Madama Butterfly, Otello e
Tristano. Sipari alzati a Milano, Napoli e Roma
Tre dei maggiori teatri italiani hanno inaugurato la
stagione con un tris di opere dal grande impatto scenico. Riservando qualche
sorpresa. Ecco il nostro report da Milano, Napoli e Roma.
Scritto da Giuseppe
Pennisi | lunedì, 19 dicembre 2016 · 0
Madama
Butterfly – photo Brescia-Amisano – Teatro alla Scala
L’opera è in
crisi? Non certo a giudicare dalle tre prime serate inaugurali di stagione:
black ties, abiti da sera, cene di gala al termine dello spettacolo. E,
soprattutto, titoli rari.
Rarissimo quello che la sera di Sant’Ambrogio ha inaugurato il programma del Teatro alla Scala di Milano: la prima versione di Madama Butterfly di Giacomo Puccini, che nel febbraio 1904 venne irrimediabilmente bocciata da platea, palchi e loggione. Rifatta dal compositore e dai suoi librettisti (la ditta Illica e Giacosa), la versione normalmente messa in scena è quella approntata nel 1906 per il Théâtre des Italiens a Parigi. L’elemento più importante dell’edizione scaligera è stato il modo in cui Alvis Hermanis (regia), Riccardo Chailly (maestro concertatore) e tutti gli interpreti hanno affrontato una trama con più di un cenno al razzismo e alla prostituzione infantile. Il regista e il suo “creative team” (Leila Fteita, Kristine Jurjäne e Gleb Filshtinki, Alla Sigalova, Ineta Sipunova rispettivamente per scene, costumi, luci, coreografia, video) hanno come riferimento le giapponeserie del periodo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.
Rarissimo quello che la sera di Sant’Ambrogio ha inaugurato il programma del Teatro alla Scala di Milano: la prima versione di Madama Butterfly di Giacomo Puccini, che nel febbraio 1904 venne irrimediabilmente bocciata da platea, palchi e loggione. Rifatta dal compositore e dai suoi librettisti (la ditta Illica e Giacosa), la versione normalmente messa in scena è quella approntata nel 1906 per il Théâtre des Italiens a Parigi. L’elemento più importante dell’edizione scaligera è stato il modo in cui Alvis Hermanis (regia), Riccardo Chailly (maestro concertatore) e tutti gli interpreti hanno affrontato una trama con più di un cenno al razzismo e alla prostituzione infantile. Il regista e il suo “creative team” (Leila Fteita, Kristine Jurjäne e Gleb Filshtinki, Alla Sigalova, Ineta Sipunova rispettivamente per scene, costumi, luci, coreografia, video) hanno come riferimento le giapponeserie del periodo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.
Madama Butterfly
– photo Brescia-Amisano – Teatro alla Scala
IL GIAPPONE
SECONDO PUCCINI
Si tratta di una soluzione eccellente, perché, mostrando il Giappone dal punto di vista europeo, la lettura del mondo nipponico è surreale e affascinante, senza offrire una piena comprensione del suo lato più intimo. Il risultato è coerente, in quanto Puccini, a sua volta, si basava su un atto unico (all’epoca molto di moda) dell’americano David Belasco (che conosceva il Giappone di maniera) e sul libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, due mestieranti della professione. L’impatto visivo è senza dubbio straordinario.
Anche la bacchetta di Riccardo Chailly cala la “tragedia giapponese” nel clima musicale dell’epoca, quando si stava affinando la “seconda scuola di Vienna” e quando Strauss, con Elektra e Salome, stava rivoluzionando la “scrittura musicale”. Non va dimenticato che Puccini si considerava culturalmente vicino agli Imperi Centrali e alla loro musica. Si avvertono echi straussiani nella dissonanza, nella mancanza di veri e propri numeri musicali “all’italiana” (se si eccettua Un bel dì vedremo), nell’approccio alla “musica nuova” guardando al di là delle Alpi. Eccellente Maria Josè Siri nel ruolo della protagonista. Perfetta nella emissione e davvero commovente nella seconda parte, quando comprende di essere stata beffata ed è costretta, per il bene del figlio, a dare quanto di più prezioso possiede alla “nuova” moglie americana di Pinkerton. Di grande esperienza lo Sharpless di Carlos Älvarez. Molte attese per l’americano Bryan Hymel, noto oltreoceano per le sue esperienza belcantiste, che offre un Pinkerton piuttosto tradizionale. Di grande impatto, invece, Annalisa Stroppa nel ruolo struggente di Suzuki.
