Fed, perché Obama tifa per i tassi mosci
16 - 09 - 2015Giuseppe Pennisi
L'analisi dell'economista Giuseppe
Pennisi alla vigilia della decisione delle Federal Reserve
Gli scommettitori danno al 45%-55%
le probabilità che domani il Comitato per le Operazioni sul Mercato Aperto
della Federal Reserve aumenterà, per la prima volta in nove anni, i tassi
direttori dell’intero sistema. Si tratterebbe di un aumento lieve, per dare un
segnale che con una crescita economica attorno al 4% del Pil, un tasso di
disoccupazione al di sotto del 5% delle forze di lavoro e un dollaro il cui
saggio di cambio ponderato ha perso il 20% nell’ultimo anno, occorre
comprendere che la festa sta diventando troppo allegra, si bevono troppi
alcolici e si avvicina il pericolo di qualche bolla.
A mio avviso, anche se sono tra
coloro in leggera minoranza, le autorità americane aspetteranno dicembre per
fare la svolta. La prima ragione non è tecnica ma meramente politica. A nessun
Presidente piace lasciare la Casa Bianca con tassi in aumento. Ancor peggio, se
vincoli costituzionali gli impediscono di rientrarci ma il suo partito, già in
campagna elettorale, deve affrontare l’avversario con la prospettiva di
restrizioni monetarie. Non che in dicembre la situazione sarà cambiata, ma in
questi mesi un’accurata campagna di comunicazione potrebbe preparare l’opinione
pubblica (specialmente quella del mondo finanziario) e gli elettori.
Tranne che i fatti non mi smentiscano
(e domani i tassi direttori vengano ritoccati al rialzo), dobbiamo aspettarci
nei prossimi mesi una campagna mediatica a sostegno dei rischi per l’economia
americana (quella internazionale non pare essere tra le priorità della Casa
Bianca e di Constitution Ave.m N.W., sede della Federal Reserve) di tassi
“rasoterra”.
In secondo luogo, un aumento oggi,
metterebbe a nudo ‘intemperanze’ (chiamiamole così per buona educazione) che
nei prossimi mesi possono essere corrette, specialmente se un incremento dei
tassi per dicembre venisse metabolizzato dai mercati. In alcuni settori,
l’allegria pare davvero eccessiva. Ad esempio, a tassi rasoterra le aziende
dell’information technology si sono indebitate sino al collo nella convinzione
quasi che in tutti gli Stati dell’Unione ci siano potenziali Silicon Valley che
possono aspettare a lungo prima di avere flussi di cassa positivi.
Il mercato del debito sta
esplodendo; dal 2009 (nonostante le lezioni della crisi dei mutui subprime)
aziende e intermediari finanziari i cui titoli sono classificati non più di B
hanno collocato titoli di debito per 1,34 trilioni di dollari (una cifra pari a
tre volte quanto messo sul mercato nei dieci anni prima del 2009). La Borsa
sembra esultare come quella donna che tanto onesta pare, ma gioca
principalmente su operazioni di riacquisto: i rendimenti medi delle 500 imprese
e banche dello Standard & Poor’s sono il 6,7%. A questi scricchiolii
finanziari interni, si aggiungono quelli internazionali: la crisi di Cina e
Brasile, il sonno dell’Europa, le guerre in varie parti del mondo. Saggezza
suggerisce che è meglio preparare il mercato per evitare traumi come quelli del
2008.
Ma non tutti sono saggi.
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