Roma, 5 ago (Velino) - “Manon Lescaut”, primo grande successo di Giacomo Puccini messa in scena il primo febbraio 1893, è una delle opere più rappresentate del compositore lucchese di cui l’anno scorso si sono celebrati in tutto il mondo i 150 anni dalla nascita. Chiude l’epoca in cui dominava il melodramma verdiano e anticipa il Novecento storico, il cui inizio, in Italia, viene convenzionalmente legato alla prima di “Tosca” a Roma il 19 gennaio 1900. “Manon Lescaut” è opera analizzata da oltre un secolo da musicologi e amata dal pubblico di tutti i continenti. Ne sono stati approntati allestimenti in Corea negli anni Settanta e persino in Africa, a sud del Sahara, in un cinema-teatro. Diversi i tratti salienti da ricordare in occasione del nuovo allestimento presentato domenica scorsa a Torre del Lago (Lucca), nell’ambito del Festival Puccini 2009, che verrà replicato sino al 13 agosto prima di andare a settembre e ottobre all’Opéra National di Nizza che lo co-produce e in numerosi altri teatri francesi.
In primo luogo è errato, come ancora fanno molti, considerarla sotto il profilo drammaturgico una interpretazione più fedele del romanzo “L’Histoire du Chevalier Des Grieux et de Manon Lescaut” dell’abate Antoine-François Prévost di quanto non siano altre “Manon”. Il romanzo, in gran misura autobiografico, è imperniato sul protagonista maschile che Prévost non esita a mostrare come un gaglioffo tormentato, ma pur sempre corrotto oltre che corruttore e sgradevole. Nulla di simile al tenero giovincello innamorato di Jules Massenet o allo studente sensuale e passionale di Puccini. In effetti, tralasciando l’opéra-comique di Daniel Auber e altre versioni minori, occorre aspettare il 1950 o giù di lì perché con il “Boulevard Solitude” di Hans Werner Henze si ritrovino, trasportati nella Francia della prostituzione e della droga degli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale, i personaggi e il clima di Prévost, pur se, sulla scena, non ci sono riferimenti ai più espliciti aspetti sessuali del romanzo settecentesco. Con una qualifica: come molti scrittori libertini, tra cui lo stesso marchese De Sade, l’abate non aveva un vero senso di colpa; ma, anzi, anche intenzioni moralistiche, ambedue distinte e distanti dall’opera di Henze, come, peraltro, da quelle di Puccini, Massenet e Auber, tanto che eros e sesso non venivano vissuti in modo gioioso.
Puccini e la vera e propria squadra di librettisti che lavorarono con lui, leggono l’intreccio come una vicenda di eros e passione. E’ qui l’importante novità: la passione aveva un posto privilegiato nel melodramma verdiano (si pensi al duetto carnale del secondo atto di “Un ballo in maschera” ), ma per gran parte dell’Ottocento l’eros era di fatto bandito dal teatro in musica italiano. Nel melodramma era giunto a conclusione con “La Favorite”di Gaetano Donizetti e nell’opera comica con “Le Conte Ory” di Gioacchino Rossini. Con “Manot Lescaut” torna prepotentemente in scena proprio in quella Torino che, non più capitale del Regno, era alla ricerca della propria identità e aveva tutto sommato un’anima bigotta. In secondo luogo, l’eros è nella scrittura orchestrale e soprattutto vocale. Come in “La Favorite” il personaggio maggiormente avvinto dall’eros è il protagonista maschile, per il quale Puccini introduce una vocalità nuova: respinge virtuosismi e dolcezza, sceglie una linea sobria, puntando tutto sulla zona centrale dove il canto raggiunge la maggior intensità sensuale.
Nell’Ottocento, questa era stata una caratteristica di alcuni tenori wagneriani (Siegfried nell’opera eponima, Walter von Stolzing ne “I maestri cantori”). Con il Des Grieux di “Manon Lescaut” si apre la strada, in Italia, ai personaggi costruiti sulla sensualità virile; si pensi a quelli concepiti per Enrico Caruso. Più sfumato l’eros della protagonista che, per esplodere, necessita del grande duetto del secondo atto. La parte è scritta per un soprano lirico puro e tale è stata interpretata sino agli anni Sessanta (si pensi a come il ruolo veniva cantato da Clara Petrella e da Virginia Zeani. Nel 1984, Giuseppe Sinopoli scelse un soprano lirico puro (Mirella Freni) per un’importante edizione discografica. In tempi più recenti, in seguito soprattutto alla interpretazione di Maria Callas e della coloratura da lei data all’aria del secondo atto (“In quelle trine morbide”), oltre che dal colore bruno da lei dato al duetto sempre del secondo atto (“Tu , tu amore tu”) e al finale “Sola, perduta, abbandonata”, si è favorita una tinta a volte più scura, sino al soprano drammatico di agilità – è stato per lustri il ruolo preferito da Renata Scotto al Metropolitan. Ancorato in gran misura al baritono verdiano è Lescaut. E tale il basso brillante Geronte de Ravoir.
