CLT - Lirica/ I Nibelunghi vetero-marxisti della Scala
Roma, 20 mag (Il Velino) - Mettere in scena il “Ring” di Richard Wagner – un prologo-atto unico di due ore e mezzo e tre opere, o “giornate”, di circa cinque ore ciascuna – è operazione da far tremare. Eppure, in attesa dei 200 anni della nascita del compositore tedesco, c’è un gran fervore di allestimenti, in versione integrale (15 ore di musica) o a puntate. Il Teatro alla Scala, per esempio, ha in scena sino al 29 maggio “L’oro del Reno”, il prologo del ciclo, realizzato in coproduzione con la Staatsoper unter den Linden di Berlino e in collaborazione con la compagnia di danza Tonneluis di Anversa. Il programma prevede la messa in scena di un’opera l’anno e l’intera tetralogia nel 2013, in occasione delle celebrazioni del bicentenario. La storia del “Ring” e ambientata nell’era primordiale in un mondo popolato da dei, nani e giganti. Alberico, re dei nani Nibelunghi tenta di sedurre le figlie del Reno, che lo scherniscono per la sua bruttezza. Carpisce, però, il loro segreto e ruba l’oro in fondo al fiume, che concede potere assoluto a chi lo detiene e rinuncia all’amore. Nel contempo il re degli dei, Wotan, si è fatto costruire dai giganti un degno Palazzo, il Walhalla, promettendo in pagamento la bella dea della giovinezza, Freia. Non vuole, però, mantenere la parola perché la partenza di Freia vorrebbe dire invecchiamento e morte degli stessi dei. Su suggerimento dell’astuto dio del Fuoco Loge, Wotan truffa Alberico (che lancia una maledizione) e si impadronisce dell’anello. Propone ai Giganti di dar loro in pagamento il tesoro del Nibelungo ma non l’anello. I giganti chiedono anche questo, il vero strumento di potere; la maledizione scatta immediatamente. Uno dei due Giganti uccide l’altro per il possesso dell’anello. Mentre gli Dei accedono al Palazzo, Loge preconizza la fine di Wotan e congiunti e le ondine piangono la perdita di oro e anello. Nelle opere successive è rappresentato il tentativo (non riuscito) di evitare “Il Crepuscolo degli Dei”, titolo per l’appunto dell’ultima opera.
L’“Anello” ha avuto varie chiavi interpretative, da pura favola a dramma intimistico a tragedia familiare spalmata su tre generazioni. Non sono mancate quelle d’impostazione marxista: per decenni alla Staatsoper di Berlino Est imperava Ruth Berghaus, che interpretava la saga in chiave marxista, quale crisi della società industriale. Una lettura analoga venne offerta, con grande scalpore, nel 1976 a Bayreuth dal team Chéreau-Boulez in occasione del trentennale della prima esecuzione nella cittadina della Baviera settentrionale. Luca Ronconi, Pierluigi Pizzi e Zubin Mehta presentarono, nella stessa chiave, una lettura simile a Firenze. Alla Scala un “Anello” completo manca da decenni, poiché quello concertato da Muti negli Anni Novanta non venne presentato interamente in veste scenica. La grande attesa per la maxi-produzione è soddisfatta ampiamente dagli aspetti musicali. Daniel Barenboim frena la propria tendenza a dilatare i tempi: dall’introduzione in Si bemolle maggiore si attiene con trasparenza e rigore (ma poca passione) alla partitura, dandole un’intonazione lirica che stride con la regia ed è distante da quella molto drammatica che diede a Bayreuth nel 1991. Straordinario il cast vocale: il pastoso e imponente Wotan di René Pape, gli infidi Loge e Mine di Stephan Rügamer e Wolfangang Ablinger, il malvagio Alberich di Johannes Martin Kränler, il magnifico trio femminile di Doris Soffler, Anna Samuil e Anna Larsson, e tutti i caratteristi.
Quanto alla regia, il programma di sala dedica 50 pagine a spiegare le intenzioni degli autori indica che la squadra (Guy Cassiers, Enrico Bagnoli, Tim van Steenbergen, Arjen Klerkx, Sidi Larbi Cherkaoui), sintomo che questa ha bisogno di chiarire, scrivendo, le proprie idee. In effetti, la chiave vorrebbe essere un apologo della globalizzazione, delle lotte degli “esclusi” contro il capitalismo mondializzato, di un Sigfrido-Bakunin distrutto dalle forze del male. Il tutto in un’atmosfera da concerto rock, con improbabili danzatori e mimi semi nudi che “doppiano” i personaggi e con i loro corpi rendono “visiva” la partitura. Una marxista seria come Ruth Berghaus avrebbe fischiato. E forse anche chi li apprezza esteticamente è stanco e stufo delle esibizioni di muscoli maschili che pare caratterizzare questa stagione.
(Hans Sachs) 20 mag 2010 11:44
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