Classica
Santa
Cecilia, stagione al via tra Beethoven e “contemporanei”
ROMA
Sabato, con i
circa tremila posti della Sala Santa Cecilia stracolmi (e alcuni spettatori in
piedi in fondo alla sala), è stata inaugurata la stagione 2015-2016
dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia. Il programma introduttivo di cinque
concerti comporta l’integrale (sino al 3 novembre) delle nove sinfonie di
Beethoven affiancate a opere di contemporanei. Il titolo è volutamente ambiguo:
tre dei contemporanei sono italiani dei nostri giorni (Francesconi, Sollima,
Nieder) e due contemporanei di Beethoven, ma italiani e di lui molto differenti
(i “compositori imperiali” Spontini e Cherubini).
È una proposta
intelligente, che coniuga le aspirazioni degli abbonati (che avevano espresso
critiche nei confronti del programma 20142015, da molti giudicato troppo
«novecentesco») con l’esecuzione di opere prime (sovente commissionate dalla
stessa Accademia di Santa Cecilia) di compositori italiani viventi – i cui
lavori vengono suonati più spesso nel resto del mondo che in Italia – o di
compositori, anch’essi italiani, che hanno prodotto molto all’estero (Francia,
Prussia) e le cui opere sono in repertorio di teatri stranieri ma che da noi
sono raramente eseguite. Occorre dire che pastiche di questa natura non sono insoliti a Antonio Pappano,
direttore musicale dell’Accademia e dei cinque concerti: la scorsa stagione ha
presentato Il prigioniero di Dallapiccola, inserito (senza
intervalli o altra soluzione di continuità) in due brani del Fidelio di Beethoven. Erano frequenti in epoca barocca e sono
ancora spesso nei programmi musicali della Gran Bretagna (dove Pappano è nato e
cresciuto) e degli Stati Uniti (anche alla tradizionalista Metropolitan Opera
House). Se il buon giorno si vede dal mattino, l’idea è stata accolta con
grande favore dati gli applausi al lavoro di Francesconi, che ha aperto la
serata, e agli oltre dieci minuti di vere e proprie ovazioni al termine. Il
primo concerto si basa su un architrave forte (non sempre presente nei quattro
successivi): il brano di Francesconi (tratto da scritti di Nelson Mandela) è
una preghiera all’Alto perché dia agli uomini Bread, water and salt (“Pane, acqua e sale”), il titolo del lavoro e
soprattutto “libertà” (l’invocazione finale). È un inno anche l’Ode con cui si
conclude la Nona di Beethoven. Il testo del lavoro di
Francesconi è parte in inglese e parte in xhosa (una delle lingue più diffuse
in Sudafrica). La composizione è per grande organico (con rilievo ai fiati,
agli ottoni ed alle percussioni), coro e un soprano drammatico (Pumeza
Matshikiza che ricorda Miriam Makeba). In una partitura tonale e fortemente
drammatica appaiono echi di musica africana. Anche se dura solo venti minuti,
si presta a un’esecuzione scenica – quindi molto vicina all’indole di Pappano
(la cui carriera è fortemente impregnata di esperienze teatrali).
Anche alla
notissima Sinfonia n. 9 in re
minore op. 125 di
Beethoven (eseguita a Roma quasi una volta l’anno), Pappano dà un’impostazione
drammatica. Molto stringenti i tempi del primo e del secondo movimento,
dilatato e dolcissimo l’adagio molto e cantabile e l’andante moderato del terzo
e quasi melodrammatico il quarto in cui intervengono i solisti (notevole il
basso Michael Volle) ed il coro sino all’esplosione dell’Ode alla gioia, anche essa intesa da Beethoven come una preghiera
(alla prima esecuzione l’autore la fece precedere dal
Kyrie, dal Credo e dall’Agnus della Missa solemnis), rimuovendo quella ambiguità di una composizione,
intesa in senso libertario (ad esempio, nel coro spontaneo di alcuni tedeschi
all’arrivo dei rifugiati siriani alla stazione di Monaco di Baviera il 4
settembre scorso) ma anche nazionalista-autoritario (il quarto movimento era di
prammatica nelle adunate naziste).
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Pappano
intreccia le sinfonie con le note degli italiani vissuti al tempo del genio di
Bonn ma ormai trascurati in patria (Spontini, Cherubini) e con le composizioni
scritte appositamente per l’Accademia romana da Nieder, Francesconi e Sollima
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