sabato 29 agosto 2009

PSICOPATOLOGIA DELLA CRISI FINANZIARIA Il Domenicale 29 agosto

Convenzionalmente, la crisi finanziaria ed economica internazionale (da cui, pare, si stia cominciando ad uscire) viene fatta iniziare nell’agosto 2007 quando le autorità monetarie americane ed europee sono intervenute alla grande per tentare di evitare fallimenti di banche e di finanziarie. Un tentativo riuscito solo in parte: il 14 settembre, i clienti della britannica Northern Rock (“la roccia del nord”) fanno la fila agli sportelli per ritirare i loro depositi, poche settimane dopo vengono in pratica nazionalizzati i due maggiori istituti Usa per il rifinanziamento e la compravendita di mutui immobiliari e nel settembre 2008 chiude i battenti Lehman Brothers, un simbolo della finanza internazionale.
In questi due anni, una vera e propria piccola industria editoriale si è dedicata alla crisi, alle sue origini, ai suoi sviluppi, ai suoi possibili sbocchi: saggi tecnici e divulgativi, romanzi, racconti, film ed anche regie d’opere liriche scritte e composte negli Anni 20 ed ambientate (da libretto) nel periodo immediatamente successivo la guerra austro-prussiana (tempi duri anche allora, ma a metà Ottocento). La professione economica è stata messa sul banco degli accusati dalla stessa Regina della Gran Bretagna per non avere previsto lo tsunami finanziario. Con un abile operazione mediatica, Nouriel Roubini della Università di New York è stato presentato come l’unico “veggente” che aveva visto l’approssimarsi del brutto tempo. In effetti, da un lato la professione spiega fenomeni economici, non li prevede (con molti “se, ma e però” una branca dell’econometria si dedica a stime di norma, a breve termine – 24-36 mesi). Da un altro, l’avvicinarsi tempesta era stato avvertito da anni da numerosi economisti: pure dal vostro “chroniqueur” che avendone trattato in un breve saggio apparso nei primi due fascicoli di “Mondoperaio” del lontano 1989 ha preso le necessarie guarentigie con la conseguenza che dal gennaio 2008 al 13 agosto 2009 ha visto diminuire la valorizzazione del proprio portafoglio finanziario appena del 2% - livello facilmente recuperabile nei prossimi mesi.
La crisi solleva numerosi interrogativi che meritano di essere trattati su un settimanale culturale, più che su testate economiche e finanziarie. Il nodo di fondo riguarda, in effetti, per quale motivo la professione economica (specialmente in Italia, ma anche nel resto d’Europa e negli Stati Uniti) non ha tenuto in dovuto conto ad un comparto di crescente importanza rivolto all’analisi psicologica dei comportamenti dei soggetti economici – individui, famiglie, imprese, istituzioni ed amministrazioni pubbliche – ed alle ragioni per le quali si distanziano sempre più frequentemente dal modello semplice ma efficace alla base della disciplina – secondo il quale le scelte vengono effettuate massimizzando una funzione di utilità utilizzando l’informazione disponibile e trattandola in modo adeguato. Questo comparto non è una conventicola di pochi addetti ai lavori: Victor Ricciardi che lo coordina in seno al Social Science Research Network (una biblioteca telematica di oltre 4 milioni di volumi) invia ogni giorno agli iscritti al suo servizio due “newsletter” – la prima riguarda progressi nella teoria e nella metodologia (e consente di scaricare i relativi papers), la seconda (pur essa con la possibilità di scarica papers) contiene esempi ed esperimenti empirici.
Il comparto ha varie denominazioni: “behavioral economics”, “neuroeconomics”, “pyscoeconomics”. Per semplicità e mutuandone il lessico dalla recente rassegna pubblica da Stefano DellaVigna dell’Università della California a Berkeley nel fascicolo di giugno 2009 del “Journal of Economic Literature” chiamiamola, per semplicità, “psicologia dell’economia”. E’ un comparto molto vasto che abbraccia tutti i campi della disciplina – la rassegna di DellaVigna, peraltro incompleta proprio sotto il profilo della finanza analizza oltre 500 titoli –.
