martedì 18 maggio 2010

IL CONTINENTE DEL XXI SECOLO in CHARTA minuta maggio giugno

IL CONTINENTE DEL XXI SECOLO
Giuseppe Pennisi
Questo articolo riguarda i nessi tra Europa e Africa a sud del Sahara; i rapporti con l’Africa Mediterranea presentano problematiche molto differenti. Ho lavorato per diversi anni sull’Africa a sud del Sahara quando ,nel 1967-1982, ero in Banca Mondiale , nel 1986-89, alla Fao e alla metà degli anni Novanta venni invitato dalla Banca Mondiale a collaborare al programma per la ricostruzione post-bellica dell’Angola. In questo lungo arco di tempo, ho avuto molti amici africani veri e sincero , in particolare Peter Gauchati, leader Mau Mau , imprenditore keynota e a lungo Segretario Permanente all’Istruzione, Million Neqniq, Ministro dello Sviluppo dell’Etiopia, Trevor Combe dell’Università dello Zambia e Kama Sywor Kamanda , Consigliere Economico del Presidente dello Zaire. Ringrazio Charta minuta per avermi dato l’opportunità di tornare con la memoria a quegli anni ed ad amici molto cari G.P.
1. Il Piano di Strasburgo
Nel delineare oggi i temi principali della geo-politica e della geo-economica dell’Unione Europea rispetto all’Africa a sud del Sahara (e nella nascente Unione Africana), pochi ricordano come gran parte di queste tematiche venissero esaminate in un documento “europeo”, ossia non di singoli Stati del Vecchio Continente ma dell’Europa in via d’integrazione, quasi subito dopo la seconda guerra mondiale in un documento redatto da un gruppo di esperti su incarico del Consiglio d’Europa e presentato nel 1957 all’Assemblea Parlamentare dell’organizzazione: “Il Piano di Strasburgo”. Frutto di un’elaborazione complessa e non banale – una prima versione era stata redatta nel 1952 - , aveva l’obiettivo di permettere “all’Europa ed ai Paesi aventi legami costituzionali con essa” di costituire “, tra la zona collettivistica e quella del dollaro, una terza zona economica capace di equilibrare gli scambi con le prime due”. Un disegno, se lo si legge con gli occhi di oggi, lungimirante anche a ragione di alcune indicazioni specifiche: in breve, una duplice liberalizzazione degli scambi sia tra gli Stati africani sia tra questi ultimi e le potenze coloniali (allora quasi sul punto di passare il testimone), coordinamento delle politiche commerciali (anche tramite tariffe doganali preferenziali); contratti a lungo termine per alcune materie prime e prodotti di base; una Banca euro-africana , modellata più o meno sulla Banca mondiale. In parallelo, il Consiglio d’Europa varava una direttiva intesa a “far formulare ogni proposta innovatrice capace di favorire lo sviluppo economico e sociale dell’Africa tramite una cooperazione su un piede di parità nel seno di una comunità euro africana”. Tenendo conto del linguaggio dell’epoca – ad esempio il richiamo all’Euroafrique ipotizzata da Etienne Antonelli nel lontano 1924- è chiara l’indicazione di un rapporto preferenziale tra Europa in via d’integrazione ed un’Africa allora formata in gran parte da colonie. Tale rapporto sarebbe dovuto essere la stella polare una volta avviato il processo d’integrazione europea e compiuta l’indipendenza di numerosi Paesi africani.
I due percorsi iniziarono quasi continuamente; nel 1958,cominciò ad operare l’Europa a Sei con l’obiettivo di formare un mercato comune ed aggregare risorse e potenzialità in alcuni settori funzionali specifici (uso pacifico dell’energia atomica, metallurgia e siderurgia, sostegno dell’agricoltura) e nel 1960-64 gran parte dell’Africa a sud del Sahara assunse la piena indipendenza.
Sappiamo come è andata. Il disegno del “Piano di Strasburgo” è stato ben presto abbandonato. Da un lato, l’Europa a Sei strinse accordi di associazione (basati su zone di libero scambio parallele ma imperfette ed un Fondo di aiuti allo sviluppo) con i Paesi con cui aveva avuto “legami costituzionali”. Da un altro , molti Stati di nuova indipendenza non si rivelarono all’altezza della situazione, come documentò l’economista agrario francese (simpatizzante per l’Africa) René Dumont. Da un altro ancora, nel disegno di un rapporto privilegiato tra Europa ed Africa a Sud del Sahara, si inserì la guerra fredda. La situazione non cambiò sostanzialmente neanche quando a partire dal 1972 la Comunità europea si allargò progressivamente, includendo gran parte degli Stati che avevano od avevano avuto “legami costituzionali” con l’Africa.