Si tratta di una soluzione eccellente, perché, mostrando il Giappone dal punto di vista europeo, la lettura del mondo nipponico è surreale e affascinante, senza offrire una piena comprensione del suo lato più intimo. Il risultato è coerente, in quanto Puccini, a sua volta, si basava su un atto unico (all’epoca molto di moda) dell’americano David Belasco (che conosceva il Giappone di maniera) e sul libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, due mestieranti della professione. L’impatto visivo è senza dubbio straordinario.
Anche la bacchetta di Riccardo Chailly cala la “tragedia giapponese” nel clima musicale dell’epoca, quando si stava affinando la “seconda scuola di Vienna” e quando Strauss, con Elektra e Salome, stava rivoluzionando la “scrittura musicale”. Non va dimenticato che Puccini si considerava culturalmente vicino agli Imperi Centrali e alla loro musica. Si avvertono echi straussiani nella dissonanza, nella mancanza di veri e propri numeri musicali “all’italiana” (se si eccettua Un bel dì vedremo), nell’approccio alla “musica nuova” guardando al di là delle Alpi. Eccellente Maria Josè Siri nel ruolo della protagonista. Perfetta nella emissione e davvero commovente nella seconda parte, quando comprende di essere stata beffata ed è costretta, per il bene del figlio, a dare quanto di più prezioso possiede alla “nuova” moglie americana di Pinkerton. Di grande esperienza lo Sharpless di Carlos Älvarez. Molte attese per l’americano Bryan Hymel, noto oltreoceano per le sue esperienza belcantiste, che offre un Pinkerton piuttosto tradizionale. Di grande impatto, invece, Annalisa Stroppa nel ruolo struggente di Suzuki.
Otello –
photo Luciano Romano
OTELLO E
ROSSINI A NAPOLI
Una rarità è anche Otello di Gioacchino Rossini, che ha inaugurato, il 30 novembre, la stagione del Teatro San Carlo, nel secondo centenario dalla prima assoluta, andata in scena proprio a Napoli. Allora fu un enorme successo, ora l’opera è in scena di rado. Ciò è da imputarsi sia alla fragilità del libretto sia alle difficoltà vocali, non ultima quella di disporre di tre tenori per controbilanciare un soprano di agilità, esteso tanto verso acuti spericolati quanto verso un registro molto grave.
L’opera attinge solo in parte dall’Otello di Shakespeare, più nitidi sono invece i riferimenti a quello di Jean François Ducis, del 1792. Il protagonista non è il Moro (definito da Stendhal “poco tormentato, poco tenero e molto vanitoso, che sconvolto fa un’isterica follia e arriva a uccidere”) ma Desdemona, torturata dall’amore per il padre, che vuole darla in moglie al figlio del Doge mentre ella è già sposa segreta di Otello. Ciò spiega perché la regia di Amos Gitai, che ha ricevuto anche qualche fischio, poco si integri sia con le monumentali scene rinascimentali di Dante Ferretti sia con l’azione. Gitai vede nell’Otello rossiniano un contrasto di civiltà (alcune proiezioni fanno riferimento alla guerra in Medio Oriente). Una regia forse appropriata all’Otello verdiano, ma poco in linea con una partitura delicata e una scrittura vocale dominata da vocalizzi e coloratura.
Di altissimo livello la parte musicale. Con Gabriele Ferro, l’orchestra del San Carlo è in grande spolvero. Nino Machaidze è la protagonista assoluta della serata, sia sotto il profilo vocale sia scenico, con un distinto sviluppo psicologico. John Osborn (Otello), Dmitry Korchak (Rodrigo) e Juan Francisco Gatell (Iago) sono i tre tenori di grande livello che la circondano. Una squadra che pochi teatri sarebbero in grado di mettere insieme.
