Legge di stabilità, dalla tassa sul morto alla tassa sul povero?
07 - 09 - 2015Giuseppe Pennisi
Promises! Promises! (Promesse!, Promesse!) era
intitolato un bel musical del 1968 (giunto anche in Italia) tratto dal piccolo
capolavoro di Billy Wilder (The Apartment) in cui la vicende verte su
cosa succede quando si fanno troppe promesse a troppe belle ragazze.
Il presidente del Consiglio farebbe
bene a vederlo, dopo avere promesso non agli elettori (tra cui, però, ci sono
anche belle ragazze) di abolire le imposte sulla prima casa e anche di ridurre
il cuneo fiscale. In tal modo, si farebbero contenti il 75% degli italiani che
hanno investito, pazientemente e a poco a poco, i propri risparmi
nell’abitazione in cui vivono e si darebbe un impulso allo sviluppo
dell’occupazione. Tuttavia, non è chiaro se non si prendono misure di
riequilibrio, cosa avverrebbe ai conti pubblici, su cui guarda arcigna la
Commissione Europea, facendo anche recapitare alla stampa anonime veline (nel
miglior stile della Venezia dell’Inquisizione).
Sin dall’inizio dell’anno, Formiche.net ha
avvertito che si sta pesando di inasprire quella tassa sul morto (l’imposta di
successione) la quale quando esisteva comportava un gettito inferiore ai costi
di amministrazione da parte dell’Agenzia delle Entrate. Il progetto sta andando
avanti tanto che, ai loro clienti di riguardo, premurosi banchieri suggeriscono
di investire all’estero o di portare i loro risparmi in filiali di diritto
straniero degli istituti.
Un articolo della legge di stabilità
in confezione porterebbe da un milione a 200.000 euro la franchigia per coniuge
e figli a un aliquota dell’8% per gli eredi diretti che giungerebbe al 20% per
i soggetti terzi. Dato che non sono vietati legittimi movimenti di capitale, la
tassa sul morto colpirebbe essenzialmente la proprietà immobiliare: si
tratterebbe quindi di una patrimoniale sugli immobili. Per questo motivo, in
questo periodo, gli studi notarili sono molto occupati per istituire fondazioni
e società in accomandita semplice , alcuni tra i pochi strumenti per chi ha
due-quattro appartamenti e vuole minimizzare il costo della patrimoniale in
maschera.
In aggiunta, la tassa sul povero
resterebbe tale e quale a 7.500 euro l’anno di no tax area per i dipendenti (ma
forse verrebbe portata a 8.000 per i pensionati, inviperiti per il blocco delle
indicizzazioni e i vari contributi di solidarietà) e non si farebbe un bel
nulla sulla tassa sul povero immigrato.
Questo è tema di cui non si ama
parlare, anche se tutti si riempiono la bocca di aiuti ai Paesi di provenienza
per farli restare a casa propria. Le rimesse degli emigranti ammontano a 440
miliardi di dollari, molto di più di tutto l’aiuto pubblico allo sviluppo.
Nello Stato indiano del Kerala sono pari al 36% del Pil, nel Tajakistan al 42%,
nelle grandissime Filippine al 10%. Parte di queste somme sono frutto del duro
lavoro di badanti, operai, braccianti, piccoli commercianti ed anche di coloro
che all’estero si sono distinti ed hanno fatto carriera.
Il nodo – lo rilevò il dimenticato
Rapporto Craxi sul debito dei Paesi in via di sviluppo – è che un buon dieci
per cento invece di raggiungere i beneficiari resta nelle banche dei Paesi
d’immigrazione. Anche a ragione di una struttura di fees ed altri oneri
concordati tra varie associazione bancarie (limitando la concorrenza).
A Palazzo Chigi, alla Farnesina e a
Via Venti Settembre è stato forse dimenticato che nel 2009 il G8 decise di
portare dal dieci al cinque per cento in cinque anni questa vera e propria
tassa sul povero immigrato, che l’Italia è uno dei Paesi che ha fatto di meno
(siamo all’otto per cento) e che ci prendiamo di tanto in tanto occhiatacce.
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