2. La guerra fredda
Al momento dell’indipendenza e negli anni immediatamente successivi, solamente pochi Stati africani (esempi importanti sono stati la Guinea ed il Mali nella costa occidentale e , in parte, la Tanzania in quella orientale) cessarono il rapporto privilegiato con quelle che erano state le loro metropoli o gli Stati europei titolari di “amministrazioni fiduciarie” per conto delle Nazioni Unite. Nell’arco di un paio di lustri, però, l’Africa a Sud del Sahara diventò non solamente campo di battaglia della “guerra fredda”, ma anche di competizione tra i singoli Stati europei pur uniti nella Comunità con sede a Bruxelles.
E’ interessante, ad esempio, soffermarci sul ruolo quanto meno ambiguo della Francia. Amara per avere perso alcune ex-colonie (la Guinea ed il Mali si erano saldamente collocati nel blocco sovietico) ambiva ad ampliare la propria sfera altrove. Un tentativo, peraltro, velleitario venne effettuato nell’Etiopia ancora imperiale dove sorse una mini-università francofona e venne perseguito (peraltro con poca forza e scarsa coerenza) il piano di rimpiazzare l’inglese con il francese come seconda lingua; allora , i principali consiglieri economici del Governo erano britannici e , sotto le guisa di una missione geografica (la US Mapping Mission), gli americani vigilavano sulle sorti del traballante Impero. Più coerente e portato avanti con maggiore determinazione, il tentativo di soppiantare il Belgio nella regione dei Grandi Laghi. Pochi sanno che la capitale del Burundi (Bujumbura) è stata per anni una centrale dello spionaggio russo, americano, francese e belga: dalle stazioni radar di Bujumbura, infatti, si controlla lo Shaba (un tempo chiamato Katanga), una delle regioni minerarie più importanti al mondo. Ancora negli Anni Novanta, i Tutsi , che dopo trent’anni d’esilio in Uganda, hanno conquistato il Ruanda, il Burundi e lo stesso Congo sono stati addestrati ed armati dai francesi, in competizione con gli americani ed i belgi (allora il blocco orientale si era spappolato).
Più astuto, per molti aspetti, il ruolo della Cina. Privilegiava soltanto in apparenza gli Stati entrati nell’area socialista, ma corteggiava (già negli Anni Sessanta e Settanta) quelli con importante risorse naturali (il Congo allora denominano Zaire) e si teneva alla larga di quelli che avevano rapporti privilegiati con l’URSS e l’Europa orientale a socialismo reale (Etiopia dopo la fine dell’Impero, Somalia, Mozambico, Angola). A molti Paesi dava un pacchetto d’aiuti bello e fatto: stadio, campi sportivi, piscine e teatro all’aperto. A Tanzania e Zambia aggiunse la ferrovia Tam-Zam per trasportare il rame delle miniere ai porti senza giungere a quelli del Sud Africa e di colonie (allora portoghesi). Non guardò molto per il sottile costruendo per il filo americano Zaire guidato da Mobutu la “città ideale” di N’Selé raggiungibile da Kinshasa in poche ore di navigazione fluviale. Modesti i risultati in attività produttivi: addirittura disastrosi quelli all’Office di Niger (l’ente del Mali per il controllo delle acque, l’irrigazione e, soprattutto, la produzione di riso). Ancora meno brillanti gli interventi in Madagascar nonostante il gruppo dirigente fosse non africano ma polinesiano e parlasse una lingua di ceppo indonesiano e malesiano.
Molto declamatoria ma poco efficace la funzione dell’Unione Sovietica. I rapporti privilegiati con la Guinea ed il Mali deteriorano nell’arco di pochi anni. L’Urss ottenne un ruolo importante, per un periodo, in Somalia principalmente come riflesso di quello che gli Usa avevano nell’Impero d’Etiopia; poco amati dalla popolazione somala , artefici di progetti quanto meno bislacchi (come quello del mattatoio di Mogadiscio), alzarono i tacchi non appena Menghistu defenestrò Hailé Selassié. Fornirono armi al regime socialista etiope, ma preferirono affidare una funzione politica ed economica a quella che allora veniva chiamata Repubblica Democratica Tedesca (molto presente pure in Mozambico ed Angola) nelle cui università peraltro molti leader africani hanno studiato.
