il titolo di un
altro film, questa volta di Dino Risi).
Anche se i suoi antenati erano di piccola nobiltà «papalina», la famiglia
era decaduta e viveva in ristrettezze finanziarie. Il padre suonava la tromba
ed il corno in bande locali, professione che comportava magri guadagni
che egli arrotondava facendo il banditore in fiere e mercati. Sua madre
cantava in teatrini di provincia. Il padre, romagnolo, simpatizzò con i francesi
e, al ritorno delle truppe del Papa Re, finì in prigione. Per alcuni anni,
quindi, Gioacchino bambino vagò con la madre da teatrino a teatrino della
Gioacchino Rossini, «arcitaliano» del secolo lungo 209
provincia marchigiano-romagnola. La famiglia si trasferì a Bologna, dove
il padre (soprannominato il «Vivazza», nomignolo eloquente) non era noto
alla locale polizia pontificia e Rossini iniziò gli studi musicali. Gioacchino
«aiutava la famiglia» sempre in bolletta: a nove anni suonava la viola al
teatro della Fortuna di Fano. Nel 1802 i Rossini si trasferiscono a Lugo di
Romagna, dove Gioacchino inizia a studiare composizione con la guida
del canonico don Giuseppe malerbi; compone le Sei sonate a quattro e,
per raggranellare qualche soldo, si esibisce come cantante a Imola, a Faenza
ed a Bologna, dove entra nel liceo musicale ed ha per la prima volta
un’istruzione formale. A questo periodo risalgono la sua prima opera,
Demetrio e Polibio, e due composizioni sacre. un paio di anni dopo, il
grande balzo con lo strepitoso successo de La cambiale di matrimonio a
Venezia. L’esito gli porta scritture a Venezia, Ferrara ed anche alla Scala.
Iniziano, però, anche «gli anni di galera», un periodo in cui le composizioni,
soprattutto per teatri dell’Italia centro-settentrionale, si susseguono
l’una dopo l’altra in modo incessante e defatigante. Questa fase che durerà
sino al 1819 (Carli Ballola considera, correttamente, Bianca e Falliero come
ultima opera di questa fase della vita musicale del compositore) in cui,
pressato da committenti, Rossini metteva insieme anche centoni costruiti
su arie, brani, sinfonie di opere precedentemente presentate in altri teatri
(come Ivanhoé ed Adelaide di Borgogna) e per la stanchezza non riusciva
a portare a termine gli incarichi nei tempi contrattualmente stabiliti (il caso
più noto è quello di Otello ossia il Moro di Venezia, Napoli, 1816, lo stesso
anno di Almaviva ossia L’inutile precauzione, successivamente intitolato Il
barbiere di Siviglia). Si manifesta una «prima crisi di insicurezza e disagio»
(come la chiama, con precisione, Bruno Cagli), un anticipo (a ventiquattro
anni!) dei problemi nervosi, ipocondria e periodi di depressione che lo
accompagneranno sino ai sessanta anni e che verosimilmente provocheranno
sia il suo abbandono dalla composizione per il teatro lirico a soli trentasette
anni (dopo avere composto una quarantina di opere in poco più di quindici
anni) ed i suoi rapporti con la politica del «secolo lungo».
Figlio di un anarchico e cresciuto in un ambiente dove le pulsioni rivoluzionarie
del padre si alternavano con docenze impartite da «canonici» e
dal rigoroso liceo musicale di Bologna, a differenza di altri compositori
dell’Ottocento, Rossini non fu mai interessato dalla politica militante, ma
si trovò inevitabilmente coinvolto nelle vicende della fase storica in cui
viveva. In un articolo precedente per «Nuova Antologia» (G. Pennisi, Rossini
patriota, ma a distanza CXLVI, «Nuova Antologia», 2259, luglio-settembre
2011) si è sottolineato come Rossini, pur non partecipando attivamente
al movimento di unità nazionale e non avendo nel suo catalogo
210 Giuseppe Pennisi
lavori chiaramente militanti (come La battaglia di Legnano di Giuseppe
Verdi, concepita espressamente per la mazziniana Repubblica Romana)
non restò affatto freddo agli avvenimenti del suo tempo. La grande aria
Pensa alla Patria de L’italiana in Algeri (del 1813) ne fanno quasi un precursore.
È noto, poi, che nel suo salotto a Passy si incontravano anche italiani
fuorusciti o quasi.