Chi ha saputo applicarne gli aspetti di fondo ai mercati finanziari, si è difeso dalla crisi – come si è visto - meglio degli altri. Occorre che se ne rifletta in preparazione del G20 di Pittsburgh e della assemblee annuali della Banca mondiale e del Fondo monetario in quanto le nuove “global rules” su cui tanto si pone l’accento riusciranno ad incidere sui comportamenti (e renderli virtuosi da così opportunistici da diventare viziosi) unicamente se non verranno predisposti da esperti disattenti rispetto a questa evoluzione della disciplina.
Nell’economia di questa nota, mi limito a tre aspetti connessi alla finanza: a) la dipendenza dei soggetti da punti di riferimento a cui si aggrappano (un concetto freudiano); b) la disattenzione all’informazione anche pubblica (un concetto junghiano) ; c) l’eccessiva autoreferenzialità e fiducia nelle proprie capacità (ancora una volta un concetto studiato da psicologi, e curato da psichiatri, più frequentemente che da economisti.
La dipendenza da punti di riferimento è stato studiata sin dalla metà degli Anni 80 da Premi Nobel come Edward C. Prescott, ma affinato nella seconda metà degli Anni 90 da John Campbell, John Cochrane , Shlomo Benartzi, Richard Thaler e altri proprio sulla base di dati empirici relativi al mercato finanziario Usa con serie storiche dal lontano 1871. In breve, gli operatori hanno avuto un premio circa del 9% dai loro investimenti in capitale di rischio (azioni) rispetto ai piazzamenti in obbligazioni. Tale “premio di rischio” (che nel lungo termine potrebbe sembrare molto elevato – basta pensare agli esiti in termini di interesse composto) è invece coerente se il lasso di tempo ipotizzato dagli operatori è un anno: la probabilità che in un ottica così breve le azioni rendano meno delle azioni ed una “avversione alle perdita” non troppo elevata comportano un “premio di rischio” così alto. Per lo stesso motivo, dimostra uno studio di Terence Odean, nel 1987-93 (ossia nel periodo successivo alla crisi delle Borse del 1987 e precedente quella dei cambi del 1992-93) c’è stata una tendenza a vendere titoli “vincenti” (sui quali si erano realizzate plusvalenze di rilievo) e a tenere in portafoglio quelli “perdenti” (sperando in tempi migliori). Le “global rules” saranno efficaci unicamente se sapranno vincere questa miopia temporale degli operatori
Di particolare rilievo, l’applicazione di modellistica psico-economica al mercato dell’edilizia residenziale (non dimentichiamo che è stato il detonatore dell’attuale crisi). Uno studio di David Genesove e Christopher Meier (in base ai dati relativi alle compravendita di appartamenti nell’area di Boston – dal prezzo proposto all’inizio della trattativa a quello del rogito – prova come chi mette la propria abitazione sul mercato utilizza come base per il calcolo del prezzo iniziale non tanto il mercato (ossia le compravendite nell’area) ma il proprio prezzo d’acquisto. Ciò si è verificato tanto nel boom delle valorizzazioni dell’edilizia residenziale nel 1983-87 quando nella fase di riduzione dei prezzi delle case nel 1989-92 al quale, come tutti sappiamo, ha fatto seguito l’esuberanza irrazionale a partire dalla seconda metà degli Anni 90 sino all’esplodere della crisi nel 2007. L’analisi è particolarmente eloquente: anche coloro che , rispondendo a questionari, si dicono pronti, o costretti, a vendere “in perdita”, citano prezzi di soglia notevolmente superiori a quelli che sarebbero ragionevoli prezzi di mercato (in base a rogiti recenti per unità immobiliari simili). E’ un nodo psicologico che può essere diagnosticato e curato dagli economisti unicamente in collaborazione con altre professioni.
