di Giuseppe Pennisi
Dopo
le notizie dei compensi pagati all’ex Ministro delle Finanze greco Varoufakis
per una comparsata in Rai, la grande maggioranza degli italiani si chiede
perché pagare il canone Rai e se occorra mantenere in vita l’azienda. Si
profila una rivolta contro il pagamento del canone nella bolletta elettrica,
sempre che la misura sia fattibile dato che comporta convenzione con un
centinaio di aziende, costrette ad addossarsi un compito , ed un costo, non di
loro pertinenza.
Una
Spa di Stato per la tv era comprensibile come monopolio tecnico sino all’inizio
degli anni Cinquanta. Da allora non lo è più. Tanto meno lo è da quando il
digitale terrestre rende possibile centinaia di canali per svolgere “servizio
pubblico” in linea con le esigenze dei territori. Non solo per finanziare la
Rai si utilizza l’imposta di scopo il canone più odiata dagli italiani ma,
voltate le spalle a una funzione sociale e culturale, alla stessa funzione di
intrattenimento gli italiani hanno risposto voltando le spalle, come dimostrato
dagli ascolti all’ultimo (costosissimo) Festival di Sanremo. La stesse liti tra
dirigenti Rai non interessano più nessuno, come mostrato dal poco spazio
dedicato all’ultima dalla stampa nazionale. Quindi, privatizzare ciò che resta
della Rai pare cosa buona e giusta.
Ed è
anche semplice, se si riprende un’idea che con Steve H. Hanke di Johns Hopkins
University (grande consulente in privatizzazioni) lanciai senza grande successo
alcuni anni fa. Visto il tracollodei conti e degli ascolti, ora ha forse
maggiori chance. Nella situazione attuale la Rai avrebbe difficoltà a trovare
altri acquirenti che non fossero la Croce Rossa, la Comunità di Sant’Egidio, la
Caritas o simili. Sempre che l’avessero a prezzo zero e con mani libere nel
rimettere in sesto ciò che resta di un’azienda per decenni in monopolio e
desiderosa di tornare a essere la sola del settore in Italia, in Europa e
perché no? nell’universo mondo. Occorre utilizzare immaginazione, esperienza e
fegato. È una prova seria per il Presidente del Consiglio.
Il
primo passo può sembrare bizzarro: collegare la privatizzazione della Rai alla
nascita di una vera previdenza complementare per gli italiani, le cui pensioni
Inps sembrano essere sempre più striminzite. Si coglierebbero così due piccioni
con una fava. Il secondo consiste nel renderla una vera public company.
Dovrebbe esserne lieto per primo il Partito democratico, che tanto si è speso
per il secondo pilastro previdenziale e per le public company. Il precedente
importante è il modo in cui sono state realizzate le privatizzazioni e i fondi
pensioni in vaste aree dell’America Latina, dell’Europa Centro Orientale e
dell’Asia. In pratica, significa dare azioni Rai a tutti gli italiani.
Seguendo
quale metodo? L’età anagrafica. Quanto più si è anziani tanto più si è pagato
il canone (e ci si è sorbiti Bonolis, Baudo, Carrà e quant’altro), avendo
dunque titolo a un risarcimento con titoli da impiegare per la tarda età. Le
azioni sarebbero vincolate per un lasso di tempo ad esempio, cinque anni a
non essere poste sul mercato ma a essere destinate a un fondo pensione aperto
(e ad ampia portabilità) a scelta dell’interessato, il quale però manterrebbe
tutti i diritti (elezione degli organi di governo, vigilanza sul loro operato,
definizione dei loro emolumenti) di un azionista (in base alle azioni di cui è
titolare sin dal primo giorno). Gli azionisti deciderebbero se scorporare le
reti. Unica regola: pareggio di bilancio. Il management dell’intera Rai (o di
una rete) che non ci riuscisse sarebbe passibile di azione di responsabilità e,
ai sensi della normativa societaria in vigore, la liquidazione diventerebbe
obbligatoria se l’indebitamento superasse certi parametri. E il “servizio
pubblico”? Nell’età della Rete delle reti ci bada Internet: già adesso tutti i
dicasteri, le Regioni, i Comuni, le Comunità Montane dispongono di siti interattivi.
I siti di informazione e controinformazione pullulano tanto generalisti
quanto specializzati.
Non
siamo più ai tempi dell’Eiar, anche se il Partito Rai vorrebbe tornare a tempi
staraciani o leninisti, come la protagonista del film “Goodbye, Lenin” di una
ventina d’anni fa. E la cultura? In primo luogo, pensiamo che gli italiani
siano meno imbecilli di chi compila gli attuali palinsesti: una Rai che
risponde al popolo azionista proporrà più cultura dell’attuale (come dimostrano
gli abbonamenti a canali culturali digitali). In secondo luogo, si potrebbero
prevedere agevolazioni tributarie per gli sponsor, quale che sia la rete
(denazionalizzata o privata) che scelgono. Oppure ancora adottare forme di “tax
credit” per chi produce prodotti televisivi culturali come avviene con
successo nel settore del cinema.
È un
miraggio? No, è la modernizzazione, bellezza! Quella che farebbe fare un vero
scatto al Pil. E i dirigenti e gli autori Rai che perderebbero lavoro? Per loro
si apre una strada tramite l’Agenzia per la Cooperazione Internazionale che sta
per essere creata. Potrebbero essere inviati, sino all’età della pensione, in
Paesi in via di sviluppo – meglio se a partito unico per aiutarli a metter su
le loro televisioni di Stato.
Giuseppe
Pennisi
Presidente Comitato scientifico del Centro studi ImpresaLavoro
Presidente Comitato scientifico del Centro studi ImpresaLavoro