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LA SAGRA MALATESTIANA GIUNGE ALLA SUA FASE CENTRALE
Rimini - Al via da domani la grande sinfonica (la Sinfonia dei Mille di Mahler, che richiede 1030 esecutori) e la micro-opera “La morte di Virgilio"
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Rimini - Se si eccettua la stampa regionale e le testate specializzate in musica classica, si parla poco della Sagra Malatestiana giunta, senza fare troppo clamore ma offrendo grande qualità, alla sua 62esima edizione. È una delle manifestazioni più antiche d’Italia. La sua nascita infatti risale all’estate del 1950 quando l’allora azienda di soggiorno incaricò Carlo Alberto Cappelli, all’epoca sovrintendente del Teatro Comunale di Bologna, di ideare e organizzare un ciclo di concerti sinfonici con l’intento di prolungare la stagione turistica riminese. Da allora la Sagra Musicale Malatestiana ha ospitato i più prestigiosi direttori, solisti e orchestre del firmamento musicale internazionale consegnando a una vasta comunità territoriale, anche per i numeri e il lavoro svolto sulla formazione del pubblico, forse uno dei patrimoni civili e culturali più preziosi e un prestigioso evento culturale, fra i più longevi d’Italia. La kermesse persegue già da anni una articolazione della programmazione che va dalla musica sinfonica al jazz a quella barocca. “Percuotere la Mente”, la rassegna “BWV-Bach” e “I Concerti della Domenica” sono le sezioni tematiche attraverso cui ha preso corpo un’ampia gamma di proposte che hanno moltiplicato le suggestioni di un’offerta sempre di alto pregio. È in corso dall’inizio di luglio e termina all’inizio di dicembre. Quindi è uno dei festival più lunghi e più estesi dell’anno. La “Sagra” è organizzata in varie sezioni. Le prime due, “Percuotere la Mente” e “BWV-Bach”, si sono svolte in luglio ed agosto. In effetti, mentre le spiagge di Rimini brulicavano di turisti, nella città storica si potevano ascoltare una rassegna raffinata di musica pop diventata classica e un’antologia delle migliori formazioni specializzatesi in Bach.
In questi giorni, la Malatestiana giunge alla sua fase centrale: la grande sinfonica e la micro-opera di cui la Sagra può considerarsi l’antesignana. La “grande sinfonica” apre con l’unica replica del concerto che la sera di domani inaugura a Torino il MiTo: la Sinfonia Ottava in mi bemolle maggiore di Mahler chiamata la “Sinfonia dei Mille” perché richiede 1030 esecutori. A questo scopo Gianandrea Noseda unisce l’orchestra e il coro della Rai con quelli del Teatro Regio e vi aggiunge il coro del Maggio Musicale Fiorentino (potenziati con un coro di voci bianche). Solisti Erika Sunnegårdh, Julia Kleiter, Elena Pankratova, Yvonne Naef, Maria Friderike Radner, Stephen Gould, Christof Fischesser, Detlef Roth: un cast da fare invidia alle maggiori formazioni sinfoniche mondiali. Con una formazione differente, dal 22 al 24 ottobre, Antonio Pappano inaugurerà a Roma la stagione sinfonica dell’Accademia di Santa Cecilia sempre con la Sinfonia dei Mille; i complessi dell’Accademia verranno rafforzati con quelli del China National Chorus. A seguire, Yuri Temirkanov e Roustem Saitkoulov con l’Orchestra Sinfonica di San Pietroburgo (11 settembre) , Juraj Val uha eEvgeni Bozhanov con l’Orchestra Nazionale della Rai (15 settembre) , Antonio Pappano e Hélène Grimaud con l’Orchestra Sinfonica di Santa Cecilia (18 Settembre) e Zubin Mehta con l’Isreal Philarmonic Orchestra. La micro-opera in programma quest’anno è “La morte di Virgilio - Chant après chant”, testo di Hermann Broch Musica di Jean Barraqué. Dal 2 al 4 settembre al Teatro degli Atti, prima esecuzione in forma scenica. Una collaborazione Sagra Musicale Malatestiana e Teatro Valdoca che, come per esperienze del recente passato, andrà verosimilmente in giro in altri teatri da camera.
Nel lavoro sentendo appressarsi la morte, Virglio vorrebbe bruciare l’Eneide. Sul filo di una brezza leggera, a sera inoltrata, le sette navi della flotta di Cesare Augusto fanno il loro ingresso nel porto di Brindisi. È la prima pagina del romanzo che Hermann Broch si decise a completare sfuggendo negli Stati Uniti dall’Europa in fiamme, dove non avrebbe fatto più ritorno, anche quando quelle fiamme avrebbero cessato di divampare. E la storia che ne consegue ruota attorno al dramma di un artista che non può compire l’ultimo gesto che gli resta per finire la sua opera: distruggerla. “Prima, La morte di Virgilio l’aspettavo senza conoscerla”, dirà Jean Barraqué in un’intervista rilasciata nel 1969. Al nome del musicista francese, a cui la sorte riserverà una brusca uscita di scena, quarantacinquenne, sono legate sette opere compiute. “Uscito dall’incubo dell’infanzia ho intrapreso e perseguo la vita di libertà e di indipendenza che mi sono scelto, sia sul piano intellettuale che su quello morale e sociale”. Nella Parigi dell’immediato dopoguerra assiste ai corsi di analisi dispensati da Olivier Messiaen e pratica la critica musicale sulle colonne di Liberàtion: “All’epoca, la nostra grande scoperta, in effetti una riscoperta, era Debussy”. Ed all’autore della Mer, Barraqué dedica ben presto pagine che confluiranno in una monografia che le éditions du Seuil pubblicheranno nel 1962 nella collezione Solfège, presto tradotta in spagnolo, tedesco, svedese e giapponese. Le leggi seriali sono poi le chiavi d’accesso agli orizzonti infinitamente aperti sull’incompiuto. La poetica di Barraqué si carica presto di conseguenze. Sarà perché tante le implicazioni con cui viene investito l’atto creativo. “Un giorno mi hanno ripetuto una frase di Genet: ‘il genio è il rigore nella disperazione’. Cosi è per il compositore”. In breve, la micro-opera vale un viaggio e si coniuga bene con la “Sinfonia dei Mille”.
(Hans Sachs) 31 Agosto 2011 17:13
mercoledì 31 agosto 2011
Alla ricerca di Dio, la Sinfonia dei Mille al Lingotto e a Rimini in Il Sussidiario 31 agosto
MAHLER/ Alla ricerca di Dio, la Sinfonia dei Mille al Lingotto e a Rimini
Giuseppe Pennisi
mercoledì 31 agosto 2011
Gustav Mahler
Approfondisci
RITRATTI/ Luis de Victoria, una musica "attuale" di 400 anni fa
OPERA/ Quel Mosè come Bin Laden “senza Dio”
Uno dei maggiori musicologi europei, Henry-Louis de La Grange, ha concluso la conferenza in occasione del doppio anniversario di Gustav Mahler – centocinquanta anni dalla nascita, cento dalla morte - ricordando che “per tutta la vita affascinato dai misteri dell’arte, della condizione umana, dell’aldilà”, “tutti i suoi amici intimi hanno insistito su questo aspetto della sua personalità 'cercava Dio'”…, "con un incredibile fanatismo, con una dedizione unica, con una passione incrollabile”, “sempre alla ricerca del divino nell’uomo, in ogni persona”. Il testo integrale della conferenza inedito in lingua originale si può leggere nel volume curato da Gastón Facio-Fournier Gustav Mahler- Il Mio Tempo Verrà (Il Saggiatore, 2011).
Ne suggerisco la lettura a coloro che la sera del primo settembre al Lingotto a Torino (per inaugurare il MiTo) o del 5 settembre al Palazzo dei Congressi di Rimini (per aprire la sezione sinfonica della Sagra Malatestiana, un festival che da maggio si estende sino a fine settembre) ascolteranno l’Ottava Sinfonia di Mahler, chiamata la “Sinfonia dei Mille”; alla prima esecuzione a Monaco il 12 settembre 1910, diretta dall’autore, richiese 1030 esecutori tra orchestra, cori e solisti. A Torino e a Rimini per rendere possibile l’attuazione del progetto il direttore musicale Gianandrea Noseda unisce l’orchestra e il coro della Rai con quelli del Teatro Regio e vi aggiunge il coro del Maggio Musicale Fiorentino (potenziati con un coro di voci bianche). Solisti Erika Sunnegårdh, Julia Kleiter, Elena Pankratova, Yvonne Naef, Maria Friderike Radner, Stephen Gould, Christof Fischesser, Detlef Roth, un cast da fare invidia alle maggiori formazioni sinfoniche mondiali. Con un cast differente, dal 22 al 24 ottobre, Antonio Pappano inaugurerà a Roma la stagione sinfonica dell’Accademia di Santa Cecilia sempre con la Sinfonia dei Mille; i complessi dell’Accademia verranno rafforzati con quelli del China National Chorus.
