I teatri d'opera italiani sono in crisi, la legge Veltroni non ha funzionato
Lirica, lo sciopero è inutile:
è tempo di riforme
di Giuseppe Pennisi L’anno prossimo ricorre il 150 anniversario dell’Unità d’Italia. Nel 2013 il doppio centenario della nascita di Giuseppe Verdi e Richard Wagner. Le maestranze delle fondazioni lirico-sinfoniche hanno proclamato uno sciopero a oltranza che, nell’Italia dove è nato il teatro in musica, minaccia di mettere a repentaglio i preparativi di queste due importanti ricorrenze.Una lettura attenta del decreto legge appena pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, e subito strumentalizzato con una maxi-protesta contro il Governo, rivela che, al di là delle ipocrisie, il mondo della cultura, e le masse artistiche in particolare, dovrebbe non scendere in campo contro il provvedimento ma contribuire a una necessaria e non più procrastinabile riforma. I dati “oggettivi” dimostrano lo stato comatoso in cui versano le fondazioni lirico sinfoniche: due sono appena uscite dal commissariamento ma tre stanno per entrarci. Da quando gli enti lirici sono stati trasformati in fondazioni private (con la cosiddetta Legge Veltroni) la situazione non ha fatto che peggiorare: il disavanzo cumulativo supera i 200 milioni di euro, gli interessi passivi toccano i 10 milioni di euro l’anno, alcune fondazioni hanno svalutato di oltre la metà il patrimonio loro conferito 12 anni fa, in altre il numero di spettacoli si è ridotto a una manciata di titoli. All’origine ci sono disfunzioni di ogni genere. Sarebbe errato attribuirle tutte ai lavoratori dello spettacolo: molte riguardano il management dei teatri che ha sovente comprato la pace sindacale aumentando, tramite la contrattazione integrativa e la dilatazione degli organici, la spesa oltre quanto avrebbe permesso una gestione efficiente: in una fondazione, negli ultimi dieci anni il costo del personale è aumentato del 45% circa mentre il patrimonio si è dimezzato. Sono un appassionato di opera lirica dall’età di 12 anni e collaboro, in materia, a testate italiane e straniere. Ho serie difficoltà a capire perché molti teatri italiani (con 7-10 opere l’anno in cartellone) hanno un organico analogo a quello della Staatsoper di Vienna (che nel 2010 offre 50 titoli e 10 nuovi allestimenti). La legge Veltroni con la quale gli enti lirici e sinfonici nazionali sono stati trasformati in fondazioni di diritto privato non ha funzionato affatto: è poco gradevole citare se stessi, ma lo ho documentato con un saggio tecnico uscito sulla rivista “Musica” tre anni fa: le previsioni di un incrementale aggravio dei disavanzi si sono avverate. In effetti, poche fondazioni sono state in grado di attirare soci privati (La Scala, il Massimo di Palermo) pronte a mettere a rischio capitali anche ingenti. La escalation dei costi è proseguita.Mediamente mettere in scena uno spettacolo nelle fondazioni italiane ha un costo pari al 150% della media dell’Ue a 15 e di oltre il 200% dell’Ue a 27. Un celebre direttore d’orchestra dichiara che in Italia riceve un cachet pari a tre volte quello che ottiene a Vienna o a New York - ovviamente ne è ben lieto. Il 70% dei costi riguarda il personale fisso (masse artistiche, tecniche ed amministrative); quindi, il legislatore non ha altra scelta che incidere su questa voce, bloccando il turn-over, ponendo tetti alla contrattazione integrativa, vietando severamente il malcostume di non presentarsi in teatro (ad esempio alle prove) per svolgere attività professionale privata (insegnare, suonare per altre orchestre e simili). Attenzione: queste misure non entreranno in vigore immediatamente ma tra 12 mesi se nel frattempo non si sarà giunti al rinnovo del contratto nazionale di lavoro in cui (dato che il 90% del finanziamento è pubblico), la parte datoriale verrà svolta dall’Aran (non dai singoli teatri, pure per evitare o una rincorsa verso livelli sempre più lontani da quelli praticati nel resto d’Europa o una guerra tra poveri). Interessante notare che due fondazioni liriche del Sud (Palermo e Cagliari) brillano per le operazioni di risanamento effettuate e hanno i conti in regola da alcuni anni. Il loro management attuale, mai considerato contiguo alla sinistra, dimostra che se si vuole si può gestire bene, avere la stima internazionale (a un recente spettacolo a Palermo l’International Herald Tribune ha dedicato mezza pagina e altri hanno avuto critiche favorevoli su testate americane come Opera Today, canadesi come La Scena Musicale e britanniche come Music & Vision – tutte distinte e distanti dalle nostre beghe di botteghe). L’ondata di scioperi annunciata è contro la lirica più che contro il Governo (alle prese con problemi ben più gravi nell’attuale contesto europeo e internazionale). Dà un colpo mortale alle fondazioni prossime al dissesto che dovranno risarcire gli artisti scritturati e perderanno i ricavi dai biglietti. Agenzie internazionali di viaggi musicali, come Euridice, stanno annullando prenotazioni a spettacoli di grande rilievo come il nuovo Ring wagneriano co-prodotto dal Teatro alla Scala e dallo Staatsoper di Berlino. L’Italia rischia di venire relegata in un angolo, quello di chi è inaffidabile e con cui i grandi cantanti, i grandi maestri concertatori ed i grandi registi preferiscono non avere a che fare. Tanto più che il Governo ha già convocato le parti per esaminare ancora una volta come meglio risolvere i nodi del settore. Il decreto legge è, a mio avviso, solo un primo passo. Nei regolamenti si dovranno porre anche regole per la gestione: ad esempio, se si ha accesso al Fus (Fondo unico per lo spettacolo), il 70% della programmazione dovrebbe prevedere co-produzioni poiché è più facile spostare, da una città all’altra, spettacoli che pubblico. Il costo di scene e costumi è appena il 5% di un allestimento, ma i cachet degli artisti sono mediamente il doppio di quelli nel resto d’Europa e negli Usa perché le scritture sono per poche (4-6) rappresentazioni; sarebbero molto più bassi se tramite una politica di co-produzioni venissero scritturati per replicare lo stesso lavoro in vari teatri 25-30 volte. Si dovrebbe prevedere una “premialità”, analoga a quella dei fondi strutturali europei: le fondazioni che chiudono i conti in attivo e hanno attuato una buona programmazione (in termini di numeri di spettacolo l’anno, qualità degli spettacoli quali valutati dalla critica italiana e straniera) dovrebbero ricevere una dotazione aggiuntiva l’esercizio successivo. La strada è lunga: cominciarla chiudendo i teatri vuol dire partire con il piede sbagliato.
4 maggio 2010
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