Una rarità è anche Otello di Gioacchino Rossini, che ha inaugurato, il 30 novembre, la stagione del Teatro San Carlo, nel secondo centenario dalla prima assoluta, andata in scena proprio a Napoli. Allora fu un enorme successo, ora l’opera è in scena di rado. Ciò è da imputarsi sia alla fragilità del libretto sia alle difficoltà vocali, non ultima quella di disporre di tre tenori per controbilanciare un soprano di agilità, esteso tanto verso acuti spericolati quanto verso un registro molto grave.
L’opera attinge solo in parte dall’Otello di Shakespeare, più nitidi sono invece i riferimenti a quello di Jean François Ducis, del 1792. Il protagonista non è il Moro (definito da Stendhal “poco tormentato, poco tenero e molto vanitoso, che sconvolto fa un’isterica follia e arriva a uccidere”) ma Desdemona, torturata dall’amore per il padre, che vuole darla in moglie al figlio del Doge mentre ella è già sposa segreta di Otello. Ciò spiega perché la regia di Amos Gitai, che ha ricevuto anche qualche fischio, poco si integri sia con le monumentali scene rinascimentali di Dante Ferretti sia con l’azione. Gitai vede nell’Otello rossiniano un contrasto di civiltà (alcune proiezioni fanno riferimento alla guerra in Medio Oriente). Una regia forse appropriata all’Otello verdiano, ma poco in linea con una partitura delicata e una scrittura vocale dominata da vocalizzi e coloratura.
Di altissimo livello la parte musicale. Con Gabriele Ferro, l’orchestra del San Carlo è in grande spolvero. Nino Machaidze è la protagonista assoluta della serata, sia sotto il profilo vocale sia scenico, con un distinto sviluppo psicologico. John Osborn (Otello), Dmitry Korchak (Rodrigo) e Juan Francisco Gatell (Iago) sono i tre tenori di grande livello che la circondano. Una squadra che pochi teatri sarebbero in grado di mettere insieme.
Tristan und
Isolde – ®Yasuko Kageyama-Opera Roma, 2016
TRISTANO,
ISOTTA E WAGNER A ROMA
Il 27 novembre la stagione del Teatro dell’Opera di Roma è stata inaugurata da Tristan und Isolde di Richard Wagner, cinque ore e mezzo di spettacolo. Co-prodotta con il Théâtre des Champs Elysées di Parigi e con De Nationale Opera di Amsterdam, la messa in scena è il frutto di una stretta collaborazione tra Daniele Gatti e il regista Pierre Audi e il suo team creativo (Willems Bruls per la drammaturgia, Christof Herter per scene e costumi, Jean Kalman per le luci e Anna Bertsch per i video).
La regia di Pierre Audi e dei suoi collaboratori, in sintonia con i tempi dilatati di Gatti, presenta un Tristan und Isolde quasi visto attraverso il filtro della memoria: i frammenti astratti della nave, i denti delle balene, le rocce che fanno sentire la vicinanza del mare. Questa visione, al tempo stesso onirica e simbolica dell’opera ha una sua coerenza, costruita sui dettagli. Ad esempio, il mare si intravede sempre, ma non si vede mai: nel primo atto, la scena mostra i frammenti della nave che conduce Isotta dall’Irlanda alla Cornovaglia, nel secondo atto il giardino del castello di Re Marco viene mostrato tramite una pianura (o una spiaggia?) costellata di denti di balene, nel terzo i ruderi del castello di Tristano in Bretagna sono scogli su cui si infrange il mare solcato dal battello di Re Marco con Isotta. L’orchestra del Teatro dell’Opera di Roma (trovata un po’ sciatta nel 2006, durante la più recente esecuzione di Tristan und Isolde nel teatro della capitale) fa miracoli sotto la direzione di Gatti, il quale esalta i singoli strumenti (quali il clarinetto) e mantiene un equilibrio perfetto tra buca e palcoscenico, infondendo un clima quasi sognante a tutta la partitura.