Ricordo di avere ascoltato dal vivo un’unica volta la “sinfonia dei mille” in Italia: a Bologna nell’autunno 1979 nella stagione concertistica del Teatro Comunale, diretta da Vladimir Delman : i mille erano ridotti a meno di 400. A Washington, dove ho vissuto tre lustri, ne ricordo due esecuzioni dal vivo in cui i complessi della National Symphony univano le loro forze con quelli della Washington Opera (ora National Opera) ed utilizzavano non il Kennedy Center, ma la vastissima National Cathedral, ponendo uno dei cori del matroneo ed ottenendo effetti stereofonici.
Ascoltare l’Ottava di Mahler in mi bemolle maggiore richiede preparazione non perché sia particolarmente lunga (è più breve, ad esempio, della Terza) ma poiché è costruita su due parti apparentemente molto distinte: una trascrizione in chiave tardo romantica del Venir Creator , attributo all’Arcivescovo di Mainz Rabanus Maurus , 847-856 (ma probabilmente molto più antico) e la scena finale della seconda parte del “Faust” di Goethe. In un saggio di Michael Steinberg del 1980, si sottolinea, in base a documenti d’archivio, che Mahler è stato per anni affascinato dalla seconda parte del “Faust”, in particolare dal rapporto sensuale del protagonista con Elena di Troia e della redenzione tramite il lavoro per il bene comune (piuttosto che tramite il pentimento). Mahler – ricorda Steinberg- era diventato un attento studioso degli “Atti degli Apostoli” e era convinto che la premessa concettuale di Goethe fosse nel “libro ottavo” di tali Atti (una sintonia con il numero “ottavo” della sinfonia?) e le vicende di “Faustus” ivi narrate. Come coniugare un finale (quello del “Faust” di Goethe) altamente scenico (in margine alla sinfonia vengono descritti con cura i luoghi ed i personaggi) con il Venir Creator?
Sotto il profilo musicale, Mahler giustappone una prima parte molto compatta con una dilatata e quasi melodrammatica (la recente Guida alla Musica Sinfonica , Zecchini Editore 2010, afferma che “pare frammentaria”); tuttavia, non solamente numerose idee musicali sono le stesse e richiami tematici interni collegano i vari episodi ma nel finale ritorna il moto ascendente del Venir Creator : culmina in un fortissimo a piena orchestra con concertato e doppio coro nel Das Ewig Webliche/Zeith uns hinan (“L’eterno femminino / ti porta in alto accanto a sé”). Esistono in commercio varie edizioni (dirette , ad esempio, da Abado, Ozawa,Chailly, Inbal ; Solti); pur nella differenze di accento (dal calligrafismo quasi cameristico – per 1000 esecutori!- di Solti al fuoco di Ozawa), tutte pongono enfasi sul parallelismo tra il finale della seconda parte ed il tema centrale della prima.
Più complessa l’analisi del nesso concettuale. Gastón Facio-Fournier, uno dei maggiori studiosi di Mahler, ha sempre sostenuto che il compositore , nato in Boemia in una famiglia di religione ebraica, restò sempre un non credente. Altri (ad esempio Theodor Adorno e Donald Mitchell) lo considerano un panteista (principalmente sulla base della Terza Sinfonia).Non c’è alcun dubbio che non “abbia mai sentito il rito ebraico” , come il compositore stesso scrisse alla moglie. Ma il battesimo in pompa magna del febbraio 1897 fu puro opportunismo per essere nominato direttore dell’Opera Imperiale di Vienna (come scrivono molti autori, specialmente quelli di ispirazione marxista) oppure parte di un percorso che approdò al cattolicesimo ma negli ultimi mesi di vita andò verso il pensiero e la religione Zen? Cerchiamo di tentare una risposta.
Da un canto, secondo uno studioso come Quirino Principe (Mahler, la musica tra Eros e Thanatos, Bompiani 2002), anche senza il battesimo, Mahler sarebbe assunto al seggio più alto del maggior teatro musicale di Vienna (il clima culturale nella capitale della duplice monarchia stava cambiando rapidamente, Freu era alle porte). Da un altro, uno studioso chiaramente “di parte cattolica”, come Tommaso Scandroglio, rinviene aperti collegamenti con la musica ecclesiastica cattolica in lavori ben precedenti il battesimo (ad esempio, nella Seconda Sinfonia ed in cicli di leader) nonché nella sua interazione con il cattolicissimo Bruckner . Soprattutto, l’Ottavia Sinfonia venne iniziata a concepire quando la non lieta esperienza alla guida dell’Opera di Vienna (sede di intrighi che forse ne aggravarono la disfunzione cardiaca che lo portò prematuramente alla morte) ma completata ed eseguita per la prima volta quando era tornato ad essere un libero professionista (distante dall’OpernRing). E’ intrisa di pensiero cattolico. Il Venir Creator è la premessa per dare un’interpretazione molto particolare al finale del Faust di Goethe. L’inno Accende Lumen Sensibus/Infunde Amuren Cordibus è quasi strumentale a mettere l’accento non sull’operosità (Goethe era luterano) come principale ove non unico viatico per la redenzione ma sull’ amore cordibus che domina, nella seconda parte, il lungo episodio del Doctor Marianus con i cori angelici.
Forse, però, era solo una tappa verso lo Zen del sesto e ultimo movimento, Der Abschied (l’Addio) del Das Lied von der Erde (il Canto della Terra ) –il suo addio all’esistenza terrena.
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Giuseppe Pennisi
mercoledì 31 agosto 2011
Gustav Mahler
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RITRATTI/ Luis de Victoria, una musica "attuale" di 400 anni fa
OPERA/ Quel Mosè come Bin Laden “senza Dio”
Uno dei maggiori musicologi europei, Henry-Louis de La Grange, ha concluso la conferenza in occasione del doppio anniversario di Gustav Mahler – centocinquanta anni dalla nascita, cento dalla morte - ricordando che “per tutta la vita affascinato dai misteri dell’arte, della condizione umana, dell’aldilà”, “tutti i suoi amici intimi hanno insistito su questo aspetto della sua personalità 'cercava Dio'”…, "con un incredibile fanatismo, con una dedizione unica, con una passione incrollabile”, “sempre alla ricerca del divino nell’uomo, in ogni persona”. Il testo integrale della conferenza inedito in lingua originale si può leggere nel volume curato da Gastón Facio-Fournier Gustav Mahler- Il Mio Tempo Verrà (Il Saggiatore, 2011).
Ne suggerisco la lettura a coloro che la sera del primo settembre al Lingotto a Torino (per inaugurare il MiTo) o del 5 settembre al Palazzo dei Congressi di Rimini (per aprire la sezione sinfonica della Sagra Malatestiana, un festival che da maggio si estende sino a fine settembre) ascolteranno l’Ottava Sinfonia di Mahler, chiamata la “Sinfonia dei Mille”; alla prima esecuzione a Monaco il 12 settembre 1910, diretta dall’autore, richiese 1030 esecutori tra orchestra, cori e solisti. A Torino e a Rimini per rendere possibile l’attuazione del progetto il direttore musicale Gianandrea Noseda unisce l’orchestra e il coro della Rai con quelli del Teatro Regio e vi aggiunge il coro del Maggio Musicale Fiorentino (potenziati con un coro di voci bianche). Solisti Erika Sunnegårdh, Julia Kleiter, Elena Pankratova, Yvonne Naef, Maria Friderike Radner, Stephen Gould, Christof Fischesser, Detlef Roth, un cast da fare invidia alle maggiori formazioni sinfoniche mondiali. Con un cast differente, dal 22 al 24 ottobre, Antonio Pappano inaugurerà a Roma la stagione sinfonica dell’Accademia di Santa Cecilia sempre con la Sinfonia dei Mille; i complessi dell’Accademia verranno rafforzati con quelli del China National Chorus.
