[Qualche ricetta per il dopo-crisi: puntare sulla scuola per il rilancio]
E nel mondo dell'istruzione oltre ai soldi serve competizione
Qualche ricetta per il dopo-crisi:
puntare sulla scuola per il rilancio
di Giuseppe Pennisi “La migliore istruzione che il denaro non può comprare” è da 150 anni il motto di un piccolo, sperduto, College nel Kentucky, il Berea College. Ricordiamocelo, nella fase in cui si stanno mettendo a punto i programmi del dopo crisi. È il punto centrale, tra l’altro, del saggio di Jacques Attali La crisi, E poi?, appena apparso in italiano per i tipi di Fazio Editore. Il miglioramento della funzione di produzione dell’istruzione e della formazione , a tutti i livelli, è essenziale per aumentare il tasso multifattoriale di produttività che in Italia viaggia da troppi anni raso terra. È un elemento molto più importante delle “nuove regole” per la finanza su cui tanti barracuda-esperti stanno discettando (spesso con modesta cognizione di causa).
Nel frattempo, invece, l’incidenza della spesa per l’istruzione sulla spesa pubblica totale si è ridotta. Nel 1990 era pari al 10,3%; nel 2009 al 9% circa. Il calo è stato particolarmente marcato negli ultimi due anni (nonostante le spese aggiuntive per la regolarizzazione di precari) in quanto nel 2005 era ancora al 9,5% della spesa pubblica totale. Un’analisi elaborata dal periodico Tuttoscuola mostra che è rimasta praticamente invariata in valore assoluto a fronte di un incremento della spesa pubblica totale. Quindi, la legislatura in cui il sempre traballante governo Prodi aveva il sedile del conducente ha predicato bene; ma non ha seguito quanto prometteva che avrebbe fatto. Sempre secondo lo studio, se la spesa per la scuola fosse cresciuta dal 1990 al tasso della media della spesa pubblica totale, oggi ci sarebbero 10,8 miliardi di euro di risorse aggiuntive per l’istruzione ogni anno.
Senza dubbio, le dinamiche demografiche hanno influito sul fenomeno. Tuttavia, la riduzione della spesa per la scuola (e la destinazione delle risorse quasi interamente al monte salari di insegnati e personale) è, a sua volta, una delle determinanti dei risultati della recente indagine Ocse-Pisa, secondo cui nelle graduatorie scolastiche le competenze dei quindicenni italiani risultano essere le più scarse tra quelle dei coetanei dei paesi industriali a economia di mercato. Non solo: mentre nel Nord solo un giovane su venti riporta difficoltà considerevoli a risolvere problemi di matematica, al Sud la media scende a uno su cinque. Ciò frena non solo la produttività ma anche la mobilità sociale.
Un’analisi della Commissione europea dell’Ue a 25 (ossia senza tenere conto di Bulgaria e Romania), sottolinea come l’andamento della produttività complessiva dei fattori di produzione (lavoro e capitale) sia correlata non solo alla struttura per età ma anche ai livelli d’istruzione e alla loro qualità: l’analisi contiene proiezioni sino al 2050 e indica come siamo destinati a perdere ulteriormente terreno se non raddrizziamo presto la nostra dotazione in risorse umane. A conclusioni analoghe arriva un lavoro congiunto della Università Cattolica di Lovanio e del Center for European of Policy Studies (Core Discussion Paper N. 2007/43).
In termini di mobilità sociale, due studi recenti evidenziano quanto segue: il primo, che le differenze di livello di istruzione e di qualità scolastica nel periodo 1840-2000 hanno inciso, e incidono ancora negativamente sulla produttività degli afro-americani (e sul loro progresso sociale); il secondo (World Bank Policy Research Paper N. 4427), che la spesa pubblica per l’istruzione è elemento necessario ma non sufficiente per favorire l’istruzione di qualità (e la mobilità) delle fasce sociali a basso reddito.
Per migliorarne la qualità, da decenni uno dei più noti economisti dell’istruzione, George Psacharopoulos ha dimostrato, dati quantitativi alla mano, che il rimedio più “potente” è la competizione. Anche solamente all’interno del settore pubblico. Meglio se tra tutti gli istituti, sia pubblici che privati.
In base alla mia esperienza in Banca Mondiale (dove per dieci anni ho lavorato sui problemi della scuola, della formazione e delle università e sono stato amico e collega di Psacharopoulos) e grazie alla successiva collaborazione al “Rapporto mondiale sulla scuola” dell’Unesco (sino a quando una dozzina d’anni fa, venne dismesso), ho la presunzione di potere dare qualche piccolo suggerimento su un tema così vasto da interessare non solo tutte le famiglie ma anche le imprese.