Nella lunga notte del secondo atto – la prima e ultima volta in cui, dopo l’improvviso innamoramento, i due amanti si vedono (quasi) da soli – i protagonisti invocano l’unione tra eros e thanatos ma, fisicamente, si sfiorano appena. Concettualizzano l’amore, anzi la lussuria sublime e completa (höchste Lust) considerata possibile unicamente nell’aldilà. Tristano è Andreas Schager, che nel 2016 debuttò al Teatro dell’Opera di Roma in Rienzi, mentre alla Scala ha dato la voce a Siegfried. Non solamente ha retto, senza un cenno di stanchezza, la difficilissima parte (nel solo terzo atto il suo sofferto monologo dura tre quarti d’ora), ma ha sfatato una leggenda: quella secondo cui il ruolo sarebbe stato scritto per un bari-tenore o per un tenore con la voce brunita. Wagner concepì il ruolo per un tenore lirico spinto. Schager ha un timbro chiaro e un magnifico acuto.
La Isotta di Rachell Nicholls è anch’essa di grande rilievo, ma è arrivata stanca al finale e nel primo atto, a volte, ha “strillato” il suo lungo monologo. Brett Polegato e John Relyas sono ottimi nei ruoli di Kurwenal e Re Marco. Michelle Breedt è una Brangania di lungo corso. Bravi tutti gli altri.
Il 27 novembre la stagione del Teatro dell’Opera di Roma è stata inaugurata da Tristan und Isolde di Richard Wagner, cinque ore e mezzo di spettacolo. Co-prodotta con il Théâtre des Champs Elysées di Parigi e con De Nationale Opera di Amsterdam, la messa in scena è il frutto di una stretta collaborazione tra Daniele Gatti e il regista Pierre Audi e il suo team creativo (Willems Bruls per la drammaturgia, Christof Herter per scene e costumi, Jean Kalman per le luci e Anna Bertsch per i video).
La regia di Pierre Audi e dei suoi collaboratori, in sintonia con i tempi dilatati di Gatti, presenta un Tristan und Isolde quasi visto attraverso il filtro della memoria: i frammenti astratti della nave, i denti delle balene, le rocce che fanno sentire la vicinanza del mare. Questa visione, al tempo stesso onirica e simbolica dell’opera ha una sua coerenza, costruita sui dettagli. Ad esempio, il mare si intravede sempre, ma non si vede mai: nel primo atto, la scena mostra i frammenti della nave che conduce Isotta dall’Irlanda alla Cornovaglia, nel secondo atto il giardino del castello di Re Marco viene mostrato tramite una pianura (o una spiaggia?) costellata di denti di balene, nel terzo i ruderi del castello di Tristano in Bretagna sono scogli su cui si infrange il mare solcato dal battello di Re Marco con Isotta. L’orchestra del Teatro dell’Opera di Roma (trovata un po’ sciatta nel 2006, durante la più recente esecuzione di Tristan und Isolde nel teatro della capitale) fa miracoli sotto la direzione di Gatti, il quale esalta i singoli strumenti (quali il clarinetto) e mantiene un equilibrio perfetto tra buca e palcoscenico, infondendo un clima quasi sognante a tutta la partitura.
Nella lunga notte del secondo atto – la prima e ultima volta in cui, dopo l’improvviso innamoramento, i due amanti si vedono (quasi) da soli – i protagonisti invocano l’unione tra eros e thanatos ma, fisicamente, si sfiorano appena. Concettualizzano l’amore, anzi la lussuria sublime e completa (höchste Lust) considerata possibile unicamente nell’aldilà. Tristano è Andreas Schager, che nel 2016 debuttò al Teatro dell’Opera di Roma in Rienzi, mentre alla Scala ha dato la voce a Siegfried. Non solamente ha retto, senza un cenno di stanchezza, la difficilissima parte (nel solo terzo atto il suo sofferto monologo dura tre quarti d’ora), ma ha sfatato una leggenda: quella secondo cui il ruolo sarebbe stato scritto per un bari-tenore o per un tenore con la voce brunita. Wagner concepì il ruolo per un tenore lirico spinto. Schager ha un timbro chiaro e un magnifico acuto.
La Isotta di Rachell Nicholls è anch’essa di grande rilievo, ma è arrivata stanca al finale e nel primo atto, a volte, ha “strillato” il suo lungo monologo. Brett Polegato e John Relyas sono ottimi nei ruoli di Kurwenal e Re Marco. Michelle Breedt è una Brangania di lungo corso. Bravi tutti gli altri.
Giuseppe
Pennisi
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