Ricordo di avere ascoltato dal vivo un’unica volta la “sinfonia dei mille” in Italia: a Bologna nell’autunno 1979 nella stagione concertistica del Teatro Comunale, diretta da Vladimir Delman : i mille erano ridotti a meno di 400. A Washington, dove ho vissuto tre lustri, ne ricordo due esecuzioni dal vivo in cui i complessi della National Symphony univano le loro forze con quelli della Washington Opera (ora National Opera) ed utilizzavano non il Kennedy Center, ma la vastissima National Cathedral, ponendo uno dei cori del matroneo ed ottenendo effetti stereofonici.
Ascoltare l’Ottava di Mahler in mi bemolle maggiore richiede preparazione non perché sia particolarmente lunga (è più breve, ad esempio, della Terza) ma poiché è costruita su due parti apparentemente molto distinte: una trascrizione in chiave tardo romantica del Venir Creator , attributo all’Arcivescovo di Mainz Rabanus Maurus , 847-856 (ma probabilmente molto più antico) e la scena finale della seconda parte del “Faust” di Goethe. In un saggio di Michael Steinberg del 1980, si sottolinea, in base a documenti d’archivio, che Mahler è stato per anni affascinato dalla seconda parte del “Faust”, in particolare dal rapporto sensuale del protagonista con Elena di Troia e della redenzione tramite il lavoro per il bene comune (piuttosto che tramite il pentimento). Mahler – ricorda Steinberg- era diventato un attento studioso degli “Atti degli Apostoli” e era convinto che la premessa concettuale di Goethe fosse nel “libro ottavo” di tali Atti (una sintonia con il numero “ottavo” della sinfonia?) e le vicende di “Faustus” ivi narrate. Come coniugare un finale (quello del “Faust” di Goethe) altamente scenico (in margine alla sinfonia vengono descritti con cura i luoghi ed i personaggi) con il Venir Creator?
Sotto il profilo musicale, Mahler giustappone una prima parte molto compatta con una dilatata e quasi melodrammatica (la recente Guida alla Musica Sinfonica , Zecchini Editore 2010, afferma che “pare frammentaria”); tuttavia, non solamente numerose idee musicali sono le stesse e richiami tematici interni collegano i vari episodi ma nel finale ritorna il moto ascendente del Venir Creator : culmina in un fortissimo a piena orchestra con concertato e doppio coro nel Das Ewig Webliche/Zeith uns hinan (“L’eterno femminino / ti porta in alto accanto a sé”). Esistono in commercio varie edizioni (dirette , ad esempio, da Abado, Ozawa,Chailly, Inbal ; Solti); pur nella differenze di accento (dal calligrafismo quasi cameristico – per 1000 esecutori!- di Solti al fuoco di Ozawa), tutte pongono enfasi sul parallelismo tra il finale della seconda parte ed il tema centrale della prima.
Più complessa l’analisi del nesso concettuale. Gastón Facio-Fournier, uno dei maggiori studiosi di Mahler, ha sempre sostenuto che il compositore , nato in Boemia in una famiglia di religione ebraica, restò sempre un non credente. Altri (ad esempio Theodor Adorno e Donald Mitchell) lo considerano un panteista (principalmente sulla base della Terza Sinfonia).Non c’è alcun dubbio che non “abbia mai sentito il rito ebraico” , come il compositore stesso scrisse alla moglie. Ma il battesimo in pompa magna del febbraio 1897 fu puro opportunismo per essere nominato direttore dell’Opera Imperiale di Vienna (come scrivono molti autori, specialmente quelli di ispirazione marxista) oppure parte di un percorso che approdò al cattolicesimo ma negli ultimi mesi di vita andò verso il pensiero e la religione Zen? Cerchiamo di tentare una risposta.
Da un canto, secondo uno studioso come Quirino Principe (Mahler, la musica tra Eros e Thanatos, Bompiani 2002), anche senza il battesimo, Mahler sarebbe assunto al seggio più alto del maggior teatro musicale di Vienna (il clima culturale nella capitale della duplice monarchia stava cambiando rapidamente, Freu era alle porte). Da un altro, uno studioso chiaramente “di parte cattolica”, come Tommaso Scandroglio, rinviene aperti collegamenti con la musica ecclesiastica cattolica in lavori ben precedenti il battesimo (ad esempio, nella Seconda Sinfonia ed in cicli di leader) nonché nella sua interazione con il cattolicissimo Bruckner . Soprattutto, l’Ottavia Sinfonia venne iniziata a concepire quando la non lieta esperienza alla guida dell’Opera di Vienna (sede di intrighi che forse ne aggravarono la disfunzione cardiaca che lo portò prematuramente alla morte) ma completata ed eseguita per la prima volta quando era tornato ad essere un libero professionista (distante dall’OpernRing). E’ intrisa di pensiero cattolico. Il Venir Creator è la premessa per dare un’interpretazione molto particolare al finale del Faust di Goethe. L’inno Accende Lumen Sensibus/Infunde Amuren Cordibus è quasi strumentale a mettere l’accento non sull’operosità (Goethe era luterano) come principale ove non unico viatico per la redenzione ma sull’ amore cordibus che domina, nella seconda parte, il lungo episodio del Doctor Marianus con i cori angelici.
Forse, però, era solo una tappa verso lo Zen del sesto e ultimo movimento, Der Abschied (l’Addio) del Das Lied von der Erde (il Canto della Terra ) –il suo addio all’esistenza terrena.
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Tre domande senza risposta che non piacciono ai mercati in Il Sussidiario del 31 agosto
MANOVRA/ 1. Tre domande senza risposta che non piacciono ai mercati
Giuseppe Pennisi
mercoledì 31 agosto 2011
Giulio Tremonti e Roberto Calderoli
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MANOVRA/ 1. Campiglio: dove sono le riforme strutturali?
MANOVRA/ 1. Bersani: il baratto Iva-pensioni non aiuta la crescita
Per deformazione professionale, avendo vissuto per circa 20 anni all’estero e passati 24 tra varie organizzazioni internazionali (soprattutto Banca mondiale), la prima domanda che mi sono chiesto quando ho letto lo scarno comunicato di “Arcore” (ormai diventata il Palazzo Chigi del Nord al pari della villa di Nixon in California e del ranch Bush in Texas, assunte, in diverse fasi, a “Casa Bianca” della Costa Occidentale e del “Gigante” - nome in gergo del Texas) è quale è l’“anima della manovra”?
Pare un linguaggio vecchio, da Anni Sessanta, quando in convegni e sui giornali ci si chiedeva quale fosse l’“anima” (ossia il senso più riposto) di questa o di quella misura di politica economica. Eppure, basta scorrere il settimanale on-line della Cowles Foundation, per rendersi conto come nel resto del mondo è proprio “l’anima” delle politiche economiche e come viene percepito dagli agenti economici (individui, famiglie, imprese, pubblica amministrazione, politici, resto del mondo) quel quid che tramite la teoria economica dell’informazione e la neuro-economia più si cerca di scandagliare poiché più incide sui mercati. Lunghi elenchi di saggi accademici possono essere portati a sostegno di questa ipotesi. In effetti, politiche economiche le cui “anime” non sono percepite come intendono coloro che le hanno concepite molto raramente danno i risultati sperati.
Nel caso in oggetto, ciò è tanto più importante in quanto si tratta di una manovra-ter in meno di un mese (per la terza volta attuata in condizioni d’emergenza e con lo spettro di un aumento del differenziale tra i nostri tassi d’interesse e quelli dei migliori emittenti sovrani dell’area dell’euro). Gli osservatori stranieri sono, naturalmente, disorientati: misure che sino a ieri sembravano essenziali (come il contributo di solidarietà) sono sparite, altre nei cui confronti era stato eretto un muro (la rivisitazione delle pensioni d’anzianità) sono ora uno dei pilastri della strategia; non si comprende (come ha ben detto Luigi Campiglio) se e dove sono gli elementi che incidono sulle strutture dell’economia; soprattutto non si vede neanche come si cerca di affrontare il problema centrale “congiunturale” (nel senso che al termine danno i tedeschi- ossia immediato) dell’Italia - la disoccupazione dei giovani.