In breve, nel perdurare della guerra fredda l’Africa a sud del Sahara è stata uno scacchiere a macchia di leopardo dove, però, l’Europa in quanto tale ha progressivamente perso il prestigio ed il peso che pareva avere al momento dell’indipendenza di molti Stati. A ciò hanno contribuito non solamente le differenti e divergenti strategie di vari Stati di quella che sarebbe diventata l’Unione Europea ma anche la decisioni, per taluni aspetti corretta ma fondamentalmente rinunciataria, delle Delegazioni della Commissione Europea nei vari Stati; hanno sempre avuto la consegna di occuparsi quasi esclusivamente di problemi tecnici e micro-economici dei singoli progetti, evitando quelli macro-economici e delle politiche di sviluppo. In pratica, le Rappresentanze del Fondo Monetario e della Banca Mondiale (pur con un organico molto ridotto rispetto a quello delle Delegazioni della Commissione) incidevano sulla macro-economia e sulle politiche di sviluppo molto di più degli europei in quanto tali. Non ha avvantaggiato l’Europa, inoltre, l’attenzione comparativamente scarsa alla valutazione dei progetti a valere sul Fondo Europeo di Sviluppo.
3 Dopo la guerra fredda. Le determinanti della crisi
Dopo il crollo del muro di Berlino, la situazione dell’Africa a sud del Sahara (tranne poche eccezioni) non è migliorata ma peggiorata. Da un canto, si sono scatenate pandemie nuove (Aids) e sono mutate diventando più aggressive quelle vecchie (malaria, tubercolosi, oncocercosi). Da un altro ancora, si sono scatenate quelle locali per motivi etnico-tribali od anche futili come l’esito di una partita di caccia. Ad un certo momento, erano in corso 24 guerre dichiarate e guerreggiate. Attualmente, la Somalia appare disintegrata, il Sudan afflitto da movimenti separatisti che 20 anni fa apparivano in via di pacificazione, uno degli Stati un tempo considerati più moderni, la Costa d’Avorio, diviso in due (dopo un conflitto), uno dei più ricchi (il Congo) di fatto dominato da Tutsi del Ruanda (dopo ben 30 anni di esilio in Uganda). Nell’ultimo quarto di secolo, si sono succeduti studi su studi. Cerchiamo di comprendere le determinanti della crisi:
• L’economia di tratta ossia l’impoverimento delle risorse umane dovuto alla tratta degli scavi. Considerata per decenni una delle ragioni principali del mancato sviluppo, la storiografia moderna documenta che, specialmente nella costa occidentale, la schiavitù era ampiamente praticata sia negli Imperi del Mali e del Benin sia nel Regno degli Ashanti e dei Dogon sia in formazioni politiche minori: il lavoro (non la terra) veniva considerato il principale fattore di produzione e la schiavitù veniva praticata nei confronti di prigionieri di guerra e di debitori.
• La distanza dalla moderna scienza e tecnologia. Un’analisi, ancora inedita dell’Università di Capetown, documenta, in primo luogo, che le ex- colonie britanniche hanno riportato (negli ultimi 50 anni) un andamento economico migliore delle ex-colonie francesi e molto migliore di quello delle ex-colonie belghe e portoghesi. Utilizzando una strumentazione statistica raffinata, lo studio quantizza che nel modello britannico, si massimizzava l’obiettivo di sviluppare capitale umano di alta qualità ad un’élite ristretta mentre in quello francese, pur rivolgendosi sempre ad un’élite ristretta, si massimizzava quello di sviluppare capitale umano “assimilato” (alla metropoli) ma di scarsa qualità. Ciò spiega le differenze in distanza di moderne scienze e tecnologia specialmente di governo della cosa pubblica.
• Le determinanti della decolonizzazione di cinque lustri orsono. E’ ancora un lavoro inedito della Università di Capetown a dare una lettura nuova – come è noto solo in pochi Stati dell’Africa a sud del Sahara (il caso più significativo è la rivolta Mau Mau in Kenia) si è combattuto per l’indipendenza – al fenomeno: la natura del capitale umano trasferito dalle potenze coloniali spiega i processi di decolonizzazione, la loro tempistica ed i nessi con la ex-metropoli dopo l’indipendenza. Spiega anche il proliferare di Governi “proprietari” che consideravano la cosa pubblica come loro appannaggio privato.
