venerdì 30 ottobre 2015

Rai: privatizzare è buono, giusto e semplice in Centro Stui Impresa lavoro del 30 ottobre



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di Giuseppe Pennisi
Dopo le notizie dei compensi pagati all’ex Ministro delle Finanze greco Varoufakis per una comparsata in Rai, la grande maggioranza degli italiani si chiede perché pagare il canone Rai e se occorra mantenere in vita l’azienda. Si profila una rivolta contro il pagamento del canone nella bolletta elettrica, sempre che la misura sia fattibile dato che comporta convenzione con un centinaio di aziende, costrette ad addossarsi un compito , ed un costo, non di loro pertinenza.
Una Spa di Stato per la tv era comprensibile come monopolio tecnico sino all’inizio degli anni Cinquanta. Da allora non lo è più. Tanto meno lo è da quando il digitale terrestre rende possibile centinaia di canali per svolgere “servizio pubblico” in linea con le esigenze dei territori. Non solo per finanziare la Rai si utilizza l’imposta di scopo ­ il canone ­ più odiata dagli italiani ma, voltate le spalle a una funzione sociale e culturale, alla stessa funzione di intrattenimento gli italiani hanno risposto voltando le spalle, come dimostrato dagli ascolti all’ultimo (costosissimo) Festival di Sanremo. La stesse liti tra dirigenti Rai non interessano più nessuno, come mostrato dal poco spazio dedicato all’ultima dalla stampa nazionale. Quindi, privatizzare ciò che resta della Rai pare cosa buona e giusta.
Ed è anche semplice, se si riprende un’idea che con Steve H. Hanke di Johns Hopkins University (grande consulente in privatizzazioni) lanciai senza grande successo alcuni anni fa. Visto il tracollodei conti e degli ascolti, ora ha forse maggiori chance. Nella situazione attuale la Rai avrebbe difficoltà a trovare altri acquirenti che non fossero la Croce Rossa, la Comunità di Sant’Egidio, la Caritas o simili. Sempre che l’avessero a prezzo zero e con mani libere nel rimettere in sesto ciò che resta di un’azienda per decenni in monopolio e desiderosa di tornare a essere la sola del settore in Italia, in Europa e ­ perché no?­ nell’universo mondo. Occorre utilizzare immaginazione, esperienza e fegato. È una prova seria per il Presidente del Consiglio.
Il primo passo può sembrare bizzarro: collegare la privatizzazione della Rai alla nascita di una vera previdenza complementare per gli italiani, le cui pensioni Inps sembrano essere sempre più striminzite. Si coglierebbero così due piccioni con una fava. Il secondo consiste nel renderla una vera public company. Dovrebbe esserne lieto per primo il Partito democratico, che tanto si è speso per il secondo pilastro previdenziale e per le public company. Il precedente importante è il modo in cui sono state realizzate le privatizzazioni e i fondi pensioni in vaste aree dell’America Latina, dell’Europa Centro Orientale e dell’Asia. In pratica, significa dare azioni Rai a tutti gli italiani.
Seguendo quale metodo? L’età anagrafica. Quanto più si è anziani tanto più si è pagato il canone (e ci si è sorbiti Bonolis, Baudo, Carrà e quant’altro), avendo dunque titolo a un risarcimento con titoli da impiegare per la tarda età. Le azioni sarebbero vincolate per un lasso di tempo ­ ad esempio, cinque anni ­ a non essere poste sul mercato ma a essere destinate a un fondo pensione aperto (e ad ampia portabilità) a scelta dell’interessato, il quale però manterrebbe tutti i diritti (elezione degli organi di governo, vigilanza sul loro operato, definizione dei loro emolumenti) di un azionista (in base alle azioni di cui è titolare sin dal primo giorno). Gli azionisti deciderebbero se scorporare le reti. Unica regola: pareggio di bilancio. Il management dell’intera Rai (o di una rete) che non ci riuscisse sarebbe passibile di azione di responsabilità e, ai sensi della normativa societaria in vigore, la liquidazione diventerebbe obbligatoria se l’indebitamento superasse certi parametri. E il “servizio pubblico”? Nell’età della Rete delle reti ci bada Internet: già adesso tutti i dicasteri, le Regioni, i Comuni, le Comunità Montane dispongono di siti interattivi. I siti di informazione e contro­informazione pullulano ­ tanto generalisti quanto specializzati.
Non siamo più ai tempi dell’Eiar, anche se il Partito Rai vorrebbe tornare a tempi staraciani o leninisti, come la protagonista del film “Goodbye, Lenin” di una ventina d’anni fa. E la cultura? In primo luogo, pensiamo che gli italiani siano meno imbecilli di chi compila gli attuali palinsesti: una Rai che risponde al popolo azionista proporrà più cultura dell’attuale (come dimostrano gli abbonamenti a canali culturali digitali). In secondo luogo, si potrebbero prevedere agevolazioni tributarie per gli sponsor, quale che sia la rete (denazionalizzata o privata) che scelgono. Oppure ancora adottare forme di “tax credit” per chi produce prodotti televisivi culturali ­ come avviene con successo nel settore del cinema.
È un miraggio? No, è la modernizzazione, bellezza! Quella che farebbe fare un vero scatto al Pil. E i dirigenti e gli autori Rai che perderebbero lavoro? Per loro si apre una strada tramite l’Agenzia per la Cooperazione Internazionale che sta per essere creata. Potrebbero essere inviati, sino all’età della pensione, in Paesi in via di sviluppo – meglio se a partito unico ­ per aiutarli a metter su le loro televisioni di Stato.
Giuseppe Pennisi
Presidente Comitato scientifico del Centro studi ImpresaLavoro