Con ciò non si vuole “bocciare” la manovra, ma chiedere ai “manovratori” (non è più chiaro chi e dove siano) di illustrare l’”anima” della strategia in modo che tutti ne condivano il senso. Nelle condizioni in cui siamo, senza un vero sforzo comune, non si va da nessuna parte. Ad una prima lettura dei comunicati “di” e “da” Arcore, si comprendono gli aspetti seguenti:
- L’intero capitolo sull’assetto istituzionale, e quindi, sui costi della politica è rimandato ad una o più norme costituzionali. E’ corretto che si utilizzino leggi costituzionali per modificare aspetti istituzionali dello Stato. Se ci fosse un accordo bi-partisan ed una grande coalizione ciò potrebbe essere fatto anche in nove mesi. Tuttavia, un riassetto di tale portata richiede un accordo preliminare molto preciso sulla legge elettorale. E’ fattibile? O si tratta di un rinvio alle calende greche?
- Le misure dal lato della spesa hanno adesso la loro architrave, oltre che sui “tagli” di bilancio a questo o a quello, in una revisione della normativa delle pensioni d’anzianità su cui non si può non essere d’accordo (anche perché chi scrive la ha proposta in due libri pubblicati in Italia ed in quattro pubblicati negli Usa, nel Regno Unito, in Francia ed in Germania). Così come congegnata, però, ha effetti una tantum (su le classi di età che pensavano di andare in pensione nell’immediato) destinati ad affievolirsi nel futuro. Sarebbe stata necessaria invece una misura strutturale (abolire le pensioni di anzianità, fatte salve alcune categorie di “lavoratori precoci”) e ritardare gradualmente l’età “normale” della pensione da 65 a 70 anni (con penalizzazioni per chi va a riposo presto). Data l’emergenza sarebbe stato necessario abolire per decreto legge le “contabilità speciali” fuori bilancio (324 al solo Ministero dei Beni Culturali, come fece il Governo Amato; sono a metà tra una mina vagante ed una bomba ad orologeria per i conti pubblici ed una delle determinanti della sfiducia dell’estero sui numeri (tutt’altro che in chiaro) dell’Italia.
-Dal lato delle entrate, si punta molto alla lotta all’evasione ed all’elusione (società di comodo, ecc). Senza dubbio giudizioso coinvolgere i Comuni negli accertamenti (sempre che non si torni alla vetusta “imposta di famiglia”). Cosa fa pensare, però, che il contesto sia cambiato e che oggi si possa fare quanto tentato varie volte (con magri esiti) ieri e l’altro ieri?
Giuseppe Pennisi
mercoledì 31 agosto 2011
Giulio Tremonti e Roberto Calderoli
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MANOVRA/ 1. Campiglio: dove sono le riforme strutturali?
MANOVRA/ 1. Bersani: il baratto Iva-pensioni non aiuta la crescita
Per deformazione professionale, avendo vissuto per circa 20 anni all’estero e passati 24 tra varie organizzazioni internazionali (soprattutto Banca mondiale), la prima domanda che mi sono chiesto quando ho letto lo scarno comunicato di “Arcore” (ormai diventata il Palazzo Chigi del Nord al pari della villa di Nixon in California e del ranch Bush in Texas, assunte, in diverse fasi, a “Casa Bianca” della Costa Occidentale e del “Gigante” - nome in gergo del Texas) è quale è l’“anima della manovra”?
Pare un linguaggio vecchio, da Anni Sessanta, quando in convegni e sui giornali ci si chiedeva quale fosse l’“anima” (ossia il senso più riposto) di questa o di quella misura di politica economica. Eppure, basta scorrere il settimanale on-line della Cowles Foundation, per rendersi conto come nel resto del mondo è proprio “l’anima” delle politiche economiche e come viene percepito dagli agenti economici (individui, famiglie, imprese, pubblica amministrazione, politici, resto del mondo) quel quid che tramite la teoria economica dell’informazione e la neuro-economia più si cerca di scandagliare poiché più incide sui mercati. Lunghi elenchi di saggi accademici possono essere portati a sostegno di questa ipotesi. In effetti, politiche economiche le cui “anime” non sono percepite come intendono coloro che le hanno concepite molto raramente danno i risultati sperati.
Nel caso in oggetto, ciò è tanto più importante in quanto si tratta di una manovra-ter in meno di un mese (per la terza volta attuata in condizioni d’emergenza e con lo spettro di un aumento del differenziale tra i nostri tassi d’interesse e quelli dei migliori emittenti sovrani dell’area dell’euro). Gli osservatori stranieri sono, naturalmente, disorientati: misure che sino a ieri sembravano essenziali (come il contributo di solidarietà) sono sparite, altre nei cui confronti era stato eretto un muro (la rivisitazione delle pensioni d’anzianità) sono ora uno dei pilastri della strategia; non si comprende (come ha ben detto Luigi Campiglio) se e dove sono gli elementi che incidono sulle strutture dell’economia; soprattutto non si vede neanche come si cerca di affrontare il problema centrale “congiunturale” (nel senso che al termine danno i tedeschi- ossia immediato) dell’Italia - la disoccupazione dei giovani.
Con ciò non si vuole “bocciare” la manovra, ma chiedere ai “manovratori” (non è più chiaro chi e dove siano) di illustrare l’”anima” della strategia in modo che tutti ne condivano il senso. Nelle condizioni in cui siamo, senza un vero sforzo comune, non si va da nessuna parte. Ad una prima lettura dei comunicati “di” e “da” Arcore, si comprendono gli aspetti seguenti:
- L’intero capitolo sull’assetto istituzionale, e quindi, sui costi della politica è rimandato ad una o più norme costituzionali. E’ corretto che si utilizzino leggi costituzionali per modificare aspetti istituzionali dello Stato. Se ci fosse un accordo bi-partisan ed una grande coalizione ciò potrebbe essere fatto anche in nove mesi. Tuttavia, un riassetto di tale portata richiede un accordo preliminare molto preciso sulla legge elettorale. E’ fattibile? O si tratta di un rinvio alle calende greche?
- Le misure dal lato della spesa hanno adesso la loro architrave, oltre che sui “tagli” di bilancio a questo o a quello, in una revisione della normativa delle pensioni d’anzianità su cui non si può non essere d’accordo (anche perché chi scrive la ha proposta in due libri pubblicati in Italia ed in quattro pubblicati negli Usa, nel Regno Unito, in Francia ed in Germania). Così come congegnata, però, ha effetti una tantum (su le classi di età che pensavano di andare in pensione nell’immediato) destinati ad affievolirsi nel futuro. Sarebbe stata necessaria invece una misura strutturale (abolire le pensioni di anzianità, fatte salve alcune categorie di “lavoratori precoci”) e ritardare gradualmente l’età “normale” della pensione da 65 a 70 anni (con penalizzazioni per chi va a riposo presto). Data l’emergenza sarebbe stato necessario abolire per decreto legge le “contabilità speciali” fuori bilancio (324 al solo Ministero dei Beni Culturali, come fece il Governo Amato; sono a metà tra una mina vagante ed una bomba ad orologeria per i conti pubblici ed una delle determinanti della sfiducia dell’estero sui numeri (tutt’altro che in chiaro) dell’Italia.
-Dal lato delle entrate, si punta molto alla lotta all’evasione ed all’elusione (società di comodo, ecc). Senza dubbio giudizioso coinvolgere i Comuni negli accertamenti (sempre che non si torni alla vetusta “imposta di famiglia”). Cosa fa pensare, però, che il contesto sia cambiato e che oggi si possa fare quanto tentato varie volte (con magri esiti) ieri e l’altro ieri?