Lo ricorda uno studio internazionale (Nber Working Paper No. W14108) appena pubblicato negli Usa e disponibile on line: esaminando la contabilità dettagliata di un campione d’imprese italiane, l’analisi conclude che gli “intangibili” (di cui in primo luogo il capitale umano) sono importanti almeno quando il capitale fisico come determinanti di produttività e competitività. In parallelo, uno studio della Banca d’Italia diramato in questi giorni (l’Occasional Paper n. 14) scava nelle differenze d’apprendimento tra le regioni – c’è stato un ampio dibattito poco più di un anno fa in base alle risultanze del progetto internazionale Pisa; spiegano in gran misura le differenze di produttività e di competitività – quindi, il differenziale di sviluppo.Torniamo al motto del Berea College (tanto più importante poiché siamo in un periodo di restrizioni finanziarie molto severe ed è probabile che ci resteremo per il resto della legislatura). Il College è stato creato per dare istruzione d’alta qualità (ai livelli di quelli dell’Ivy League – le più prestigiose università private Usa) a “schiavi liberati” e “poveri bianchi delle montagne” (così dice ancora il suo statuto). In pratica, accetta studenti unicamente da famiglie a basso reddito ma con buoni risultati alle scuole secondarie e con tanta voglia di imparare. Offre un’istruzione rigorosa ma “no frills” (senza i lussi che caratterizzano altre università): non c’è un campo di calcio di dimensioni regolamentari (e ovviamente nessuno si è sognato di costruire una piscina), i dormitori sono separati per genere (maschi in un caseggiato; ragazze in un’altra), nei bagni e nelle docce c’è solo acqua fredda. Inoltre gli studenti devono dedicare dieci ore la settimana nei laboratori (si costruiscono mobili) e nell’azienda agricola del College. Un regime troppo severo? Il blasonato Amherst College nel Massachussetts pensa di imitarlo. Pure dalla lontana Australia, un saggio apparso sul numero del marzo scorso dell’Austrialian Economic Review sostiene la medesima ipotesi. In Italia alcune università d’ispirazione cattolica (tra cui l’Università europea di Roma) richiedono già ore obbligatorie di volontariato come pre-requisito per essere ammessi agli esami di materie accademiche o professionali. Ci potrebbero essere proteste da parte di famiglie e di giovani? Certo che no, se la proposta fosse preceduta da una campagna di comunicazione per spiegare come in questo modo di differenzierebbero nettamente i “bamboccioni” (di memoria padoa-scoppiana) e gli altri.La campagna dovrebbe essere diretta in particolare alle Università del Mezzogiorno: il “work&study” (nel quadro di un rigoroso programma formativo) è anche uno strumento per creare occupazione autonoma ed imprenditorialità (come suggeriscono gli esiti di alcune attività di ItaliaLavoro s.p.a.), nonché per attirare partecipazione di medie imprese nelle proposte fondazioni universitarie. Se medie imprese di Regioni relativamente di piccole dimensioni come le Marche, l’Abruzzo, nonché della Sicilia e delle Puglie, sono entrate (a volte come soci) nelle fondazioni liriche locali non si vede perché non possano entrare in fondazioni universitarie. Specialmente se offrono un’istruzione sia di alta qualità sia collegata alle esigenze del territorio.L’altra proposta riguarda la gestione del corpo insegnante. Il “Quaderno sulla Scuola” presentato nel settembre 2007 contiene numerose idee interessanti allo scopo di motivarli meglio, eliminare quelli che, brunettianamente parlando, vengono definiti “fannulloni”, inserire, con l’apporto attivo dei docenti, ad appositi “patti territoriali” con un alto grado di sperimentazione e innovazione. Sono tutte proposte molto importanti. Il loro fulcro è in che modo i presidi dei singoli istituti interpretano la loro funzione e danno a essa corpo. Pure questa è istruzione d’alta qualità che “il denaro non può comprare”. A riguardo è interessante notare che negli Anni Novanta e all’inizio di questo decennio, la Scuola superiore della pubblica amministrazione ha organizzato, nelle sue sedi d’Acireale, Caserta e Reggio Calabria corsi di management (gestione dei docenti, individuazione dei meritevoli e di quelli da accantonare, contabilità, acquisti, animazioni di comitati dei genitori, definizione di patti territoriali, rudimenti di analisi costi benefici). Non so se l’esperienza sia mai stata soggetta a valutazione. E se valga la pena di rilanciarla. In caso di risposte negative, occorre trovare altre soluzioni. Ma non si può eludere il problema.
21 gennaio 2010
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