I suoi lavori, però, sembrano quasi fatti per essere graditi dai «poteri
costituiti» di turno. I primi sono le quattro cantate composte su invito del
Principe metternich nel dicembre 1822 per il Congresso delle Nazioni a
Verona: La Santa Alleanza, Il vero omaggio, L’augurio felice, Il Bardo.
tutte ispirate ai principi della Restaurazione dopo la battaglia di Waterloo
e la morte di Napoleone a Sant’Elena. Due anni dopo, a Londra, compone,
e canta anche una parte, Il pianto delle Muse in morte di Lord Byron, una
cantata densa di fremiti liberali (per i greci, e gli intellettuali europei corsi
in loro aiuto, contro l’Impero Ottomano). tema che riprende ed espande
in Le siège de Corinthe, composto nel 1826 per l’Académie Royale de
musique parigina riprendendo gran parte della musica di quel capolavoro
assoluto (in anticipo sui tempi) che è Maometto Secondo, opera che al
San Carlo aveva retto una unica rappresentazione e poche di più a La
Fenice (nonostante il finale fosse stato cambiato prendendo in prestito
quello de La donna del lago). Attenzione, appena un anno prima, sempre
a Parigi ma al théâtre des Italiens, aveva realizzato Il viaggio a Reims
ossia l’albergo del Giglio d’Oro, vera e propria esaltazione di quel Carlo X
che è stato probabilmente il più Re restauratore dei Re restauratori.
Lasciamo da parte la cantata Giovanna d’Arco, un omaggio alla Francia
ed alla sua seconda moglie, Olympe Pélissier. I temi politici tornano dopo
diversi anni, nel 1847, con la Cantata del Sommo Pontefice Pio Nono,
eseguita a Roma in Campidoglio. Il Papa mastai Ferretti per un breve
periodo fece sognare gli intellettuali liberali (prima che, cacciato da Roma
con la Repubblica Romana, il vento non cambiasse). È a questa figura di
Pontefice ritenuto aperto ai nuovi tempi che è rivolta la cantata.
I moti del 1848 trovano Rossini a Bologna, ben rintanato in casa ed
assediato quasi dai «rivoluzionari» che in lui vedono un cantore della conservazione.
tra una crisi di nervi e l’altra, viene convinto da ugo Bassi a
comporre (solo le parti vocali) del Coro della Guardia Civica di Bologna,
un inno quasi repubblicano.
Passa quasi un ventennio e nel 1867, un anno prima della morte, al
Palais de l’Industrie a Parigi viene intonata l’ultima composizione politica
di Rossini l’Hymne à Napoléon III et à son vaillant peuple. una vera e
propria esaltazione del potere imperiale.
Gioacchino Rossini, «arcitaliano» del secolo lungo 211
un «voltagabbana»? Oppure essenzialmente un conservatore che, nel
«secolo lungo», non vuole mettersi di traverso ai poteri costituiti cambiando
anche lui man mano che essi cambiano volto e colore? Da figlio del Vivazza
a borghese ricchissimo era sempre sostenuto dai poteri di turno, che Rossini
ricambiava con la sua arte e professione. Sono indubbiamente atteggiamenti
universali, ma che in Italia sono specialmente frequenti.
Rossini e il territorio
Ci fu sorpresa all’apertura del testamento di Rossini quando si lesse:
«Quale erede della proprietà nomino il comune di Pesaro, mia Patria, per
fondare e dotare un liceo musicale in quella città dopo la morte di mia
moglie. Proibisco alla magistratura od ai rappresentanti comunali della
detta città ogni specie di controllo o d’intervenzione nella mia eredità,
volendo che mia moglie ne goda in tutta ed assoluta libertà, e non volendo
nemmeno ch’essa dia una cauzione o sia obbligata a fare un impiego speciale
dei beni che lascerò dopo di me e dei quali le lego con usufrutto».
Venivano previsti legati per famigliari rimasti a Pesaro (o trasferitisi a Bologna),
nonché pensioni per coloro che erano stati al suo servizio. C’erano
anche disposizioni dettagliate per assicurare che la sua seconda moglie,
Olympe Pélissier, la quale gli sopravvisse di circa dieci anni, potesse vivere
in agiatezza per il resto della sua esistenza.
Rossini, in effetti, aveva lasciato Pesaro e l’hinterland marchigianoromagnolo.
Vi era tornato unicamente all’inizio dell’estate del 1818 per
l’inaugurazione di quello che allora ebbe il nome di teatro Nuovo (10 giugno),
oggi teatro Rossini; lui stesso concertò l’opera inaugurale La gazza
ladra. Non si ha contezza di altre visite alla sua città natale, chiamata
«Patria» nel testamento. Lo scopo, poi, dell’eredità era specifico: la creazione
di un liceo musicale, oggi il conservatorio.
Dati i tempi ed i costi delle comunicazioni all’epoca, non deve essere
stato facile tenersi in contatto tra Parigi e Bologna ma Rossini mantenne
un epistolario con uno zio materno e due cugini residenti a Pesaro ed una
zia materna che abitava a Bologna. tutti e quattro vengono menzionati
all’inizio del testamento in quanto beneficiari dei suoi legati, sola ed unica
volontà da pagare subito dopo la morte. Ciò indica che quasi con caparbietà,
Rossini, nonostante la sua salute diventata sempre più malferma,
era riuscito a corrispondere con una certa assiduità con i parenti rimasti a
Pesaro (ed a Bologna) e, quindi, con il proprio territorio di origine.
