mercoledì 30 settembre 2015

Volkswagen, lo scaricabarile non salva la Commissione europea in Formiche 1 ottobre



Volkswagen, lo scaricabarile non salva la Commissione europea
01 - 10 - 2015Giuseppe Pennisi Volkswagen, lo scaricabarile non salva la Commissione europea
Lo scaricabarile in corso in questi giorni tra la Commissione Europea e gli Stati membri rafforza la posizione del Presidente del Consiglio Renzi secondo cui quanto meno la Commissione si intromette in materie di pertinenza dei singoli Stati membri tanto meglio è. Si minimizzano i danni dei suoi interventi.
Appare stucchevole la posizione di un portavoce della Commissione secondo cui l’applicazione delle misure anti-inquinamento sarebbe di stretta competenza dei 28 Stati membri; ergo anche se la Commissione era a conoscenza dei difetti nei sistemi di emissione di alcuni tipi di autoveicoli VW (e non solo) , non era affar suo cercare un rimedio. Ed allora a che serve il programma Europa 2020 per una crescita sostenibile di cui per anni si è gloriato l’Esecutivo di Bruxelles?
Il nodo sta diventando sempre più imbarazzante non solamente per la VW (ed altre case) ma per la Commissione. In Formiche del 28 settembre si è riferito di come il Joint Research Center , un’agenzia che dipende dalla Commissione, avesse documentato le manipolazioni sin dal 2013 e che più o meno da allora Bruxelles avesse intavolato negoziati con i 28 Stati membri. Negoziati, ovviamente, molto riservati. Ora si viene a sapere che nel lontano 1998, un ricercatore svedese, Per Kageson, avesse pubblicato uno studio dettagliato su come si possono manipolare i test relative alle emissioni . Lo studio venne, all’epoca, discusso in vari seminari di ricerca e portato all’attenzione delle autorità comunitarie, le quali avrebbero detto che si trattava di materia troppo tecnica per loro. Quindi, la materia venne accantonata sino a quando nel 2013 esplose il lavoro del Joint Research Center con un prefazione o Executive Summary in un lessico comprensibile anche ai liceali.Non sono mancate interrogazioni di parlamentari  europei, a cui la Commissione si è spesso trincerata dietro l’ ‘eccessivo tecnicismo’ del lessico.
A difesa dei funzionari della Commissione si deve ammettere che il loro sistema di reclutamento, concorsi, selezione e carriera non favorisce i contenuti tecnici; modellata sull’amministrazione francese, la burocrazia della Commissione dispone di funzionari generalisti addestrati nella procedure e prassi dell’istituzione per cui lavorano ma non nelle materie professionali che dovrebbero essere l’essenza del loro lavoro. Le loro carriere dipendono in gran misura da quote nazionali (tanti dirigenti a seconda del peso del Paese di provenienza)  Per alleviare a questo problema per decenni negli uffici della Commissione venivano ‘comandati’ o ‘distaccati’ dei settori specifici. Tali ‘esperti’ provenivano dalle stesse aziende che la Commissione avrebbe dovuto vigilare e venivano retribuiti dalle imprese medesime. Sovente nella stessa stanza c’erano sette od otto ‘esperti’ con regimi (e compensi) differenti.
L’esito: un labirinto di lobby ; non solo quelle ‘esterne’ che esercitavano la loro influenza tramite gli Stati membri, ma anche quelle “interne” che lavorano nel cuore stesso della Commissione. Una serie di scandali (nessuno con dimensioni analoghe a quello VW) ha fatto si che si cercasse di circoscrivere il problema.
Lo scaricabarile in atto in questi giorni mette ancora più in luce le debolezze della Commissione. Ha urgente bisogno di un bagno di umiltà e di restringere la propria azione alle poche cose in cui ha competenza non solo giuridica (in base ai compiti affidategli dai trattati europei) ma anche tecnico-professionale. Ha anche bisogno di una cura dimagrante.

domenica 27 settembre 2015

Quella "bomba" finanziaria che si vuol nascondere in Italia in Sussidiario del 28 settembre