In terzo luogo, la funzione dell’orchestrazione. In “Manon Lescaut”, l’orchestra non è essenzialmente di supporto al canto e all’azione scenica come nel melodramma verdiano. Ha assorbito, in parte, la lezione wagneriana del sinfonismo continuo nel golfo mistico. Quindi, l’organico si è ampliato e arricchito e ci sono momenti, come l’intermezzo, in cui la musica a programma, ossia il poema sinfonico, viene inclusa nel gioco scenico. Inizia quel processo di orchestrazione opulenta e impervia in cui la partitura è frastagliata e frammentata ma si ricompone di continuo in nuove unità. Un processo che avrà, in Puccini, il suo apogeo in “ La fanciulla del West”, ma a cui stava lavorando, in parallelo, in una piccola città provinciale della Moravia, priva di un vero e proprio teatro, nonché di una sala da concerto, Léos Janaceck. “Manon Lescaut” appartiene al Novecento storico quasi più per l’orchestrazione (che nelle esecuzioni e nelle recensioni riceve, spesso, poca attenzione) che per la vocalità. Se nelle voci si apre con un sublime “chiacchierar cantando” (quanto dovette imparare Strauss da “Manon Lescaut”!) e si giunge ai turgidi “La” del duetto della frenesia erotica del secondo atto, in orchestra, il grande organico si deve cimentare con una scrittura frammentata, spezzata e ricostruita.
E’ a questo proposito che la “Manon Lescaut” presentata a Torre del Lago ha il carattere di una “prima” assoluta: introduce, all’inizio del secondo atto, un preludio riscoperto negli archivi Ricordi di recente, ma mai incluso in rappresentazioni sceniche (pur se ne esiste una registrazione di Chailly in un disco dedicato a rarità pucciniane). Tale preludio è in gran misura frutto della travagliata scrittura del libretto che avrebbe dovuto avere un atto sulla vita d’amore di Manon e del Cavaliere prima della perdizione e dell’una e dell’altro. L’atto venne eliminato, ma il preludio, pur se composto, non si adattava alla “nuova versione” del secondo atto, quella nella magione di Geront. E’ stato Alberto Veronesi ad accorgersi come rappresenti un utile interludio tra narrativo e mnemonico: Manon ricorda la felicità, pur se in povertà con Des Grieux, prima di rituffarsi nelle peccaminose “trine morbide” dell’enorme letto nel suo appartamento a casa Geront.
E’ proprio la lettura orchestrale, affidata a Alberto Veronesi, un aspetto di rilievo dell’esecuzione. Veronesi scava nella partitura mostrandone il languore, la passione e l’eros. Nonché il contorno di un Settecento evocato con ironia e in cui l’Italietta di fine Ottocento prendeva in giro se stessa, ad esempio nel “chiacchierar cantando” del primo atto e nelle scene delle lezioni di musica e di ballo del secondo. Particolarmente efficace il contrappunto orchestrale di grande intensità drammatica al concertato del terzo atto (“delle cortigiane”, per utilizzare il lessico pudico del carteggio tra librettisti e compositore durante la stesura dell’opera). L’orchestra, infine, avvolge cupa tutta le scena del breve quarto atto. L’intermezzo si è meritato un applauso a scena aperta, nonostante fosse infastidito da un inutile balletto. In questi anni, l’orchestra del Festival Puccini è cresciuta notevolmente, grazie alle attenzioni del suo maestro concertatore e ai confronti in tournée internazionali.
Due voci di grandi livello internazionale incarnano Manon ed il Cavaliere. Martina Serafin è conosciuta per le sue interpretazioni wagneriane e per la sua “Tosca romana” nel gennaio 2008). E’ una Manon più vicina a quella di Renata Scotto che a quella di Mirella Freni. Passionale, calda, sensuale, abilissima nell’emissione, risplende nelle arie e nei duetti: da un colore wagneriano a “Sola, perduta, abbandonata” ricordandoci come Puccini fosse stato il solo compositore italiano inviato dalla Casa Ricordi a Bayreuth per toccare sul vivo cosa fosse “la musica dell’avvenire”. Marcello Giordani è oggi il tenore più amato e più acclamato al Metropolitan. Magnifico nel duetto Tu, tu amore tu”, in “Donna non vidi mai” e in “No pazzo son io”, quando si è meritato applausi a scena aperta. Efficace Alessandro Guerzoni (Geronte), senza infamia e senza lode Giovanni Guagliardo (Lescaut), a corto di volume Cristiano Olivieri (Edmondo). Le noti dolenti vengono dalla regia, inesistente prima ancora che tradizionale, di Paul-Emile Fourny: non cura la recitazione e inzeppa la scena di inutili mimi e ballerini. Curiosa la scena di Poppi Ranchetti: una riproduzione del Ninfeo del Bramante a Genazzano con apertura sul lago e specchi in cui appaiono immagini oniriche della vita di Manon.
(Hans Sachs) 5 ago 2009 12:39
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1 commento:
Salve, sto ancora aspettando una risposta al commento relativo al post SCHELETRI NELL’ARMADIO DEL PRESIDENTE PRODI del 19 Luglio.
Vorrei solo sapere da dove è stata presa la notizia, visto che su IL TEMPO quest'articolo non esiste.
Potrei avere il link dell'articolo, se esiste?
Grazie.
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