Se l’Unione bancaria è un «gigante zoppo» con poca condivisione in Avvenire 30 ottobre



Se l’Unione bancaria è un «gigante zoppo» con poca condivisione
Non è nuova la proposta di valutare i titoli di Stato a valore di mercato (quindi, tenendo conto del rischio di insolvenza e quello di fallimento) in una Federazione o Confederazioni di Stati. Negli Stati Uniti il caso più recente è quello del Minnesota che nel non lontano 2011 dichiarò fallimento ed i titoli di Stato vennero, alla fine, rimborsati con uno sconto di circa il 50%. In numerosi Paesi, le plusvalenze e le minusvalenze dei titoli (pure di Stato) vengono valutate a fini tributari interni, a valore di mercato (non a quello nominale) quindi anche in base al rischio. Tuttavia, la richiesta presentata da diversi parlamentare europei ha verosimilmente un obiettivo più ampio: indebolire la nascente Unione Bancaria Europea, che già adesso è un gigante zoppo, sino a mantenerne un unico moncone: il coordinamento della vigilanza, con una parte affidata direttamente alla Bce. In effetti, è l’unico punto su cui convergono tutti.
Nel disegno iniziale, l’Ube sarebbe dovuta essere uno sgabello a tre gambe (quindi, ben saldo): a) procedura europea per la vigilanza bancaria (dando competenza alla Bce per le banche di maggiori dimensioni ed uniformando le regole per le altre, la cui vigilanza resta compito di istituzioni nazionali); b) un percorso comune per la soluzione dei nodi delle banche in dissesto; c) una garanzia comune per i depositi in conto corrente. Di questa tre gambe, unicamente la vigilanza sta facendo i primi passi. La seconda (il metodo europeo per i dissesti bancari) è così ingarbugliata da dubitare che verrà mai applicata: prevede che in segretezza(sic!) circa cento persone di una ventina di autorità nazionali e comunitarie, in un fine settimana (a mercati chiusi), prendano le decisioni del caso. La terza, la garanzia europea sui depositi, è stata accantonata, nonostante che in gran parte dei Paesi europei siano in vigore garanzie nazionali analoghe (sui 100.000 euro). In effetti, la garanzia europea è parsa come il grimaldello verso la condivisione del rischio, un primo passo (come sarebbero state varie forme di eurobonds) per una condivisione, pur solo parziale, del debito sovrano. È in questo contesto che si situa la proposta, emersa nel dibattito al Parlamento Europeo del metodo europeo per i dissesti bancari. Indebolisce ulteriormente una seconda gamba già così complessa da essere difficilmente operativa.
Se la proposta è approvata, il risultato complessivo sarebbe di rendere il gigante zoppo uno sgabello con una sola gamba.
Giuseppe Pennisi
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Festival di musica ed arte sacra in Avvenire 30 ottobre