A mio avviso, anche se non ci sono opere o composizioni specifiche
212 Giuseppe Pennisi
dedicate al pesarese, la dimostrazione forse più chiara si ha raffrontando
due opere ambedue tratte da romanzi di Walter Scott ed ambedue presentate
in prima assoluta al San Carlo di Napoli (anche se a sedici anni di differenza
l’una dall’altra): La donna del lago del pesarese (1819) e Lucia di
Lammermoor (1835) di Gaetano Donizetti. La seconda è chiaramente e
decisamente un melodramma romantico che prelude gli stilemi verdiani,
già dalla struttura del libretto in tre atti. La prima è, invece, una opera
seria in due atti con finale serio (ripreso, come si accennato, nella seconda
versione di Maometto Secondo per La Fenice). Sono profondamente differenti:
basti pensare alla presenza di due tenori (ciascuno con un registro
differente), di un mezzo-soprano o contralto en travesti per il ruolo del
«giovane amoroso», nonché di un soprano «anfibio» (in grado quindi di
arrivare a registri sia altissimi sia bassissimi) come protagonisti de La
donna del lago. La vocalità de Lucia di Lammermoor, pur con una fortissima
dose di coloratura nella scena della pazzia, si approssima molto a
quella dei canoni verdiani. Nei momenti orchestrali descrittivi (non pochi
in ambedue le opere) in Lucia di Lammermoor si evoca la Scozia anche
negli strumenti utilizzati (come la glassarmonica) e nelle tinte cupe dell’orchestrazione,
una Scozia che il compositore non credo abbia mai visitato:
lo mostra il fascino della messinscena firmata da Graham Vick (creata
per Firenze nel 1996 ma vista in numerosi teatri), con le splendide scene e
costumi di Paul Brown che evocano, inquadrandola in rigorose geometrie,
la romantica ambientazione scozzese delle lande di erica in fiore e delle
faide spietate tra clan. Nonostante si svolga sia nelle Highlands scozzesi
primordiali in un periodo di lotte tra clan, invece, in La donna del lago i
«presagi romantici» delle parti strumentali sembrano evocare dolci colline,
quali quelli del pesarese e dell’urbinate. un ricordo nostalgico, forse, di
un concittadino che la vita aveva portato lontano. ma che si sarebbe ricordato
del «territorio» natale sempre e soprattutto quando si apprestava a
lasciare la propria avventura terrena. Sentimenti molto italiani.
Rossini e le sue donne
A differenza di numerosi giovani musicisti dell’epoca (quali mozart,
Bellini e Donizetti, i quali furono notori per una prassi che fu una delle
cause della loro precoce morte, determinata da indebolimento di difese
immunitarie dovuto da malattie veneree), Gioacchino Rossini non sembra
essere mai stato un assiduo frequentatore di case di tolleranza. Probabilmente,
tra le ragioni occorre includere la formazione religiosa e soprattutto
Gioacchino Rossini, «arcitaliano» del secolo lungo 213
il defatigante lavoro negli «anni di galera». Durante questo periodo, iniziò
il suo sodalizio con Isabella Colbran, «primadonna assoluta dei Reali teatri
di Napoli», protagonista dei debutti di quasi tutte le sue opere napoletane
da Elisabetta regina d’Inghilterra del 1815 a Zelmira nel 1822, nonché di
Semiramide composta per Venezia nel 1823.
Rossini nutriva per il soprano spagnolo, di sette anni più anziano di
lui, una passione intensa. Quando il compositore (poco più che ventitreenne)
si trasferì a Napoli, Isabella Colbran era l’amante dell’impresario
Domenico Barbaja, allora alla guida dei teatri Reali di Napoli. Per alcuni
anni, ci fu in effetti un ménage à trois tra soprano, impresario e compositore,
oltre ad una proficua collaborazione artistica. Quando tale collaborazione
stava per giungere al termine, le nozze vennero organizzate in
fretta e furia il 16 marzo 1822 alla presenza dei genitori di lui, del parroco
don marino e di un mezzadro, capitato lì come testimone, nel Santuario
della Beata Vergine del Pilar a Castenaso nei pressi di Bologna dove la
cantante aveva una villa e vaste proprietà terriere (ereditate dal padre deceduto
nel 1820). La villa di Castenaso fu sempre di proprietà di Isabella
Colbran, anche se l’atto di acquisto fu effettuato dal padre. La villa fu
acquistata con i soldi di Isabella e a lei fu intestata. Con il matrimonio Isabella
inglobò nella dote a favore del marito tutte le sue proprietà che di
fatto furono sempre e solo gestite da Rossini. In queste deve comprendersi
la villa di Castenaso. All’atto della separazione Rossini accordò alla moglie,
oltre all’appannaggio mensile di 150 scudi, l’uso esclusivo della villa di
Castenaso. morta Isabella, Rossini dovette corrispondere agli eredi della
moglie (la sorella Gaspara e congiunti) anche una quota relativa alla proprietà
di Castenaso.
tranne un periodo parigino con il marito, lì Isabella visse sino alla
morte nel 1847 a sessanta anni. Isabella Colbran fu una grande cantante,
ammirata da Stendhal e interprete capace di infondere passione e intensità
drammatica nel suo canto, nonché autrice di quattro raccolte di canzoni.