JESI CI OFFRE FINALMENTE TUTTO IL SUO PERGOLESI Il Riformista 31 agosto )
JESI CI OFFRE FINALMENTE TUTTO IL SUO PERGOLES
Beckmesser
La piccola Jesi si era proposta come la Salisburgo italiana del 2010,ma o ragione di tagli inattesi ai finanziamenti pubblici o sulla base di aspettative derivanti solo da indicazioni verbali, parte del programma è slittato al settembre 2011.. Nel 2006 in occasione dei 150 dalla nascita di Mozart, nella sua città natale vennero rappresentati tutti e 22 i suoi lavori per il teatro in musica. Gian Battista Draghi (o Drago) detto Pergolesi in quanto discendente da una famiglia di Pergola, nacque a Jesi il 10 gennaio 2010 e la città natale sta completando un programma per mettere in scena tutte e dieci le sue opere ed anche tutto il resto della sua musica (soprattutto sacra, lo “Stabat Mater”. Pergolesi visse solo 26 anni (Mozart arrivò a 35). Sino a quando una diecina di anni fa, la Fondazione Pergolesi- Spontini , con un forte sostegno locale, non ha creato un festival annuale, venivano rappresentati unicamente “La Serva Padrona” (nata come in intermezzo in due parti per l’opera seria “Il Prigionier Superbo”), la commedia in musica “Il Flaminio” e grazie principalmente a Riccardo Muti (appassionato del lavoro), l’opera buffa “Lu’ Frate Innamoratu”. Non si conosceva, quasi, il grande contributo dato, nell’arco di pochi anni, all’opera seria.
Le celebrazioni hanno avuto un’anteprima il 5 giugno 2009 con un concerto diretto da Claudio Abbado alla guida dell’Orchestra Mozart . Il programma vero e proprio è cominciato l’11 settembre 2009 con la prima rappresentazione in tempi moderni de “Il Prigionier Superbo” (regia di Henning Brockhaus, Corrado Rovaris alla guida dell’Accademia Barocca). Entro l’autunno del 2010 si sarebbero dovute rappresentate tutte le opere del compositore non solo a Jesi ma anche a Pozzuoli (dove morì ), spesso in coproduzione con altri teatri italiani e stranieri che le avrebbero messe in scena tra il 2010 ed il 2011 . Il calendario dell’autunno 2010 è saltato, e con esso alcuni accordi di co-produzione. L’integrale di Pergolesi verrà registrata in DvD, offerta in un cofanetto e diffusa in Italia sul canale televisivo “Classica”, e su canali analoghi in Francia, Germania ed altri Paesi
Anche se la vita di Pergolesi è stata breve, grandissimo il suo impatto sullo sviluppo del teatro in musica, in poco più di cinque lustri di vita e soltanto sette anni di professione. Formatosi a Napoli, al “Conservatorio dei poveri di Gesù Cristo”, iniziò con lavori a carattere religioso: “La fenice sul rogo, ovvero la morte di San Giuseppe, oratorio in 2 parti”, “Li prodigi della Divina Grazia nella conversione di San Guglielmo Duca d'Aquitania”, la “Messa in Re maggiore”. “Salustia”, messa in scena nel 2008 a Montpellier ed a Jesi, ed “Il Prigionier Superbo” (mai rappresentato sino all’11 settembre 2009) mostrano come Pergolesi avesse assimilato e reso trasparente il linguaggio dei musicisti allora all’avanguardia (Leo, Hasse, Vinci). In “Adriano in Siria”, Pergolesi affrontò tutte la opportunità che il “sistema melodrammatico” potesse offrire. Ne “L’Olimpiade” fece una scelta stilistica intimista. Accanto a questo percorso nel teatro serio, ne svolse uno parallelo nella musica sacra (“Salve Regina”, “Stabat Mater”) e soprattutto nella commedia in musica (“Lo’ Frate Innamoratu”, “La Serva Padrona”, “Livietta e Tracollo”, “Il Flaminio”). In tutte queste composizioni, anche le più religiose o le più esilaranti, pone al centro “il palpito dell’anima”, come ha scritto il compianto musicologo Francesco Degrada.
Fu questo “palpito dell’anima”, ancor più della rappresentazione a Parigi nel 1752 de “La Serva Padrona” a scatenare “la querelle des bouffons”, polemica durissima fra tradizione francese e musica italiana che segnò un punto di svolta non solo nella storia della musica ma nell’evoluzione dell’illuminismo .
Cosa era avvenuto nel frattempo? Gli Enciclopedisti a Parigi, i musicisti e gli intellettuali tedeschi, i teatri delle corti europee, i conventi e le cattedrali del vecchio e del nuovo mondo scoprirono la musica pergolesiana. Nel secolo Diciannovesimo, il mito s’arricchì di risvolti romantici. L’eredità spirituale, raccolta dai napoletani del Settecento, fu cara ai marchigiani dell’Ottocento - tra essi Spontini e Rossini - che riconoscevano nello Stabat Mater e nella “Serva padrona” i punti di riferimento per l’espressione spirituale e per il teatro comico .
Poi il silenzio, fino ai primi del Novecento, con il Pulcinella di Stravinskij, che accolse musiche autentiche e falsamente attribuite a Pergolesi. Per non menzionare. Richard Strauss che in “Capriccio” (ottobre 1942) si riagganciò a “la querelle des bouffons” per analizzare il dramma dell’intellettuale tedesco durate la Seconda Guerra Mondiale (il dilemma tra “scegliere” o “non scegliere” – Strauss scelse la seconda strada principalmente per aiutare musicisti ebrei, come documentato dagli atti del procedimento a suo carico istruito dagli alleati). Infine, la riscoperta: negli anni Ottanta Roberto De Simone con “Flaminio”, “Adriano in Siria”, “Lo frate ‘nnamorato”, e quindi, nel nuovo millennio, con la creazione della Fondazione Pergolesi Spontini.
Con il festival “Pergolesi in progress”, la Fondazione Pergolesi Spontini continua l’esecuzione dell’integrale delle musiche di Pergolesi. Inaugura il 2 e 4 settembre al Teatro Pergolesi il nuovo allestimento de “La Salustia”, per la regia di Juliette Deschamps, e la direzione di Corrado Rovaris. Il 3 settembre al Teatro Pergolesi (con anteprima giovani il 1 settembre) il Festival prosegue con il nuovo allestimento de “La Serva padrona” per la regia di Henning Brockhaus e la direzione ancora di Corrado Rovaris. L’8 e 10 settembre (replica il 10, anteprima giovani il 6 settembre) il Teatro Studio Moriconi ospita “L’Olimpiade”, per la regia di Italo Nunziata e la direzione di Alessandro De Marchi. Il 9 settembre alla Cattedrale di San Ciriaco ad Ancona si tiene il “Concerto Spirituale” nell’ambito del XXV Congresso Eucaristico Nazionale, in occasione del quale Rubén Dubrovsky dirige il Bach Consort Wien.
L’omaggio a Pergolesi prosegue con “Lo Frate ‘nnamorato” che inaugura il 30 settembre (replica il 2 ottobre, anteprima giovani il 28 settembre) la 44^ Stagione Lirica di Tradizione del Teatro Pergolesi di Jesi, un nuovo allestimento con la regia e le scene di Willy Landin. Fabio Biondi dirige Europa Galante.
Beckmesser
La piccola Jesi si era proposta come la Salisburgo italiana del 2010,ma o ragione di tagli inattesi ai finanziamenti pubblici o sulla base di aspettative derivanti solo da indicazioni verbali, parte del programma è slittato al settembre 2011.. Nel 2006 in occasione dei 150 dalla nascita di Mozart, nella sua città natale vennero rappresentati tutti e 22 i suoi lavori per il teatro in musica. Gian Battista Draghi (o Drago) detto Pergolesi in quanto discendente da una famiglia di Pergola, nacque a Jesi il 10 gennaio 2010 e la città natale sta completando un programma per mettere in scena tutte e dieci le sue opere ed anche tutto il resto della sua musica (soprattutto sacra, lo “Stabat Mater”. Pergolesi visse solo 26 anni (Mozart arrivò a 35). Sino a quando una diecina di anni fa, la Fondazione Pergolesi- Spontini , con un forte sostegno locale, non ha creato un festival annuale, venivano rappresentati unicamente “La Serva Padrona” (nata come in intermezzo in due parti per l’opera seria “Il Prigionier Superbo”), la commedia in musica “Il Flaminio” e grazie principalmente a Riccardo Muti (appassionato del lavoro), l’opera buffa “Lu’ Frate Innamoratu”. Non si conosceva, quasi, il grande contributo dato, nell’arco di pochi anni, all’opera seria.