SPILLO/ Quella "bomba" finanziaria che si vuol nascondere in Italia

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In tutti i Paesi dell’eurozona è in corso di preparazione la legge di bilancio (o Legge di stabilità) secondo un calendario predefinito: il 15 ottobre il testo dovrà essere ricevuto dalla Commissione europea per iniziarne un esame comparato, nonché di compatibilità con le regole che si sono dati gli Stati che appartengono all’area dell’euro - principalmente il Fiscal compact. In questi giorni in Italia, la legge di stabilità non riceve i grandi titoli di prima pagina degli anni scorsi; probabilmente per il maggior rilievo della riforma costituzionale (specialmente il riassetto del Senato) e per l’emergenza migrazione.
L’aggiornamento del Documento di economia e finanza (Def) è stato accolto senza eccessive polemiche, nonostante preveda un disavanzo significativo e molto più ampio di quanto programmato in passato. Il tema che sembra più appassionare stampa e opinione pubblica è l’eventuale possibilità di anticipare la data di pensionamento.
Non voglio pensare male e indurre a ritenere che le polemiche sulle pensioni (elemento sempre emotivo) siano in parte uno specchietto per le allodole al fine di evitare il dibattito proibito: quello sul debito pubblico. Dall’ultimo bollettino di Bankitalia risulta che a maggio, quindi due mesi dopo il periodo preso in considerazione dall’Eurostat, il debito ha sfiorato i 2.200 miliardi di euro e dall’inizio del 2015 è cresciuto di 83,3 miliardi. È probabile che a fine anno sia vicino al 140% del Pil.
Utile ricordare che all’epoca del negoziato del Trattato di Maastricht il nostro debito pubblico era leggermente inferiore al 120% e che fummo ammessi nell’eurozona principalmente grazie a un clausola (chiamata l’emendamento Guido Carli) in base alla quale ci si impegnava a che tendesse a raggiungere il 60%. La clausola è stata resa più forte dal Fiscal compact: avremmo dovuto ridurre il rapporto debito/Pil secondo una formula più stringente (la riduzione di un ventesimo l’anno della parte di debito che eccede il limite del 60% del Pil) - clausola a cui l’Italia non ha ottemperato, affermando che comunque il nostro debito (il maggiore dell’eurozona in senso assoluto) è “sostenibile”.
Ma cosa vuol dire “sostenibilità” del debito pubblico. Gira un’interpretazione un po’ grossolana secondo cui il debito di uno Stato è “sostenibile” sino a quando i creditori ne accettano gli interessi. In uno degli ultimi PIER Working Papers, No. 15-033, Pablo D’Erasmo della Federal Reserve Bank of Philadelphia, Enrique G. Mendoza della University of Pennsylvania e Zhang Jingh della Federal Reserve Bank of Chicago individuano punti deboli nell’approccio tradizionale e costruiscono tra strumenti alternativi. Li applicano agli Stati Uniti e all’Ue e i risultati non sono particolarmente incoraggianti, soprattutto per l’Italia. È lavoro denso di non facile lettura, ma che merita di essere esaminato.
In un altro lavoro, due economisti della Banca mondiale, Alessandra Campanaro e Dimitri Vittas esaminano le lezione dell’“approccio greco-romano” nella gestione del debito pubblico. Le “Greco-Roman Lessons” non hanno nulla a che fare con l’antichità, ma con gli ultimi trenta-quaranta anni quando sono esplosi il debito pubblico di Atene e di Roma. Secondo lo studio, la gestione “greco-romana” del debito è stata particolarmente abile nella transizione verso un mercato professionale del debito pubblico molto facilitata negli anni Novanta dalla determinazione di entrare nell’eurozona. Ciò non significa, però, che si sia usciti dai guai.
La Grecia ha dovuto chiedere un maxi-prestito ai suoi creditori. Ora che Atene ha le premesse per un Governo stabile e l’attuazione del “memorandum d’intesa” con le istituzioni europee, l’Italia è, paradossalmente, a maggior rischio sia perché in termini assoluti il suo debito è quasi dieci volte quello della Grecia, sia perché, aggiornamento del Def alla mano, le prospettive sono per un ulteriore aumento.
Quindi, il debito dovrebbe essere uno dei principali argomenti di discussione. Anche in quanto negli ultimi tre anni non sono mancati studi e proposte volti a ridurlo.


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È il momento del teatro “ecologico”. in Artribune 28 settembre



È il momento del teatro “ecologico”. Alla Biennale Musica di Venezia debutta Chemical Free (?), opera di Nicola Sani sul rapporto fra suoni e chimica