Gli specialisti di voci hanno discusso a lungo sulle caratteristiche specifiche
della sua vocalità. Come per numerose cantanti, probabilmente la vocalità
cambiò al passare degli anni. Lo si deduce dal fatto che Rossini compose
parti sempre più tendenti al grave per lei: in La donna del lago, Maometto
Secondo, Zelmira e Semiramide non si oltrepassa il «si» mentre in Elisabetta
regina d’Inghilterra ed altri ruoli della prima fase del loro sodalizio
(Otello, Armida, Ermione) la faceva svettare in «do» acuti.
Dopo l’insuccesso di Semiramide a Venezia, decise di abbandonare le
scene e si trasferì a Parigi con il marito. Amava il gioco d’azzardo e la vita
dispendiosa dell’alta società parigina, mentre Gioacchino, le cui crisi psi-
214 Giuseppe Pennisi
cofisiche diventavano sempre più frequenti e i cui tempi di composizione
erano sempre più lenti, richiedeva un’esistenza tranquilla. Le sue perdite
al tavolo verde erano, ovviamente, mal sopportate dalla famiglia del compositore,
anche perché a poco a poco avevano divorato l’eredità paterna.
La convivenza con Rossini era diventata sempre più difficile. Si giunse ad
una separazione legale, a Bologna, nel 1837. Isabella morì povera e in solitudine
dopo una breve malattia. E Gioacchino, per quanto legato ad un’altra
donna da anni, ne fu sconvolto ed addoloratissimo. Segno che la passione
giovanile era sempre viva.
La seconda moglie di Rossini (le nozze vennero celebrate un anno
dopo la morte della Colbran), Olympe Pélissier, non veniva dal mondo
artistico (anche se si cimentò con il canto). Era nata a Parigi il 9 maggio
1799 da una famiglia indigente. Fu venduta da sua madre a quindici anni
a un giovane aristocratico il quale, messo fuori gioco da una malattia venerea,
la rivendette a un ricco americano. Debuttò giovane nel demi-monde
parigino, quello descritto nella La dame aux camélias di Alexandre Dumas
figlio, e ne La Traviata di Giuseppe Verdi. Fu l’amante del pittore Horace
Vernet (per il quale posò per la Giuditta e Oloferne in cui compariva a
seno nudo, ritratta poco prima che con la spada decapitasse Oloferne),
degli scrittori Eugène Sue e Honoré de Balzac. Con quest’ultimo ebbe solo
una rapida relazione che lo lasciò pieno di risentimenti. Qualche anno
dopo Balzac la definirà «una cortigiana cattiva». Fu più duraturo il rapporto
con Sue che ebbe inizio nel 1831. La Pélissier lo tradiva spesso e la loro
relazione fu un’altalena di frequenti litigi e forti passioni.
La relazione tra i due finì quando Olympe conobbe Gioacchino Rossini.
In quel periodo era stata corteggiata anche da Vincenzo Bellini ma la cortigiana,
che aveva ormai superato i trent’anni, era una donna matura, non
adatta a quel giovane musicista, grande frequentatore, come si è detto, di
case di tolleranza. Era invece Rossini il compagno perfetto. La coppia
rimase a Parigi fin quando un’epidemia di colera non li costrinse ad abbandonare
la città in favore dell’Italia. Si trasferirono a Bologna ove la Pélissier
conobbe Isabella Colbran. Stranamente le due donne si trovarono in sintonia
ma il loro legame durò poco, presto le strade si sarebbero divise.
Olympe si sentiva soffocare a Bologna e faceva pressione sul compagno
affinché si trasferissero. Per un periodo vissero a milano dove Olimpia,
come veniva chiamata in Italia, fu subito al centro di indimenticabili serate
musicali ma la posizione sociale della cortigiana, compagna ma non sposa
del compositore di rango e fama, restava discutibile nella società lombarda
(come sarebbe avvenuto anni dopo per Giuseppe Verdi e Giuseppina Strepponi).
Persino marie d’Agoult che per seguire il musicista Liszt aveva
Gioacchino Rossini, «arcitaliano» del secolo lungo 215
abbandonato il marito, si mostrava scettica: Rossini ha passato l’inverno
a Milano con Mademoiselle Pélissier e ha tentato di imporla in società,
ma nessuna signora di livello l’ha frequentata. tuttavia, tra i due era nato
un amore profondo e ella si dedicava anima e corpo ad alleviare, ove non
curare, le depressioni del compagno.
undici mesi dopo la morte di Isabella, i due convolarono a nozze. Vissero
per un periodo a Firenze dove la Pélissier si trovava bene ma poi,
preoccupata per le sempre più frequenti e più forti crisi del marito, decise
di rientrare a Parigi. Qui visse con il compositore in un lussuoso appartamento
nel cui salotto sedevano i più grandi, da Dumas a Delacroix, da
Liszt a Verdi. Quando Rossini morì, Olympe, che non lo abbandonò mai
durante la malattia (un dolorosissimo tumore al retto) e l’agonia, accettò
che le sue spoglie fossero trasferite nella chiesa di Santa Croce a Firenze;
nel suo testamento invece scrisse: «Desidero che il mio corpo sia inumato
nel cimitero del Père-Lachaise. Quando la salma di mio marito sarà trasferita
a Firenze io rimarrò lì, da sola. Faccio questo sacrificio con assoluta
umiltà, sono stata già glorificata abbastanza dal nome che porto».