Le celebrazioni hanno avuto un’anteprima il 5 giugno 2009 con un concerto diretto da Claudio Abbado alla guida dell’Orchestra Mozart . Il programma vero e proprio è cominciato l’11 settembre 2009 con la prima rappresentazione in tempi moderni de “Il Prigionier Superbo” (regia di Henning Brockhaus, Corrado Rovaris alla guida dell’Accademia Barocca). Entro l’autunno del 2010 si sarebbero dovute rappresentate tutte le opere del compositore non solo a Jesi ma anche a Pozzuoli (dove morì ), spesso in coproduzione con altri teatri italiani e stranieri che le avrebbero messe in scena tra il 2010 ed il 2011 . Il calendario dell’autunno 2010 è saltato, e con esso alcuni accordi di co-produzione. L’integrale di Pergolesi verrà registrata in DvD, offerta in un cofanetto e diffusa in Italia sul canale televisivo “Classica”, e su canali analoghi in Francia, Germania ed altri Paesi
Anche se la vita di Pergolesi è stata breve, grandissimo il suo impatto sullo sviluppo del teatro in musica, in poco più di cinque lustri di vita e soltanto sette anni di professione. Formatosi a Napoli, al “Conservatorio dei poveri di Gesù Cristo”, iniziò con lavori a carattere religioso: “La fenice sul rogo, ovvero la morte di San Giuseppe, oratorio in 2 parti”, “Li prodigi della Divina Grazia nella conversione di San Guglielmo Duca d'Aquitania”, la “Messa in Re maggiore”. “Salustia”, messa in scena nel 2008 a Montpellier ed a Jesi, ed “Il Prigionier Superbo” (mai rappresentato sino all’11 settembre 2009) mostrano come Pergolesi avesse assimilato e reso trasparente il linguaggio dei musicisti allora all’avanguardia (Leo, Hasse, Vinci). In “Adriano in Siria”, Pergolesi affrontò tutte la opportunità che il “sistema melodrammatico” potesse offrire. Ne “L’Olimpiade” fece una scelta stilistica intimista. Accanto a questo percorso nel teatro serio, ne svolse uno parallelo nella musica sacra (“Salve Regina”, “Stabat Mater”) e soprattutto nella commedia in musica (“Lo’ Frate Innamoratu”, “La Serva Padrona”, “Livietta e Tracollo”, “Il Flaminio”). In tutte queste composizioni, anche le più religiose o le più esilaranti, pone al centro “il palpito dell’anima”, come ha scritto il compianto musicologo Francesco Degrada.
Fu questo “palpito dell’anima”, ancor più della rappresentazione a Parigi nel 1752 de “La Serva Padrona” a scatenare “la querelle des bouffons”, polemica durissima fra tradizione francese e musica italiana che segnò un punto di svolta non solo nella storia della musica ma nell’evoluzione dell’illuminismo .
Cosa era avvenuto nel frattempo? Gli Enciclopedisti a Parigi, i musicisti e gli intellettuali tedeschi, i teatri delle corti europee, i conventi e le cattedrali del vecchio e del nuovo mondo scoprirono la musica pergolesiana. Nel secolo Diciannovesimo, il mito s’arricchì di risvolti romantici. L’eredità spirituale, raccolta dai napoletani del Settecento, fu cara ai marchigiani dell’Ottocento - tra essi Spontini e Rossini - che riconoscevano nello Stabat Mater e nella “Serva padrona” i punti di riferimento per l’espressione spirituale e per il teatro comico .
Poi il silenzio, fino ai primi del Novecento, con il Pulcinella di Stravinskij, che accolse musiche autentiche e falsamente attribuite a Pergolesi. Per non menzionare. Richard Strauss che in “Capriccio” (ottobre 1942) si riagganciò a “la querelle des bouffons” per analizzare il dramma dell’intellettuale tedesco durate la Seconda Guerra Mondiale (il dilemma tra “scegliere” o “non scegliere” – Strauss scelse la seconda strada principalmente per aiutare musicisti ebrei, come documentato dagli atti del procedimento a suo carico istruito dagli alleati). Infine, la riscoperta: negli anni Ottanta Roberto De Simone con “Flaminio”, “Adriano in Siria”, “Lo frate ‘nnamorato”, e quindi, nel nuovo millennio, con la creazione della Fondazione Pergolesi Spontini.
Con il festival “Pergolesi in progress”, la Fondazione Pergolesi Spontini continua l’esecuzione dell’integrale delle musiche di Pergolesi. Inaugura il 2 e 4 settembre al Teatro Pergolesi il nuovo allestimento de “La Salustia”, per la regia di Juliette Deschamps, e la direzione di Corrado Rovaris. Il 3 settembre al Teatro Pergolesi (con anteprima giovani il 1 settembre) il Festival prosegue con il nuovo allestimento de “La Serva padrona” per la regia di Henning Brockhaus e la direzione ancora di Corrado Rovaris. L’8 e 10 settembre (replica il 10, anteprima giovani il 6 settembre) il Teatro Studio Moriconi ospita “L’Olimpiade”, per la regia di Italo Nunziata e la direzione di Alessandro De Marchi. Il 9 settembre alla Cattedrale di San Ciriaco ad Ancona si tiene il “Concerto Spirituale” nell’ambito del XXV Congresso Eucaristico Nazionale, in occasione del quale Rubén Dubrovsky dirige il Bach Consort Wien.
L’omaggio a Pergolesi prosegue con “Lo Frate ‘nnamorato” che inaugura il 30 settembre (replica il 2 ottobre, anteprima giovani il 28 settembre) la 44^ Stagione Lirica di Tradizione del Teatro Pergolesi di Jesi, un nuovo allestimento con la regia e le scene di Willy Landin. Fabio Biondi dirige Europa Galante.
martedì 30 agosto 2011
LO SVILUPPO E LA MANOVRA TER Il Velino 30 agosto
Ve lo dico io LO SVILUPPO E LA MANOVRA TER
Giuseppe Pennisi
Edizione completa
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Roma - Sta per arrivare in Senato la “manovra ter”, il terzo programma di stabilizzazione finanziaria e di crescita economica presentato nell’arco di un mese sotto la pressione dell’emergenza e tale, quindi, da disorientare gli osservatori, italiani e stranieri. Non sarebbe opportuno entrare nei contenuti senza prima conoscere, e studiare, i dispositivi normativi. Sarebbe futile chiedersi chi sono i vincitori e i vinti, nell’ambito della coalizione governativa, di questa manovra ter che si presume diventerà un maxi emendamento del governo, di maggior peso (proprio per il valore di indirizzo che hanno gli atti dell’esecutivo) delle centinaia di emendamenti già presentati a Palazzo Madama. Occorre, però, chiedersi che fine ha fatto lo sviluppo nella manovra ter, una serie di misure rivolte da un lato a una “grande riforma costituzionale” di lungo periodo (se le relative leggi costituzionali verranno approvate in tempo) e da un altro a ridurre spese e alimentare entrate aggiuntive nei prossimi esercizi di bilancio? La Nemesi storica fa sì che la manovra ter viene licenziata proprio in parallelo con le notizie secondo cui le stime del Fondo monetario internazionale e dei 20 maggiori istituti econometrici stranieri hanno abbassato le prospettive di crescita reale per l’Italia nel resto del 2011 e nel 2012. Metà dei 20 istituti annunciano una nuova recessione. A maggior ragione sarebbe stato necessario un tonico, specialmente per affrontare quello che oggi è il maggiore problema economico, sociale e politico del Paese: la disoccupazione giovanile. Oggi la Banca d’Italia ha documentato che la manovra ter avrà effetti restrittivi e potrà aggravare il fenomeno dei giovani senza lavoro.
C’è un silenzio assordante in materia. I comunicati quasi non trattano l’argomento. Si deve pensare che le pallide misure per lo sviluppo inserite nel decreto legge 138 dello scorso 13 agosto siano rimaste immutate. Ma dato che si metteva mano in modo cospicuo al suo testo questo sarebbe stato il momento per quello scatto che si attende da mesi. Si sarebbero potute includere due misure concrete: a) Un rilancio dell’investimento pubblico. Di recente, la Banca mondiale, il Fondo monetario e il maggior istituto tedesco di analisi economica hanno pubblicato analisi eloquenti sui nessi tra infrastrutture e sviluppo. Su questa base si sarebbero potuto prendere queste misure: 1) chiudere le “contabilità speciali” considerate tesoretti privati di dicasteri e di singoli funzionari ed utilizzarne il ricavato per investimenti tali da aumentare produttività e competitività: 2) chiedere alle autorità europee golden rule ed eurobonds finalizzati ai grandi investimenti; 3) aumentare il ruolo e la capacità di valutazione e verifica delle unità preposte a questo scopo al Ministero dello Sviluppo Economico, in Presidenza del Consiglio (Dipartimento Affari Regionali) e altrove. b) privatizzare la Rai (ormai ridotta a una lite continua, a un’azienda mangiasoldi e distinta e distante da ogni forma di servizio pubblico). Attenzione: lo si può fare ancora nel maxi-emendamento governativo.