Il festival
Roma, a San Pietro risuona la modernità della musica sacra
UROMA sciti la sera di giovedì in una stracolma Piazza San Pietro dove una leggera pioggia mitigava il caldo di un tardo scirocco, non si poteva non riflettere sulla modernità del concerto appena ascoltato. Per l’inaugurazione del XIV Festival internazionale di musica e arte sacra (dedicato a Giovanni Paolo II), è stato scelto un programma che amalgama differenti epoche e stili: per l’elevazione spirituale si ha la Messa solenne per santa Cecilia di Gounod del 1855, seguita durante la celebrazione dell’eucarestia della Messa di padre Rupert Mayer di Hans Berger (completata nel 2008), interpolata, però, durante la comunione, da un canto orasho in latino dei kakure kirshitan.
La Messa per santa Cecilia è strettamente legata alla Terza repubblica della borghesia e dell’industrializzazione trionfante: una scrittura semplice, ma al tempo stesso grandiosa e caratterizzata da una luce serena. Comporta un organico orchestrale di medie dimensioni (la Roma Sinfonietta), un coro (sempre Roma Sinfonietta) e tre solisti. Il tenore (Pierluigi Paolucci) ha nel Sanctus una vocalità “spinta” ed un’impostazione simile
a quella del protagonista dell’opera più nota di Gounod, il Faust. Il soprano Sachie Ueshima ha una bella intonazione, ma forse la parte avrebbe richiesto una voce più spessa. Buono il baritono David Ravignani.
Si passa poi, durante la celebrazione eucaristica officiata dal cardinal Cremaschi, alla prima italiana della Messa di padre Rupert Mayer di Hans Berger. Padre Rupert Mayer (1878-1945), beatificato nel 1987, è stato un gesuita che si oppose al nazismo. La Messa segue gli stilemi musicali della fine del Novecento per un lavoro che intende essere grandioso: un organico orchestrale più ampio, un doppio coro (il Montini Chor), una scrittura orchestrale più possente che raffinata, echi di musica americana, testo nella lingua del Paese (qui, tedesco). Al momento della comunione, il lavoro di Berger viene amalgamato con un dolcissimo canto orasho della “Chiesa del silenzio” giapponese di circa tre secoli fa eseguito dal nipponico IlliminArt Philharmonic Chorus. L’innesto funziona perfettamente. Al termine, il tenore ha ripreso il Sanctus di Gounod quasi a riaffermare che la musica classica è sempre contemporanea. Il vero coup de théâtre del concerto è la giovane direttrice Tomoni Nishimoto, che domina un complesso organico.
Il festival prosegue nelle basiliche romane sino al 4 novembre sia con concerti monografici (ad esempio il Requiem verdiano o la Settima e l’Ottava sinfonia di Beethoven eseguite dai Weiner Philharmoker) sia con giustapposizioni (ad esempio l’ultimo lavoro per organo di Giovanni Allevi inserito in un concerto per organo che spazia da Bach a Mendelssohn).
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Roma
XIV FESTIVAL INTERNAZIONALE DI MUSICA E ARTE SACRA
Fino al 4 dicembre
Fino a mercoledì la rassegna, dedicata quest’anno a Giovanni Paolo II, amalgama differenti epoche e stili in varie basiliche romane, tra tradizione (Gounod, Verdi, Beethoven con i Weiner Philharmoker) e innovazione (Berger, Allevi)
http://avvenire.ita.bb.newsmemory.com/ee/avvenire/ads_loader2.php?pSetup=avvenire&issue=20151030&rand=Fu5QHctglN2Xpvk3Rp81qd6FuT5OVMyp