Due sole, quindi, le donne di Rossini. molti differenti da lui per ceto
sociale ed esperienze precedenti alle loro relazioni, che furono ambedue
contrassegnate da fedeltà e forte intesa. Per molti aspetti fu un marito due
volte ed in ambedue i casi ideale.
Rossini e la religione
Il «secolo lungo», a differenza dei due precedenti e del Novecento, non
si è distinto particolarmente per la produzione di musica sacra o di «musica
dello spirito», specialmente in Italia ed in Francia. In Italia, la «questione
romana» colorava la politica e la vita intellettuale; lo stesso Verdi, per
quanto autore di una incomparabile Messa e di alcuni Pezzi sacri, perse la
Fede dopo la morte della prima moglie e dei figli e fu per il resto della vita
un «ateo devoto» pur se dubbioso. In Francia, il «secolo lungo» si era aperto
con l’esaltazione della Dea Ragione, che sostituiva religioni ritenute, a torto
ed a ragione, reazionarie e si chiuse con i prodromi della laicité dello Stato
e della vita pubblica, e, dunque, anche di quella intellettuale.
Pur se quel poco che si sa della vita interiore di Rossini è nel suo epistolario
(dove poco si tratta di religione), i suoi lavori mostrano una continuità
di attenzione alla musica sacra. Nonostante fosse figlio del Vivazza,
crebbe in un ambiente cattolico, con un sacerdote, Stanislao mattei, come
suo principale docente al Liceo musicale di Bologna. uno dei suoi primi
216 Giuseppe Pennisi
ruoli, a quattordici anni (prima del cambiamento di voce), fu quello (da
contralto) di maria maddalena nell’oratorio La Passione di Cristo proprio
di mattei. A sedici anni compose due Messe, una per Ravenna ed una per
milano; gliene è stata attribuita una terza, per Rimini, che è stato accertato
non essere di sua mano. Nel 1820, a Napoli presentò, nella chiesa di San
Ferdinando (proprio di fronte al teatro San Carlo) una spettacolare Messa
di Gloria, composta mentre iniziavano le sue crisi depressive; purtroppo è
poco eseguita perché offuscata da due veri capolavori di musica sacra da
lui creati nella seconda parte della sua vita: lo Stabat Mater e la Petite
messe solennelle.
Nelle opere per il teatro, solo l’azione tragico-sacra Mosè in Egitto
composta per la Quaresima del 1818 può iscriversi ad un catalogo di musica
dello spirito. L’opera è stata presentata in due edizioni al ROF: nel 1985
(e ripresa più volte a Pesaro ed altrove) con la regia di Pier Luigi Pizzi ed
un cast stellare e nel 2011, con la regia di Graham Vick ed un buon cast.
Nonostante la seconda versione abbia ricevuto il Premio Abbiati (l’Oscar
della lirica italiana), ho apprezzato molto di più la elegante prima edizione.
mi sono sentito a disagio in un’attualizzazione in cui mosè viene presentato
come un terrorista palestinese, Eterno, immenso, incomprensibile Dio!
diventa quasi un inno di battaglia e il coro finale Dal tuo stellato soglio
per l’apertura delle acque del mar Rosso (un coro, aggiunto per una ripresa
nel 1819 ed intonato da tutti i presenti quando nel 1887 la salma di Rossini
venne traslata a Santa Croce a Firenze) viene cantato nei cunicoli della
striscia di Gaza. Nel 2007 è anche circolata una buona edizione prodotta
dall’ente lirico-sinfonico di Sassari. Ci sono, però, elementi di musica dello
spirito (preghiere, cori) in numerose altre opere, specialmente «serie» o
«semi-serie» (come La gazza ladra, Adelaide di Borgogna, Maometto Secondo,
e soprattutto Guillaume Tell).
I due capolavori arrivarono tardi. Ed il primo a rate. È lo Stabat Mater
che ho avuto la fortuna di ascoltare più volte al ROF (è in programma
quasi ogni anno) con la bacchetta di diversi direttori. Il lavoro nacque
quasi per una ragione contrattuale. Da un canto, Rossini aveva con l’Académie
Royale un impegno di esclusiva per la lirica. Da un altro, nel 1831,
era in piena crisi depressiva e sfibrato dalla composizione del Guillaume
Tell. Da un terzo, un prelato spagnolo don manuel Fernández Varela desiderava
possedere un manoscritto del compositore e lo pregò di accontentarlo.
Rossini, che ben conosceva l’adattamento del capolavoro pergolesiano
sullo stesso testo, non volendo deludere padre Varela, cedette alle sue insistenze
e incominciò la stesura, venendo ricambiato da questi con un dono.