• La perdita continua di capitale umano. Nonostante la vastissima disponibilità di risorse naturali il deflusso di capitale umano (essenziale per renderle produttive) è continuato dopo l’indipendenza. E prosegue ancora tanto che si parla di un vero e proprio brain drain dall’Africa a sud del Sahara. Un lavoro interessante è stato prodotto all’inizio di gennaio dall’Istituto tedesco di analisi sui problemi del lavoro. Sulla base di dati dal 1990 al 2001 di emigrazione verso l’Ue , viene testata econometricamente l’ipotesi secondo cui è la formazione di capitale umano, oltre alle affinità con le metropoli di un tempo, ad orientare i flussi. Non solamente partono i più preparati (o quanto meno coloro che hanno i titoli di studio più elevati), ma le mete preferite paiono essere , in quest’ordine, il Portogallo, il Regno Unito, il Belgio, la Germania e l’Italia, con Francia e Spagna ultime ed ex equo. L’esistenza di reti e di più alti tenori di vita e di maggiori opportunità contribuiscono al brain drain.
• 4 Le prospettive
Altri articoli in questo fascicolo esaminano aspetti puntuali (come i rapporti tra Africa a sud del Sahara e Cina e la competizione in Europa per concessioni per l’uso di risorse naturali del continente). La Banca mondiale e la Banca africana per lo sviluppo pubblicano periodicamente indicatori di sviluppo dei singoli Stati e rapporti sulle “storie di successo” e sulle “lezioni” che da tali “storie” si possono apprendere. Sono note, poi, le attività di grandi imprese italiane (ad esempio, l’Eni) nella vasta regione.
A conclusione di questo articolo sarebbe banale ripetere ciò che altri hanno già detto , fornendo una maggiore e migliore base empirica. Il rinnovato interesse per l’Africa a sud del Sahara è di buon auspicio se vuole dire maggiori risorse finanziarie e tecniche dal resto del mondo ed un migliore governo interno di quelle naturali disponibili. L’Africa a sud del Sahara può diventare un’area di crescita e di sviluppo del 21simo secolo, dopo avere mancato gli appuntamenti del 20simo.
Ci sono , però, due condizioni:
• Ritornare (con gli aggiornamenti appropriati) al “Piano di Strasburgo” nel senso di dare una risposta europea non dei singoli Stati dell’Ue alla sfida del continente. Solo in questo modo, si potrà evitare una nuova “guerra fredda” e massimizzare l’impiego delle risorse disponibili.
• Punture sul capitale umano, il vincolo maggiore al decollo ed allo sviluppo dell’Africa a sud del Sahara.
Bibliografia essenziale
Agbor J, Fedderke J-W, Viegi N (2010) "A Theory of Colonial Governance" University of Capetown , in corso di pubblicazione. Si può chiedere a juliusagbor2002@yahoo.fr
Agbor J (2010) "The Economic Origins of 20th Century Decolonisation in West Africa" University of Capetown , in corso di pubblicazione. Si può chiedere a juliusagbor2002@yahoo.fr
Constant A. , Tien B. (2010) "Brainy Africans to Fortress Europe: For Money or Colonial Vestiges?" IZA Discussion Paper No. 4615
Dumont R. (1962) “L’Afrique Noire est mal partie” Parigi, Du Seuil.
El Badawi I, Kaltani L, Soto R. (2010) "Aid, Real Exchange Rate Misalignment and Economic Performance in Sub-Saharan Africa" World Bank, Economic Development Institute.
Fedderke, J-W. , Viegi N., Agbor J. (2010) : "Does Colonial Origin Really Matter for Economic Growth in Sub-Saharan Africa?" University of Capetown , in corso di pubblicazione. Si può chiedere a juliusagbor2002@yahoo.fr
Pennisi G. (1967) “L’Europa e il Sud del mondo”, Bologna, Il Mulino.
Thorton J. (2010) “L’Africa e gli africani nella formazione nel mondo atlantico”, Bologna Il Mulino
Giuseppe Pennisi insegna all’Università Europea di Roma.

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