mercoledì 28 ottobre 2015

Il modello virtuoso di Jesi perché non seguirlo in Rivista Musica novembre



Perché interessarsi a Jesi, una città di quarantamila abitanti nel cuore delle Marche? Florida un tempo per l’agricoltura e considerata simbolo di un distretto industriale efficiente imperniato sulla Indesit (travolta dalla crisi di questo primo scorcio di terzo millennio) ,luogo di nascita non solo di Federico Secondo ma anche di importanti musicisti quali Giambattista  Pergolesi e (nella contigua piccola Maiolati)  di Gaspare Spontini.
Da nove anni, la Fondazione Pergolesi Spontini (anima musicale non solo della città ma anche del suo vasto hinterland di piccoli centri dotati di squisiti teatrini) chiude in bilancio pareggio:  nove Stagioni Liriche di Tradizione del Teatro Pergolesi di Jesi e quattorcini edizioni del Festival Pergolesi Spontini per un volume d’affari complessivo di circa 55 milioni e 200 mila euro, senza alcun deficit. Da alcuni anni, la fondazione segue la buona prassi di pubblicare un Bilancio Sociale da cui si ricavano gli effetti del suo lavoro sul territorio e le attività per incoraggiare la frequentazione di giovani al bel Teatro Pergolesi che troneggia nella piazza centrale
Questi risultati sono stati ottenuti tramite una decennale attività di coproduzione. In una prima fase , i tentativi sono stati con i teatri delle Marche, come il Teatro Rossini di Pesaro, il Teatro della Fortuna di Fano, il Teatro delle Muse di Ancona, il Teatro dell’Aquila di Fermo, il Teatro Vintidio Basso di Ascoli Piceno. Gli esiti non sono stati interamente positivi, principalmente a ragione di campanilismi locali. Si è poi tentato un rapporto con Teatri dell’altra sponda dell’Adriatico, senza grandi esiti. Nel frattempo, Jesi si è dotata di un laboratorio per scene e costumi. Poco a poco , la tenacia con cui è stata perseguita la strada della coproduzione ha funzionato. Da alcuni anni,è in atto una stretta collaborazione con il ‘circuito lombardo’(  Teatro “G. Donizetti” di Bergamo, Teatro Sociale di  Como, Teatro “A. Ponchielli” di Cremona, Teatro “G. Fraschini” di Pavia )  ed ora anche con una rete di Teatri francesi(Centre lyrique Clermont-Auvergne (Opéra de Saint-Etienne, Opéra de Limoges, Opéra du Grand Avignon, Opéra de Massy, Opéra de Reims, Opéra de Rouen, Opéra de Vichy). Quindi un totale di 12 teatri questa ‘stagione’ per un  Don Pasquale (le cui scene ed i cui costumi sono stati manufatti dai laboratori jesini) , una commedia ‘romana’ ma di gusto francese (la prima ebbe luogo e Parigi il 3 gennaio 1843 e venne seguita da numerosissime repliche.
La cooperazione con il ‘circuito lombardo’ e la ‘rete francese’, ha avuto l’effetto di riattivare parte di quella marchigiana. Pesaro ed Ancona. In tale modo, Jesi ha una stagione lirica di 7 titoli (tutti coprodotti).
E’ una storia che merita di essere conosciuta perché l’unico modo di far sopravvivere la lirica. Lo dovrebbero fare le fondazioni , dando vita ad un ‘cartellone nazionale’ almeno per i titoli rappresentanti più frequentemente.  