In effetti, non è mai stato ritrovato un atto di vendita comprovante l’ac-
Gioacchino Rossini, «arcitaliano» del secolo lungo 217
quisto dell’opera, dato che lo stesso Rossini, con l’assenso del Varela,
stabilì che la partitura non sarebbe mai stata pubblicata, essendo anch’essa
un dono personale. La stesura dello Stabat Mater si fermò a causa di una
dolorosa lombaggine sofferta in quel periodo dal musicista, ed a ragione
della sua probabile scarsa motivazione nell’affrontarne la composizione.
La partitura venne quindi ceduta al musicista Giovanni tadolini, suo amico,
il quale avrebbe ultimato il lavoro a scapito dell’ignaro padre Varela. Il
lavoro venne eseguito a madrid nel 1833 su interessamento del committente.
Nel 2011 il direttore d’orchestra italiano, Antonino Fogliani, ha
orchestrato i sette numeri (la cui versione orchestrale era andata perduta)
che tadolini aveva composto per la prima esecuzione dello Stabat Mater a
madrid, proponendoli lo stesso anno in prima esecuzione nell’ambito del
Festival in Wilbad.
Nel 1837 padre Varela morì, ed a quattro anni di distanza dalla sua
prima rappresentazione, la partitura dello Stabat Mater venne ritrovata
dall’editore musicale francese Aulagnier. Egli chiese a Rossini il permesso
di poterla dare alle stampe, ma il musicista si oppose vietandone anche
l’esecuzione. Alla fine Rossini completò la stesura dell’opera e la diede
alle stampe con l’editore troupenas. Nel 1842, la prima parigina fu molto
favorevole e ne seguì una prima italiana all’Archiginnasio di Bologna.
L’opera è molto ricca nell’inventiva e nella struttura armonica. Si articola
in dieci sezioni che culminano con un Amen, in sempiterna in stile fugato.
È densa di teatralità ed ha meno misticismo di quella di Pergolesi.
Il secondo è la Petite messe solennelle composta nel 1863, cinque anni
prima della sua morte ed ultimo «peccato di vecchiaia», come il compositore
amava definire i suoi lavori di età anziana. Capolavoro nuovo, quasi azzardato
per anni in cui imperava il romanticismo, con la sua melodia: esso
anticipa i tempi della musica del Novecento e dà nuovi indirizzi estetici.
La Petite messe solennelle fu scritta per dodici cantanti, di cui quattro
solisti, due pianoforti ed un armonium. Rossini la volle anche orchestrare
nel 1867. A mio avviso la prima versione è la più innovativa.
Dopo che il lavoro fu terminato, Rossini scrisse nel manoscritto in
calce all’Agnus Dei: «Buon Dio, eccola terminata questa umile piccola
messa. È musica benedetta quella che ho appena fatto, o è solo della benedetta
musica? Ero nato per l’opera buffa, Lo sai bene! Poca scienza, un
poco di cuore, tutto qua. Sii benedetto e concedimi il Paradiso».
un vero e proprio testamento spirituale di un credente.
L’ho ascoltata innumerevoli volte. Le più belle sono state nel piccolo
festival che il musicista salisburghese Gustav Kuhn ha organizzato per
alcuni anni, in primavera, nella sua residenza italiana, il Convento del-
218 Giuseppe Pennisi
l’Angelo in Garfagnana, da lui preso in fitto a vita dai Padri Passionisti. Al
festival invitava i propri amici per tre intense giornate di musica classica e
contemporanea in occasione del compleanno della moglie. Il festival si
concludeva ogni anno con una Petite messe solennelle, officiata da un
Padre passionista e con giovani interpreti di tutto il mondo, alcuni di loro
oggi famosissimi, nella cappella prospiciente la valle della Lucchesia.
Rossini e «i suoi diritti»
Quando Rossini cominciò a lavorare ed avere le sue opere rappresentate
nei teatri italiani, la normativa sui «diritti d’autore» stava evolvendo
negli Stati della Penisola italiana, considerata dai più una mera «espressione
geografica», come la avrebbe chiamata metternich al Congresso di Vienna.
una normativa, importata dalla Francia napoleonica, esistette in quella
parte allora chiamata Repubblica Cisalpina dal 1801. Si modellarono su
questa normativa il Regno delle Due Sicilie nel 1811 e lo Stato Pontificio
nel 1826. La convenzione sui diritti d’autore austro-sarda del 1840 (a cui
aderirono quasi tutti gli Stati della Penisola). Occorre sottolineare che unicamente
la normativa del Regno delle Due Sicilie era tarata agli spettacoli
dal vivo; tuttavia era difficile monitorare l’applicazione della brutta prassi
di impresari e gestori di teatri (specialmente d’opera) di modificare organici
orchestrali, vocali, tagliare brani ed introdurne altri di autori differenti.
