- La politica e l'economia della "privatizzazione" dell'Acea
Roma, 27 gen (Velino) - L’annuncio del sindaco di Roma, Gianni Alemanno, dell’intenzione di “privatizzare” l’Acea SpA va interpretato sotto due profili: uno politico e uno economico-finanziario. In primo luogo, però, occorre fare una precisazione: l’Acea Spsa è già un’azienda privata, quotata in Borsa in cui il Comune di Roma è, con Gdf Suez Sa e il Gruppo Francesco Gaetano Caltagirone, uno dei tre principali azionisti ma dove migliaia di piccoli azionisti detengono il 30 per cento circa del capitale sociale. La “privatizzazione” vorrebbe dire porre sul mercato una quota importante della partecipazione del Comune, che pur resterebbe l’azionista di riferimento con il 30 per cento dell’azionariato complessivo.
L’aspetto politico dell’operazione, che si concluderà probabilmente tra diversi mesi (ma entro la fine del 2010), sta nel fatto che Alemanno vuole essere il primo, od uno dei primi, amministratori locali ad utilizzare la nuova normativa sui servizi pubblici locali e dare così un segnale forte di modernizzazione.
L’aspetto economico non è tanto la strumentazione finanziaria allo studio - un convertibile – quanto le opportunità per il Paese, non soltanto per Roma, della normativa. Opportunità su cui poco si è riflettuto anche in quanto il suo varo definitivo è stato sotto le Feste di Natale e Fine Anno. (segue)
Dopo anni di tentativi, nelle ultime settimane del 2009 la saga della privatizzazione dei servizi pubblico locali ha avuto una vera e propria svolta non nel senso previsto della “privatizzazione silenziosa” come conseguenza di un “grimaldello” incluso in una norma del 2008 sulla contrattualistica nel settore pubblico, ma in quanto risultato di un decreto legge per porre la normativa italiana in vari settori (non unicamente quello dei servizi pubblici locali) in linea con le direttive ed i regolamenti Ue ed evitare, quindi, possibili “procedure d’infrazione”- come aveva enfatizzato già nella primavera l’allora Vice Presidente della Commissione Europea ed attuale Ministro degli Esteri, Franco Frattini. Il “decreto Ronchi salva-infrazioni”, convertito in legge alla fine di novembre (Legge di conversione 166 del 20 novembre 2009). prevede che le gare ad evidenza pubblica diventano la regola per l'affidamento dei servizi (ad eccezione della distribuzione dell'energia elettrica, del trasporto ferroviario regionale e delle farmacie comunali e compresa l'acqua che, però, rimane un “bene pubblico” sotto il profilo giuridico) da parte delle amministrazioni pubbliche. Le gestioni dovute ad un affidamento “in house” cessano alla data del 31 dicembre 2010; tuttavia, le società partecipate potranno proseguire dopo il 2010 e potranno mantenere i contratti stipulati senza gara formale fino alla scadenza, nel caso in cui le amministrazioni cedano loro almeno il 40 per cento del capitale. Per le società quotate; il termine slitta al 2013, a patto che abbiano almeno il 40 per cento di quota di partecipazione pubblica al 30 giugno 2013, quota che scende al 30 per cento al 2015. Inoltre, tutte le forme di affidamento della gestione del servizio idrico integrato “devono avvenire nel rispetto dei principi di autonomia gestionale del soggetto gestore e di piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche, il cui governo spetta esclusivamente alle istituzioni pubbliche, in particolare in ordine alla qualità e prezzo del servizio, garantendo il diritto alla universalità ed accessibilità del servizio”.
La normativa, salita alla ribalta per quella che è stata definita “privatizzazione dell’acqua”, in effetti, riguarda “la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica”. Non rappresenta neanche una liberalizzazione a vasto raggio poiché concerne unicamente un numero limitato di servizi pubblici locali: l’esclusione dalla sua sfera applicativa dell’energia, del trasporto ferroviario e della farmacia comunali ne limita i contenuti in maniera significativa. Nonostante questi limiti, anche autorevoli commentatori considerati contigui all’opposizione riconoscono che si tratta di una svolta significativa, tentata per anni da Governi di differente ispirazione politica, ma per la prima volta riuscita.
A fine dicembre, il rapporto Isae sulla finanza locale sottolineava la probabilità che il processo di liberalizzazione (e miglioramento della gestione) parta proprio dal settore idrico nel Mezzogiorno: il 76 per cento dei 1300 comuni in Basilicata, Calabria, Campania, Sicilia e Puglia affidano i servizi connessi agli acquedotti o a SpA interamente a capitale pubblico od a strutture dell’amministrazione comunale- due forme di gestione che vengono spazzate via dalla nuova normativa. Sempre secondo il documento, il fabbisogno d’investimenti nel settore idrico dimostra che il Sud è il terreno ideale per sperimentare la riforma (per quando incompleta) dei servizi pubblici locali: stime di Coviri (Comitato di Vigilanza sul settore delle acque) e della Confservizi (l’associazione delle aziende pubbliche a livello locale) quantizzano a 60 miliardi di euro (di cui 24 nel Mezzogiorno) gli investimenti necessari nei prossimi tre decenni nel settore dell’acqua.
Se ben attuata, la svolta può contribuendo ad alleggerire il fardello dell’indebitamento degli enti locali, stimato in 110 miliardi di euro a cui aggiungere 10 miliardi di euro di crediti difficilmente esigibili. È un percorso ancora tutto in salita. È stato, però, tracciato ed iniziato.
(Giuseppe Pennisi) 27 gen 2010 10:55
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