 I

TREDICI TEATRI PER UN DON PASQUALE in Formiche Novembre



TREDICI TEATRI PER UN DON PASQUALE
Beckmesser


Quando si pensa all’economia dei teatri lirici la mente va immediatamente ai pozzi senza fondo- ossia ai disastri finanziari a cui sono ormai collegati i nomi di alcune fondazioni. Non si pensa né a quelle che hanno o stanno attuando una vera svolta (ad esempio il Teatro dell’Opera di Roma o La Fenice di Venezia) oppure alla buone notizie che vengono da teatri ‘di tradizione’ sostenuti da enti locali o da operazioni puramente private che sanno coniugare originalità ed economicità
In questi giorni , una buona notizia riguarda alcuni teatri di tradizioni che hanno in Jesi, luogo di nascita non solo di Federico Secondo ma anche di Pergolesi e di Spontini. In primo luogo, la Fondazione Pergolesi Spontini, di Jesi e per il nono anno consecutivo chiude in bilancio pareggio:  9 Stagioni Liriche di Tradizione del Teatro Pergolesi di Jesi e 14 edizioni del Festival Pergolesi Spontini per un volume d’affari complessivo di circa 55 milioni e 200 mila euro,
senza nessun deficit.  Dal Bilancio Sociale 2014 emerge che l’anno scorso  gli eventi organizzati sono stati 173, gli spettatori sono stati 47.863, le giornate di utilizzo dei teatri 487 (di cui 173 giornate di apertura per spettacoli/eventi vari e 314 per prove/allestimenti). Le maestranze contrattualizzate per le produzioni liriche curate dalla Fondazione sono state 973, di cui 450 le maestranze artistiche (Festival Pergolesi Spontini 107, Lirica di Tradizione 343), 500 quelle tecniche (Festival 179, Lirica 321) e 23 gli addetti all’organizzazione, per un totale di 20.117 giornate lavorative erogate. I fornitori di beni, servizi e prestazioni professionali (artistiche, tecniche, scientifiche) nel 2014 sono stati 418, di cui 159 provenienti dalla Vallesina, 93 dalle Marche, 140 dall’Italia e 26 fornitori dall’estero. Grande impulso è stato dato al Laboratorio scenografico della Fondazione che ha registrato lo scorso anno 98 giornate di apertura e 233 giornate lavorative per 10 lavoratori. Infine, 12.400 studenti di ogni ordine e grado, dalla scuola dell’infanzia alla scuola secondaria di II grado, sono stati coinvolti in progetti educativi (Ragazzi… all’Opera, 6+ in lirica, ecc.) o hanno partecipato con la propria classe o la propria famiglia agli spettacoli di teatro per ragazzi e giovani. La Fondazione ha trovato una formula: stretta collaborazione con il Teatro delle Muse di Ancona e con il Circuito Lirico Lombardo per ‘la stagione lirica’ in senso stretto (sette titoli – la metà di quelli della Scala, il principe dei teatri d’opera italiana) ed un breve festival principalmente cameristico per gusti raffinati.
In secondo luogo, questi risultati si sono ottenuti grazie alla politica di collaborazioni con enti simili e di coproduzioni su cui ha sempre insistito l’amministratore delegato della Fondazione, William Graziosi. Dall’11 al 15 novembre nell’elegante Teatri Pergolesi della città marchigiana si può vedere un Don Pasquale (le cui scene ed i cui costumi sono stati manufatti dai laboratori jesini) ma è che è coprodotto con ben altri 12 teatri- quattro della Lombardia(  Teatro “G. Donizetti” di Bergamo, Teatro Sociale di  Como, Teatro “A. Ponchielli” di Cremona, Teatro “G. Fraschini” di Pavia ) ed otto francesi (Centre lyrique Clermont-Auvergne (Opéra de Saint-Etienne, Opéra de Limoges, Opéra du Grand Avignon, Opéra de Massy, Opéra de Reims, Opéra de Rouen, Opéra de Vichy). L’allestimento vede sul podio Giuseppe La Malfa, una delle giovani bacchette più promettenti (che ha già ottenuto successi , oltre che in Italia, in Germania, Grecia, Cina, Egitto e Francia) ed un veterano dl ruolo come Paolo Bordogna come protagonista, oltre ad un’affiatata compagnia di giovani voci.
La strepitosa facilità creativa di Gaetano Donizetti trova in quest’opera, nell’equilibrio perfetto tra gli elementi comici, melodici e la leggerezza dei personaggi, la sua forma più compiuta e originale che ha reso Don Pasquale l’opera maggiormente rappresentata all’estero, ancor più che in Italia, di Donizetti. 
E’ utile  ricordare che al "Théâtre des Italiens” parigino,  il 3 gennaio 1843, (“prima” mondiale del lavoro) il ruolo di “Don Pasquale” era interpretato da Luigi Lablache, che maturo ma prestante, con altri due interpreti della serata- Giulia Grisi e Antonio Tamburini- aveva portato al trionfo “I Puritani di Scozia” di Vincenzo Bellini. Il libretto firmato da Giovanni Accursi (ma in realtà di Giovanni Ruffini) , inoltre, è chiaro: Don Pasquale, zitello sulla quarantina, è ancora “ardito” (sessualmente, parlando), sente “un foco insolito”, si “strugge d’impazienza” al pensiero di “prender moglie”. In effetti, l’età dei quattro personaggi del capolavoro di Donizetti è più o meno la seguente:  Don Pasquale è sulla quarantina, il mefistofelico Dottor Malatesta sulla trentina, il “nipotino” Ernesto (cresciuto dal Don come se fosse un figlio) ha sì e no 25 anni e Norina tra i 18 ed 20. Sono passati poco più di due lustri dal rossiniano “Le compte Ory”, ultima opera sfacciatamente erotica (dalla prima all’ultima nota) di compositori italiani prima che il capitolo venga riaperto (ma dopo oltre 70 anni) dalla pucciniana “Manon Lescaut”: nel 1843, nel teatro lirico italiano sta per iniziare la notte dell’eros del melodramma verdiano. Già malandato e precocemente invecchiato, Donizzetti, che aveva scavato nell’eros con le tre opere dedicate alle tre regine Tudor  e nel 1840 aveva composto la carnalissima “La Favorite”, guarda in “Don Pasquale” con ironia al mondo, inebriando di champagne un canovaccio vetusto. L’ironia non ha nulla di farsesco – come ci dice una delle partiture più raffinate e, quindi, più difficili di Donizetti ed una vocalità che, nel 1843, aveva richiesto gli interpreti dell’apoteosi del “bel canto”. E’ intrisa di leggera malinconia; il terzo atto pare preconizza lo sveviano “Senilità”.