Roma, 13 ago (Velino) - “La scala di seta”, secondo spettacolo del Rossini Opera Festival (Rof) che si sta tenendo a Pesaro, risolleva la manifestazione dalla caduta rappresentata dall’allestimento di “Zelmira”. “La scala di seta” è una delle farse e operine in un atto composte da Rossini, più o meno ventenne, in due anni di lavoro per teatri veneziani di piccole dimensioni. Nel suo ultimo libro “Rossini. L’uomo, la musica” (Bompiani 2009), Giovanni Carli Ballola scrive correttamente che in queste “farse veneziane, Rossini ha trovato prontamente una formula sua e la cavalca allegramente come un giovane stallone focoso”. Carli Ballola parla di “demone” e di “furia creativa” che nel giro di pochi mesi avrebbero consentito all’artista pesarese di comporre sei opere (quattro farse in un atto, un’opera buffa e un opera oratorio) e di diventare da compositore di provincia autore di rilevanza nazionale conteso dalla Scala, dalla Fenice e dal San Carlo. Le farse – scrive un altro musicologo, Bruno Cagli – passarono di moda presto perché era cambiato il gusto del tempo (incalzava il melodramma romantico). In effetti, sparirono dai cartelloni dei teatri principali ma restarono, anche nell’Ottocento e nel Novecento, nei teatri secondari delle grandi città e in quelli di provincia: richiedono allestimenti semplici (oggi si direbbe low cost), sono adatte a voci giovani, hanno e trasmettono brio.
Al Rof, “ La scala di seta” è stata messa in scena in un allestimento esemplare dal giovane enfant prodige del teatro di regia italiano Damiano Michieletto (scene e costumi di Paolo Fantin), destinato a essere ripreso, anche in quanto low cost, da molti teatri, innanzitutto da circuiti come quelli emiliano, lombardo e toscano-romagnolo e anche da grandi templi della lirica. Anche qui uno specchio domina l’impianto scenico, ma è essenziale per mostrare, dall’alto, i vari locali in cui si svolge la vicenda basata su intrighi tra due coppie e un burbero tutore con lieto fine per tutti. E’ una regia imperniata su un concetto forte, con una recitazione accurata, una scena unica che dà l’impressione di muoversi tra almeno cinque locali differenti. L’andamento è veloce e spigliato, interrotto unicamente da un breve intervallo. Ci si diverte dall’inizio alla fine e si esce dal teatro contenti e lieti di concludere la serata con un piatto di strozzapreti in una delle osterie dei paraggi.
Se regia, scene e costumi sono di un’équipe giovane ma preparata ed astuta e l’Orchestra Haydn di Bolzano e Trento è anch’essa composta da giovani elementi, la bacchetta è nelle dita di Claudio Scimone, uno dei direttori più esperti in questo tipo di repertorio. Assente dal Rof per lustri, è un’ottima notizia che sia stato di nuovo invitato e si spera possa essere visto più spesso al festival pesarese. Il cast è tutto di ottimo livello. Spicca Carlo Lepore, un Blansac atletico (pur se il basso non è proprio snello) nell’azione scenica e nell’agilità vocale. Di qualità e con un’ottima dizione italiana Olga Peretyatko (Giulia), la protagonista e José Manuel Zapata (Dorvil). Ineccepibili le caratterizzazioni di Daniele Zanfardino (Dormont), Anna Malavasi (Lucilla) e Paolo Bordogna (Germano).
(Hans Sachs)
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