(Giuseppe Pennisi) 30 Agosto 2011 12:17
Giuseppe Pennisi
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Roma - Sta per arrivare in Senato la “manovra ter”, il terzo programma di stabilizzazione finanziaria e di crescita economica presentato nell’arco di un mese sotto la pressione dell’emergenza e tale, quindi, da disorientare gli osservatori, italiani e stranieri. Non sarebbe opportuno entrare nei contenuti senza prima conoscere, e studiare, i dispositivi normativi. Sarebbe futile chiedersi chi sono i vincitori e i vinti, nell’ambito della coalizione governativa, di questa manovra ter che si presume diventerà un maxi emendamento del governo, di maggior peso (proprio per il valore di indirizzo che hanno gli atti dell’esecutivo) delle centinaia di emendamenti già presentati a Palazzo Madama. Occorre, però, chiedersi che fine ha fatto lo sviluppo nella manovra ter, una serie di misure rivolte da un lato a una “grande riforma costituzionale” di lungo periodo (se le relative leggi costituzionali verranno approvate in tempo) e da un altro a ridurre spese e alimentare entrate aggiuntive nei prossimi esercizi di bilancio? La Nemesi storica fa sì che la manovra ter viene licenziata proprio in parallelo con le notizie secondo cui le stime del Fondo monetario internazionale e dei 20 maggiori istituti econometrici stranieri hanno abbassato le prospettive di crescita reale per l’Italia nel resto del 2011 e nel 2012. Metà dei 20 istituti annunciano una nuova recessione. A maggior ragione sarebbe stato necessario un tonico, specialmente per affrontare quello che oggi è il maggiore problema economico, sociale e politico del Paese: la disoccupazione giovanile. Oggi la Banca d’Italia ha documentato che la manovra ter avrà effetti restrittivi e potrà aggravare il fenomeno dei giovani senza lavoro.
C’è un silenzio assordante in materia. I comunicati quasi non trattano l’argomento. Si deve pensare che le pallide misure per lo sviluppo inserite nel decreto legge 138 dello scorso 13 agosto siano rimaste immutate. Ma dato che si metteva mano in modo cospicuo al suo testo questo sarebbe stato il momento per quello scatto che si attende da mesi. Si sarebbero potute includere due misure concrete: a) Un rilancio dell’investimento pubblico. Di recente, la Banca mondiale, il Fondo monetario e il maggior istituto tedesco di analisi economica hanno pubblicato analisi eloquenti sui nessi tra infrastrutture e sviluppo. Su questa base si sarebbero potuto prendere queste misure: 1) chiudere le “contabilità speciali” considerate tesoretti privati di dicasteri e di singoli funzionari ed utilizzarne il ricavato per investimenti tali da aumentare produttività e competitività: 2) chiedere alle autorità europee golden rule ed eurobonds finalizzati ai grandi investimenti; 3) aumentare il ruolo e la capacità di valutazione e verifica delle unità preposte a questo scopo al Ministero dello Sviluppo Economico, in Presidenza del Consiglio (Dipartimento Affari Regionali) e altrove. b) privatizzare la Rai (ormai ridotta a una lite continua, a un’azienda mangiasoldi e distinta e distante da ogni forma di servizio pubblico). Attenzione: lo si può fare ancora nel maxi-emendamento governativo.
(Giuseppe Pennisi) 30 Agosto 2011 12:17
Il futuro dell’euro appeso a produttività e competitività Avvenire 30 agosto
Il futuro dell’euro appeso a produttività e competitività l’analisi
Secondo le equazioni del Nobel Mundell, senza convergenza dei 'fondamentali' in Europa unione monetaria a rischio
DI GIUSEPPE PENNISI
N egli anni Sessanta, al¬l’osteria 'Da Mario' in Via di San Vitale di Bo¬logna (400 lire a pasto, primo, secondo, frutta ed acqua del ru¬binetto, vini a parte), all’ora di colazione, si incrociava spesso l’allora giovane (oggi Premio Nobel) Robert Mundell (do¬cente alla Johns Hopkins Uni¬versity) a pranzo con alcuni stu¬denti: il Lambrusco, di cui era ghiotto, lo pagava lui (e lo tra¬cannava quasi tutto lui). In una di quelle colazioni, su un tova¬gliolo di carta tracciò le due e¬quazioni essenziali del teore¬ma dell’area valutaria ottimale che a 29 anni gli aveva dato fa¬ma e il finanziamento Fullbri¬ght per insegnare a Bologna e apprezzare l’Italia (passa gran parte dell’anno in un suo po¬dere del Chianti). Quel tova¬gliolo, ove esistesse ancora, do¬vrebbero essere meditato da tutti coloro che desiderano im¬pedire che l’unione monetaria si dissolva e l’euro venga ricor¬dato nei libri di storia dei nostri nipoti come il 'milite ignoto' dell’integrazione europea.
Mundell spiegava che le due e¬quazioni volevano dire 'effet¬tiva' mobilità dei fattori di pro¬duzione, delle merci e dei ser-vizi (da distinguersi da 'libertà di circolazione') non per uno sghiribizzo teorico per giunge¬re al grado più alto di un’inte-grazione economica (la mone¬ta unica), ma perché solo con convergenza di produttività e competitività l’unione mone-taria può funzionare.
Oggi tornare a quel paio d’e¬quazioni può evitare una dis¬soluzione dell’unione moneta¬ria analoga a quella della 'zona della sterlina' non tanto a ra¬gione del disavanzo dei conti con l’estero del Paese chiave, ma per l’acuirsi dei divari di produttività e competitività. In alcuni Paesi (tra cui l’Italia) la produttività non aumenta da dieci anni. In altri corre poiché è stata metabolizzata l’irrever¬sibilità dell’accresciuta concor¬renza innescata dall’euro. Il Paese-chiave, la Germania, ha affrontato dieci anni di sacrifi¬ci per mettersi al passo con la nuova situazione, ma non è suf¬ficientemente grande da pote¬re curare i mali dell’intero con¬tinente.
Mentre ci si gingilla con nuovi strumenti di convergenza di fi¬nanza pubblica, per salvare il 'soldato semplice euro' occor¬re affiancarli con strumenti di economia reale tali da pro¬muovere la convergenza di pro¬duttività e competitività e offri¬re a chi non è in grado di farlo una via d’uscita che non com¬porti un trauma per l’Unione Europea e per i Paesi in ritardo. In questa ottica anche gli 'eu¬robond' dovrebbero essere vi¬sti come veicolo di sviluppo e non di tamponamento di falle. Si potrebbe pensare a un per¬corso decennale a tappe con in¬dicatori di produttività e com¬petitività (analogo al percorso di convergenza finanziaria del Trattato di Maastricht) . Chi do¬po venti anni dal varo dell’eu¬ro e trenta dalla firma di Maa¬stricht, non può (o non vuole) convergere in termini di pro¬duttività e competitività, può trovare alloggio nello «SME2» con misure fatte su misura per le sue circostanze (la Danimar¬ca ha un tasso di fluttuazione del 2,5% rispetto all’euro, la Gran Bretagna del 30%).
Non c’è tempo da perdere. Il più noto economista tedesco Hans- Werner Sinn suggerisce che la Grecia stacchi l’ancora e torni alla dracma; in seguito, a suo parere, lo dovrebbero fare altri Stati (tra cui forse l’Italia). L’economista André Cabannes ha lanciato addirittura la pro¬posta di un sistema duale: Gre¬cia, Francia, Irlanda, Italia, Por¬togallo e Spagna utilizzino le lo¬ro 'vecchie' monete (dracme, franchi, lire, sterline, scudi, pe¬seta) per le transazioni interne e l’euro per quelle europee ed internazionali, come avveniva nell’unione monetaria latina che è durata dal 1866 al 1927 (e nella 'zona della sterlina' co¬me ricordato da Avvenire del 25 agosto). Le Banche centrali na¬zionali gestirebbero la liquidità delle monete nazionali, la Bce quella a livello di euro. Gli ag¬giustamenti, secondo l’econo¬mista, sarebbero più facili e più visibili e incentiverebbero a mi¬gliorare produttività e compe¬titività.
