martedì 26 gennaio 2010

Obama e le banche. Una riflessione doverosa Ffwebnagazine 26 gennaio

Barack Obama
Cercare gli untori serve a poco: il problema vero sono gli squilibri globali
Obama e le banche.
Una riflessione doverosa
di Giuseppe Pennisi Il cancelliere tedesco Angela Merkel ha proposto la convocazione di un vertice prima del G20 in programma a giugno, per valutare le proposte delineate da Barack Obama in merito al futuro del sistema finanziario Usa. Tali proposte hanno avuto l’esito immediato di far tremare le Borse, incassare un comunicato ambiguo dall’International Financial Stability Board e gettare lo scompiglio in seno all’Ecofin e ai vari G (8,14,20, ecc.). Tali proposte riguardano un prelievo sulle attività delle banche che hanno fruito di aiuti, e misure (non meglio specificate) per ridurre le dimensioni degli istituti e separarne le attività commerciali da finanziarie (specialmente di hedge fund). Sono, al momento, idee delineate in termini molto generali: l’intenzione è di lasciare al Congresso il compito di elaborarne i dettagli. In punta di diritto, secondo alcuni giuristi Usa, la loro attuazione, negli stessi Stati Uniti, potrebbe avere ostacoli addirittura costituzionali. Potrebbe, in ogni caso, rappresentare un ritorno al passato. Meritano, comunque, un’attenta riflessione.In uno degli ultimi fascicoli della rivista European Financial Management (Vol. 14 , Issue 3, pp. 564-698), Matti Keloharju, un meticoloso finlandese della Università di Helsinki, analizza i 300 saggi più citati in materia di finanza dal 2000 all’agosto 2007, utilizzando una banca dati davvero straordinaria. La conclusione è che le novità degli ultimi anni sono state davvero rare. Anche i tanto apprezzati (qualche anno fa) e tanto disprezzati (adesso) derivati sono antichissimi; Ernst Jeurg Weber documenta che i derivati nascono in Mesopotamia (in quanto “futures”) e si estendono all’Egitto Ellenistico, prima, all’Impero Bizantino poi e, successivamente, alla Spagna dove la finanza era gestita dai sefarditi. In seguito alla diaspora di questi ultimi, i “futures” diventano uno degli strumenti finanziari principali delle Libere Province dei Paesi Bassi: nel Cinquecento ad Amsterdam viene emanata una legge di regolazione e vigilanza sui derivati, il cui impiego si era nel frattempo esteso a Gran Bretagna e Francia – e nel XIX secolo in Germania.Quindi, attenzione. Non buttiamo via il bambino (di origini mesopotamiche) con l’acqua sporca, poiché i derivati e la stessa marcia verso l’abisso dei prime che diventano subprime sono unicamente una sfaccettatura della storia. E non la più importante. Il servizio studi del Fondo monetario ha appena completato un’analisi di 42 crisi bancarie in 37 paesi dal 1970 al 2007. Nel 74% dei casi, Pantalone ha iniettano liquidità nel sistema (tramite iniezioni dirette o fideiussioni), analogamente a quanto sta facendo oggi il Governo americano (e a quanto fece nel 1992 il Governo italiano di fronte alla crisi dei banchi meridionali): «Molto, troppo spesso –scrive lo studio- si è privilegiata la stabilità, quale che ne fosse il costo». In termini aggregati, il costo (su 30 anni) è stato pari al 16% del Pil mondiale. In più del 70% di queste crisi i derivati non erano parte del problema; lo erano le gestioni improvvide e le operazioni fatte per compiacere politici grandi e, soprattutto, piccoli. L’Insead di Fontainbleau ha studiato un fenomeno analogo: 348 crisi valutarie in 164 paesi (in gran misura in via di sviluppo) negli ultimi 40 anni. Il lavoro mostra ancora una volta il ruolo limitato, ove non trascurabile, della finanza derivata, sia nel determinare una crisi sia nel trovarne una via d’uscita. Individua, però, una serie di indicatori per prevedere l’avvicinarsi della tempesta e per contribuire a formulare strategie per uscirne.Ci sono alcune misure che possono essere adottate per contenere le disfunzioni della finanza derivata, senza stravolgere il sistema: un saggio di Todd Zywicki e Joseph Adamson, ambedue della George Mason University (uno dei santuari liberisti per eccellenza) analizza “law & economics of subprime lending”, ossia gli aspetti giuridici ed economici del suprime e delinea una serie di misure tecniche per migliorare la vigilanza. Arthur Wilmarth della Facoltà di Giurisprudenza della George Washington University della capitale Usa, argomenta (nel Gwu Legal Studies Research Paper n. 436) come sia utile allontanarsi dal modello della banca universale verso cui tutti hanno corso (e mettere paratie tra istituti di credito commerciale e banche d’investimento), ma soprattutto sottolinea come la prevenzione è in certa misura mancata a ragione della frammentazione delle attività di vigilanza. Indicazioni analoghe vengono da un pregevole volume curato da Peter Nobel e Marina Gets per la Università di San Gallo in Svizzera: l’innovazione finanziaria ha generato grandi benefici ma anche nuove sfide e nuova vulnerabilità, specialmente a ragione degli squilibri finanziari globali (leggasi disavanzo strutturale dei conti degli Usa con il resto del mondo, comparsa sulla scena di fondi sovrani, istituzioni economiche finanziarie internazionali – Fondo monetario, Banca mondiale, Organizzazione mondiale del commercio – in cerca d’autore).Tiriamo le somme. Non c’è proprio nulla di nuovo sul fronte occidentale? L’analisi riassunta in questa nota è che si sbaglia se si cerca l’assassino nel mondo della finanza derivata. In quel mondo (quale che sia il paese), possono essere fatti molti miglioramenti, specialmente nel separare attività di banca commerciale da quelle di hedge funds (prassi che si è diffusa prevalentemente nel mondo anglosassone e ha poco inficiato l’Europa continentale); saranno, però, efficaci unicamente se si avvia a soluzione il nodo degli squilibri globali. È uno dei compiti fondamentali dell’Amministrazione Usa. Si erra se, come nelle proposte ventilate in questi giorni, si propone di lavarsi le mani e di porre tutti il peso delle responsabilità su untori di manzoniana memoria. Obama si ricordi che il problema non è nelle nostre stelle (come diceva Cassio a Bruto nel “Giulio Cesare” di Shakespeare) ma in noi stessi.

26 gennaio 2010

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