Alcune di queste prassi sono diventate di tradizione: ad esempio, sino agli
anni Sessanta del Novecento ne Il barbiere di Siviglia, opera che restò
sempre in repertorio, il ruolo di Rosina veniva affidato ad un soprano lirico-
leggero (non ad un mezzo-soprano od anche contralto per cui era stato
scritto) e l’aria finale del tenore Cessa di più resistere veniva tagliata.
Per diversi anni, Rossini lavorava con scritture e contratti in base ai
quali la proprietà dell’opera restava al teatro o all’impresario che la aveva
commissionata. Non pare che si curasse eccessivamente degli «adattamenti»
da lui non autorizzati in riprese od in altri teatri. In effetti, fu essenzialmente
Giuseppe Verdi, con il supporto di Casa Ricordi, che si adoperò per una
normativa organica che tentasse di impedire il malcostume di modificare
(tagliando, aggiungendo, interpolando) opere liriche quando venivano
riprese o rappresentate in altre città.
Per diversi anni, Rossini venne anche pagato poco. Stendhal sottolineò
che, nella prima fase del suo periodo napoletano, i suoi cachet erano la
metà di quelli che a Parigi prendeva Feydeau. Propose che venisse invitato
in Francia: a Rue Pellettier (sede, con diversi nomi, dell’Opéra dal 1821 al
Gioacchino Rossini, «arcitaliano» del secolo lungo 219
1873 quando venne distrutta da un incendio) – scrisse nelle sue memorie
– l’accoppiata Feydeau per i testi (di opere comiche) e Rossini per la
musica avrebbero fatto faville e portato incassi sbalorditivi.
man mano che passarono gli anni, Rossini si smaliziò e chiese onorari
più consistenti a Barbaja. Il suo capolavoro fu il contratto concluso nel 1824
con l’Académie Royale de musique, parte integrante del perimetro della
pubblica amministrazione del Regno. Prevedeva un’«esclusiva» per le future
composizioni di opera lirica (poteva comporre opere per altri dopo una speciale
procedura di autorizzazione) sino a quando ne avesse avuto la vena,
uno stipendio annuo di 6.000 franchi da convertire in pensione quando non
avesse più potuto comporre per la scena lirica) e l’obbligo di produrre un’opera
nuova ogni due anni dietro un compenso aggiuntivo di 15.000 franchi.
L’interpretazione (riconosciuta corretta dalla Corte di Cassazione dopo
una lunga vertenza giudiziaria) fu tanto lasca, e molto «arcitaliana» da
ricordare i film di Steno con totò o Sordi come protagonisti.
In primo luogo, venne subito autorizzato a comporre una cantata scenica
(Il viaggio a Reims) per il théâtre des Italiens in occasione delle celebrazioni
per l’incoronazione di Carlo X. In secondo luogo, le prime tre
opere composte in osservanza del contratto non erano originali ma rifacimenti
ed adattamenti al gusto francese: Le siège de Corinthe di quel Maometto
Secondo che (in grande anticipo sui tempi) non aveva avuto alcuna
fortuna a Napoli e pochissima a Venezia, Moïse et Pharaon adattamento
del Mosè in Egitto e Le comte Ory dove trasfuse oltre la metà della musica
de Il viaggio a Reims, che era stato eseguito solo tre sere in un teatro frequentato
prevalentemente dagli italiani residenti a Parigi. All’epoca, le
comunicazioni erano tali che a Parigi pochi sapevano cosa, anni prima,
era stato messo in scena a Napoli ed a Venezia.
Nel 1829, ultimo capolavoro per l’Académie Royale de musique, quel
Guillaume Tell (altra opera che in versioni scorciate e, se del caso, tradotte
restò sempre in repertorio, in Francia, Italia e Germania in tutto l’Ottocento).
Sfibrato, dopo il Guillaume Tell, ed alle prese con una depressione
che sarebbe stata la più grave e la più lunga della sua vita, inviò, per così
dire un «certificato medico» per documentare che non avrebbe potuto
ottemperare alla stesura di una nuova opera, come previsto dal contratto.
Pochi mesi dopo, con la rivoluzione del 1830 (quella descritta ne Les misérables
di Victor Hugo), in Francia cambiò regime: iniziarono i diciotto
anni di regno di Louis Philippe. Il nuovo Governo non aveva alcuna intenzione
di proseguire con l’attuazione di un contratto oneroso e che aveva
avuto nei primi anni un’applicazione un po’ lasca. Rossini, che dopo Guillaume
Tell era andato in Italia per un periodo di riposo, tornò in Francia
220 Giuseppe Pennisi
per seguire la vertenza legale e per tentare di ricucire con Isabella, e vi
resto sino al 1836, prestando consulenza gratuita a Carlo Severini, régisseur
del théâtre des Italiens dove portò, ad esempio, Bellini, Donizetti e mercadante.
La vertenza si concluse con la vittoria di Rossini alla Corte di
Cassazione. Proto-babypensionato dall’età di 37 anni, poté godere nella
seconda parte della vita di una lauta pensione e di «diritti d’autore» per i
titoli rimasti in repertorio (Il barbiere di Siviglia, L’italiana in Algeri, Semiramide,
Guillaume Tell) durante il romanticismo ed il verismo.