Veniamo alla disattenzione nei confronti dell’informazione – argomento di due volumi che ho curato con il collega Giuseppe De Filippi molto prima dell’inizio dell’attuale crisi. Allora documentammo come i dipendenti pubblici italiani , dirigenti compresi, reagiscono o troppo o troppo poco alle “news”, pure a quelle che dovrebbero essere il loro pane quotidiano nell’aiutare politici a formulare “policies”. Un’analisi di Gur Huberman e Tomer Reger analizzano come ciò avvenga , e forse ancora di più, nel campo dell’informazione finanziaria. Esemplare il caso della EntreMed, un’azienda farmaceutica specializzata in medicine sia curative sia palliative relative al cancro. Il 28 novembre 1997 il periodico “Nature” e il “New York Times” (a pagina 28 del dorso A) diedero notizia di risultati preliminari ma positivi di un farmaco della casa, la cui azioni riportano uno spiegabilissimo aumento del 28%. Il 4 maggio 2008 (ossia sei mesi più tardi), il “New York Times” riprese la notizia (ormai vecchia, anzi vetusta) in prima pagina, senza, per di più aggiungere, nulla di nuovo: le quotazioni di EntreMed fecero un balzo del 330% - e quelle del settore delle biotecnologie in generale uno del 7,5%. Per i 12 mesi successivi, le quotazioni di EntreMed non sono tornate ai livelli precedenti il 4 maggio 1998. Quando maggiore è la disattenzione tanto più ritardato è l’assorbimento dell’informazione con effetti distorsivi. In uno studio recente (inverno 2008), Lauren Cohen e Andrea Fazzini analizzano come gli operatori rispondono più alla informazioni indirette (e meno rilevanti) che a quelle dirette (e più pertinenti); interessante notare che nei lavori con De Filippi di alcuni anni fa (con un campo di analisi , i funzionari ed i dirigenti della pubblica amministrazione italiana, molto distinto e molto distante dagli investitori nella Borsa Usa) giungemmo a conclusioni analoghe. Anche in questo caso, sapere distinguere il pertinente ed il meno pertinente tra le informazioni a cui rivolgere attenzione è aspetto, alla base della crisi finanziaria iniziata nell’estate 2007, la cui diagnosi e terapia richiede non solo la cassetta degli attrezzi degli economisti ma anche quella di chi sa come funzione la psiche umana.
Veniamo al terzo punto: l’eccessiva fiducia nelle proprie capacità di venire a capo di situazioni. Nell’estate 2007, molta stampa internazionale esultò ai primi interventi della Federal Riserve e della Banche centrale europea, dichiarò che la crisi era terminata e qualcuno si complimentò anche con gli istituti di credito Usa che avevano concesso mutui senza gli occhiali arcigni delle nostre banche. Chi – come il vostre “chroniqueur” scriveva che si era solo agli inizi- venne tacciato di catastrofismo, ove non di peggio. Pochi mesi dopo la Northen Rock e Lehman Brothers erano prese d’assalto. In effetti, la “psicoeconomia” studia come e perché i soggetti economici tendono ad avere eccessiva fiducia in se stessi. Nel lontano 1981, un’analisi pionieristica di Ola Svenson rivelò che l’83% degli automobilisti si dicono convinti di sapere guidare meglio delle mediana della categoria, Più di recente (due studi del 2005 e del 2008) dimostra che gli amministratori delegati si reputano, in generali, grandi risanatori , con la conseguenza di acquisire aziende a valori di norma superiori a quelli di mercato. Non solo (pur se “costretti” da prassi aziendali ad avere al proprio fianco un direttore finanziario) si considerano anche maghi della Borsa, con il risultato di esercitare le proprie stock options sino al termine del mandato e di non diversificare adeguatamente i propri portafogli personali. Ritengono, infine, di essere gli unici depositari di informazioni precise, specialmente quando si tratta di comprare e vendere in Borsa : il risultato è costi di transazione generalmente più alti (e rendimenti netti più bassi) di quanto avverrebbe con un comportamento più prudente. C’è una marcata differenza di genere: mediamente, il numero annuale di transazioni degli gli uomini in Borsa supera il 45% di quello delle donne (con la conseguenza che gli uomini hanno costi di transazioni più alti e rendimenti netti più bassi delle donne). Le “global rules” potranno affrontare e risolvere questo nodo se i barracuda-esperti delle pandette e della finanza non sono appropriatamente affiancati?
Con questa nota, si vuole unicamente gettare un sasso in uno stagno molto vasto e molto complesso. Se la crisi ha fondamenta psico-economiche, gli economisti ed i giuristi non possono da soli né risolverla né evitarne altre. Clemenceau diceva che la guerra è attività troppo importante per affidarla ai generali. Insegno economia da decenni e sono giunto alla conclusione che, per fare il proprio lavoro, l’economista necessita dello psicologico , dello psichiatra e dei loro strumenti (pure del lettino) per poter dare risposte utili ad un tema così complesso. Mi auguro che si apra un dibattito tra i lettori del “Dom”.

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