Scritto da Giuseppe Pennisi | domenica, 27 settembre 2015 · 0
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Roberto Fabbriciani al Flauto Iperbasso
Roberto Fabbriciani al Flauto Iperbasso
Non solo CO2 di Giorgio Battistelli, presentato alla Scala in occasione dell’Expo. Il teatro in musica “ecologico” diventa una vera e propria scuola. Il 5 ottobre alla Biennale Musica di Venezia viene presentato Chemical Free (?) di Nicola Sani, compositore e Sovrintendente del Teatro Comunale di Bologna: un’opera (di circa un‘ora) che porta all’attenzione del pubblico l’impiego spesso mistificatorio della definizione “chemical free”. Tutta la materia è costituita di atomi e molecole, quindi è chimica. Chemical Free (?) mette in evidenza il rapporto tra la metamorfosi dei suoni e la reattività chimica. L’opera si sviluppa in tre movimenti, ognuno caratterizzato da uno dei tre strumenti protagonisti. Da C’è tanto spazio là in fondo (Richard Feynman), per contrabbasso, a No Landscape (Mark Rothko), per pianoforte, fino a More is different (Philip Warren Anderson), per flauto iperbasso.
I tre solisti occupano altrettante posizioni. I tre strumenti sono utilizzati come “generatori di suoni”, con tecniche esecutive di elaborazione in tempo reale e di spazializzazione del suono. Realizzata da David Ryan, la parte video è proiettata su un schermo sul fondo del palco. Il rapporto tra suono e immagine determina un’unica forma di drammaturgia sonora che “racconta” il viaggio delle strutture molecolari, le metamorfosi e le migrazioni dal mondo dell’endo e del nano alla nostra macroscopica realtà quotidiana.
- Giuseppe Pennisi

Alvise Vidolin, Nicola Sani, David Ryan
Nicola Sani
Roberto Fabbriciani al Flauto Iperbasso

sabato 26 settembre 2015

Già nei Buddenbrook le radici storico-culturali dell’affaire Volkswagen im Avvenire 27 settembre



Già nei Buddenbrook le radici storico-culturali dell’affaire Volkswagen
Le radici dello scandalo Volkswagen sono due, non necessariamente tipiche dell’industria automobilistica tedesca. Una di lungo periodo, l’altra relativamente più recente. La prima è presente in vario modo nei Paesi chiamati in storia economica «di tarda industrializzazione». Oltre alla Germania, ad esempio, Francia e Italia.
Il fenomeno della tarda industrializzazione si caratterizza per la cosiddetta «innovazione adattiva», quando i processi di ricerca e sviluppo vengono reperiti all’estero e adattati al Paese importatore. Nell’Ottocento la normativa sui brevetti era piuttosto blanda (il primo ufficio dei brevetti fu istituito in Gran Bretagna, Paese «di prima industrializzazione », nel 1853, e la prima convenzione internazionale fu firmata solo nel 1883) e l’applicazione era ancora più approssimativa. In queste condizioni, lo spionaggio industriale imperversava: basta leggere lo smisurato romanzo di Thomas Mann 'I Buddenbrook - Decadenza di una famiglia' per avere un’idea. In Italia e in Francia, lo scandalo della Banca Romana e l’affare Stavinsky (reso celebre dal film con Belmondo) avevano come componenti primarie intrecci tra politica, finanzia ed edilizia, ma riguardavano anche i segreti industriali. Nella Repubblica Federale è rimasto ancora irrisolto il caso della Fraulein Rosemarie (titolo anche di un film pluripremiato di Rolf Thiele): l’omicidio di una donna nel migliore albergo di Francoforte, delitto verosimilmente legato a spionaggio industriale transatlantico nel settore metalmeccanico.
La seconda radice è connessa alla governance molto speciale della Volkswagen, creata nel 1937 tra i preparativi alla Seconda guerra mondiale. È uno strano ibrido d’impresa a vasta partecipazione statale, controllata da una famiglia (in lite perpetua) e dai sindacati aziendali. La famiglia è la medesima di quella che detiene la Porsche. Sino a pochi anni fa era dominata dal presidente Ferdinand Piëche, padre di 12 figli notoriamente litigiosi. Piëche riuscì a far nominare nel Consiglio di indirizzo e sorveglianza la propria quarta moglie Ursula, ex maestra di giardino d’infanzia e successivamente governante di casa Piëche. In base ad un patto parasociale, i Piëche-Porsche votano uniti negli organi sociali (e hanno la metà delle azioni). Degli altri dieci componenti del Consiglio, due rappresentano il Land della Bassa Sassonia (20% delle azioni), due il fondo del Qatar (17% delle azioni) e i lavoratori. Tre seggi su cinque nel potentissimo Comitato esecutivo, emanazione del Consiglio, sono appannaggio dei sindacati aziendali. Markus Roth della Phillips Universitaat di Marburg scrive ironicamente che sin dall’inizio la storia della Vw è stata un «telenovela». Dato il contesto, quindi, è del tutto verosimile che un gruppo di 'volenterosi' abbia potuto operare nel supremo interesse aziendale per trovare un modo con cui manipolare i controlli sulle emissioni inquinanti. Senza fare alcun rumore, come nel rossiniano Barbiere di Siviglia.
Giuseppe Pennisi
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