Rossini e gli stilemi musicali
In questo articolo si è posto l’accento su Rossini uomo e si sono fatti,
quindi, pochi cenni al Rossini musicista. Nel concludere un cenno a come
innovò nel «secolo lungo» e fu un precursore di forme teatrali e musicali
che si svilupparono decenni più tardi. Si è detto che il suo ultimo lavoro
di ampio respiro, la Petite messe solennelle, supera gli stilemi della musica
romantica e sfiora quelli che divennero abituali nel Novecento Storico. In
questo cenno, mi soffermo su tre esempi: le «farse giovanili», Maometto
Secondo e Guillaume Tell.
Nelle «farse» nonché in La pietra del paragone e ne Il turco in Italia,
Rossini avrebbe potuto basarsi su modelli settecenteschi quali i numerosi
lavori di Paisiello e di Cimarosa. In effetti, i libretti delle «farse» hanno
ancora molto di settecentesco, ma con la musica rossiniana acquistano un
colore ed un calore differente: al pari delle migliori commedie goldoniane
anticipano la commedia borghese che avrà la sua età d’oro tra fine Ottocento
ed inizio Novecento. Il turco in Italia, con i suoi ammiccamenti erotici e
delizie colme di allusioni (quali «la scena del caffè»), è una commedia per
adulti od una pièce boulevardière. Ne La pietra del paragone, la pièce boulevardière
e la chit chat opera (opera basata sul chiacchiericcio come Capriccio
di Richard Strauss (prima assoluta 28 ottobre 1942), la commedia borghese
sfiora il surreale. Intelligenti numerosi allestimenti del ROF che
aggiornano le «farse», La pietra del paragone e Il turco in Italia ad epoche
più vicine al teatro dei nostri giorni. Geniale quello del 2009 de La scala di
seta curato da Damiano michieletto e dalla sua squadra. uno specchio domina
l’impianto scenico: è essenziale per mostrare, dall’alto, i vari locali di un
appartamento odierno in cui si svolge la vicenda basata su intrighi tra due
coppie e un burbero tutore con lieto fine per tutti. È una regia imperniata
su un concetto forte, con una recitazione accurata, una scena unica che dà
l’impressione di muoversi tra almeno cinque locali differenti. L’andamento
Gioacchino Rossini, «arcitaliano» del secolo lungo 221
è veloce e spigliato, interrotto unicamente da un breve intervallo. Ci si
diverte dall’inizio alla fine e si esce dal teatro contenti e lieti di concludere
la serata con un piatto di strozzapreti in una delle osterie dei paraggi.
Maometto Secondo nella prima versione – quella che a Napoli resse il
palcoscenico una sera sola – anticipa di decenni gli stilemi musicali e per
questo motivo non venne compreso. Più blanda la seconda versione, per
Venezia, con un lieto fine ed un rondò come allora richiesto per un’opera
seria, resistette alcune sere. Adatta al gusto francese, infarcita di balletti,
la terza edizione, Le siège de Corinthe, un successo strepitoso, anche per
ragioni politiche (il supporto di volontari europei alla guerra di liberazione
della Grecia dall’Impero Ottomano). Soffermiamoci sulla prima versione.
Correttamente chiamata da Carli Ballola La sinfonia eroica di Rossini, è
costruita su grandi blocchi (il primo atto ha solo cinque numeri musicali)
quali si ritroveranno in Wagner e nel tardo romanticismo post-wagneriani,
ed una orchestra densa di ombreggiature armoniche e cromatismi diffusi.
Il ROF ne ha prodotto due edizioni, differenti ma ambedue eccelse.
Con Guillaume Tell, Rossini si è proposto di abbracciare il grand opéra,
allora di gran moda in Francia, e di superarlo andando verso nuovi orizzonti.
E vi andò. un’esegesi sarebbe troppo lunga. Basta ricordare che nel
colloquio che ebbe con Wagner disse: «Così maestro avrei fatto della
musica dell’avvenire senza saperlo?»
ma quale «musica dell’avvenire»? A mio parere, se Rossini non si fosse
pensionato a soli trentasette anni avrebbe partecipato al romanticismo, ma
non a quello italiano (verdiano), piuttosto a quello tedesco di Weber, marschner,
Spohr, Schumann, aprendo la strada a Wagner ed al tardo romanticismo
degli ultimi anni del «secolo lungo».
Conclusione
Questo articolo è un ritratto di Rossini nel «secolo lungo» in cui ci si
sofferma sulle caratteristiche «italiane» del compositore che visse gran
parte della sua vita all’estero. Attraversò, in punta di piedi, un «secolo
lungo» perché se nelle sue farse iniziali ci sono echi del Settecento in cui
nacque nei suoi ultimi lavori, specialmente nella Petite messe solennelle e
per certi aspetti in Maometto Secondo anticipa alcuni aspetti della musica
della «generazione degli Ottanta» quindi del Novecento. Sono questi aspetti
che meritano di essere approfonditi dalla musicologia.
Giuseppe Pennisi
222 Giuseppe Pennisi

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