________________________________________
Robert Mundell, premio Nobel economia 1999 Alla c.a. Marco Girardo & co.
sabato 27 agosto 2011
CNEL SUL VIALE DEL TRAMONTO? Il riformista 28 agosto
CNEL SUL VIALE DEL TRAMONTO?
Giuseppe Pennisi
Per lunedì mattina è stata convocata un’Assemblea Straordinaria del Cnel per predisporre una posizione concertata in vista dell’audizione in Parlamento del Presidente Marzano prevista per il giorno successivo. In effetti, quello di cui gran parte dei Consiglieri intendono discutere è la riforma dell’organo quale prevista dall’art.17 del Decreto Legge sulla manovra di stabilizzazione e di rilancio dell’economia in conversione in queste settimane. Il Decreto Legge prevede a) una drastica riduzione del numero dei componenti dell’organo; b) una loro diversa composizione per porla in linea con quella di organismi analoghi (circa settanta al mondo) nonché con la effettiva partecipazione delle varie categorie ai lavori; c) uno snellimento delle procedure . Vengono accentuati i nuovi settori dell’economia e della società e la componente tecnica dell’organo (anche perché, a ragione delle ristrettezze di bilancio, analisi e ricerche vanno fatte in proprio, ossia dai Consiglieri del Cnel – come già avviene da un anno con risultati che istituti esterni come la Commissione Europea considerano lusinghieri- e non appaltati all’esterno). Basta scorrere la composizione del Cnel nostrano con quella di organismi del resto del mondo per toccare con mano come la componente fordista-taylorista fosse ampiamente pletorica e non in linea con le esigenze di oggi e , soprattutto di domani, ma rispecchiasse principalmente l’Italia-che-fu.
Al centro del problema non c’ è una banale questione di poltrone. Il cuore della questione è se il Cnel deve contribuire all’Italia del futuro, ai problemi gravissimi della disoccupazione giovanile e delle fasce deboli, a plasmare quel dialogo sociale che l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) chiama “aggressivo” (mirato a cambiare le strutture di produzione) o se deve guardare melanconicamente al passato, fornendo seggi ad “ex” del mondo fordista-taylorista. Il 21 agosto, al Meeting di Comunione e Liberazione, il Capo dello Stato ha chiaramente indicato la rotta; alcuni giorni prima Giuseppe De Rita, a lungo alla guida del Cnel, ed il Cardinal Bagnasco (alla guida della CEI) avevano fatto considerazioni analoghe. Sul tema è intervenuto un esperto del livello e dell’indipendenza di giudiziose come Maurizio Ferrera dalla colonne del “Corriere della Sera” . E via discorrendo. La difesa dell’esistente è sempre perdente, in un mondo in rapido cambiamento; tentare di impostare il dialogo sociale su binari che l’OIL chiama “difensivi” vorrebbe dire sapere di fallire.
Indubbiamente, un’interruzione improvvisa della Consigliatura oppure, come minacciato da alcuni scontenti, il boicottaggio in caso la questione delle poltrone non venisse risolta guardando a serie storiche trentennali (piuttosto che alle esigenze del futuro) paralizzerebbero l’organo nel momento in cui il contributo che sta dando al piano nazionale di riforma, alla lotta alla disoccupazione giovanile, allo statuto dei lavori, al programma per le infrastrutture è più essenziale. Si potrebbe pensare a fare scattare la riforma dal termine normale della Consigliatura. Ma, scardinarla come in proposte nate in un riunione auto convocata a metà agosto, vorrebbe dire porre l’organo sul viale di un rapido tramonto.
Giuseppe Pennisi
Per lunedì mattina è stata convocata un’Assemblea Straordinaria del Cnel per predisporre una posizione concertata in vista dell’audizione in Parlamento del Presidente Marzano prevista per il giorno successivo. In effetti, quello di cui gran parte dei Consiglieri intendono discutere è la riforma dell’organo quale prevista dall’art.17 del Decreto Legge sulla manovra di stabilizzazione e di rilancio dell’economia in conversione in queste settimane. Il Decreto Legge prevede a) una drastica riduzione del numero dei componenti dell’organo; b) una loro diversa composizione per porla in linea con quella di organismi analoghi (circa settanta al mondo) nonché con la effettiva partecipazione delle varie categorie ai lavori; c) uno snellimento delle procedure . Vengono accentuati i nuovi settori dell’economia e della società e la componente tecnica dell’organo (anche perché, a ragione delle ristrettezze di bilancio, analisi e ricerche vanno fatte in proprio, ossia dai Consiglieri del Cnel – come già avviene da un anno con risultati che istituti esterni come la Commissione Europea considerano lusinghieri- e non appaltati all’esterno). Basta scorrere la composizione del Cnel nostrano con quella di organismi del resto del mondo per toccare con mano come la componente fordista-taylorista fosse ampiamente pletorica e non in linea con le esigenze di oggi e , soprattutto di domani, ma rispecchiasse principalmente l’Italia-che-fu.
Al centro del problema non c’ è una banale questione di poltrone. Il cuore della questione è se il Cnel deve contribuire all’Italia del futuro, ai problemi gravissimi della disoccupazione giovanile e delle fasce deboli, a plasmare quel dialogo sociale che l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) chiama “aggressivo” (mirato a cambiare le strutture di produzione) o se deve guardare melanconicamente al passato, fornendo seggi ad “ex” del mondo fordista-taylorista. Il 21 agosto, al Meeting di Comunione e Liberazione, il Capo dello Stato ha chiaramente indicato la rotta; alcuni giorni prima Giuseppe De Rita, a lungo alla guida del Cnel, ed il Cardinal Bagnasco (alla guida della CEI) avevano fatto considerazioni analoghe. Sul tema è intervenuto un esperto del livello e dell’indipendenza di giudiziose come Maurizio Ferrera dalla colonne del “Corriere della Sera” . E via discorrendo. La difesa dell’esistente è sempre perdente, in un mondo in rapido cambiamento; tentare di impostare il dialogo sociale su binari che l’OIL chiama “difensivi” vorrebbe dire sapere di fallire.
Indubbiamente, un’interruzione improvvisa della Consigliatura oppure, come minacciato da alcuni scontenti, il boicottaggio in caso la questione delle poltrone non venisse risolta guardando a serie storiche trentennali (piuttosto che alle esigenze del futuro) paralizzerebbero l’organo nel momento in cui il contributo che sta dando al piano nazionale di riforma, alla lotta alla disoccupazione giovanile, allo statuto dei lavori, al programma per le infrastrutture è più essenziale. Si potrebbe pensare a fare scattare la riforma dal termine normale della Consigliatura. Ma, scardinarla come in proposte nate in un riunione auto convocata a metà agosto, vorrebbe dire porre l’organo sul viale di un rapido tramonto.
La “versione di Ben” riavvicina la crisi Il Sussidiario 27 agosto
FINANZA/ La “versione di Ben” riavvicina la crisi
Giuseppe Pennisi
sabato 27 agosto 2011
Ben Bernanke (Foto: ANSA)
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FINANZA/ L'accordo Gran Bretagna-Svizzera manda in soffitta il paradiso fiscale
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vai al dossier Crisi o ripresa?
Diciamolo chiaro e tondo: il discorso del Presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, tenuto a Jackson Hole nel Wyoming. ci ha deluso. Bernanke, ricordiamolo, non ha il ruolo funzionale di un Governatore o di un Presidente di Banca centrale europea, ma in quanto Presidente e Coordinatore del Comitato per le operazioni sul mercato aperto della Federal Reserve può pilotare le operazioni delle banche federali di riserva degli Stati Uniti (12) oltre che dei sette componenti (tra cui lui) del Federal Reserve Board.
Come Capo economista di più di un inquilino della Casa Bianca, inoltre, ha notevole autorevolezza nel mondo accademico, politico e finanziario Usa. Inoltre (molti italiani non lo sanno), il suo libro più importante non è né il manuale di macro-economia adottato in università di mezzo mondo, né la raccolta dei saggi di economia pubblicata nel 1992 (il più significativo apparve nell’American Economic Review nell’autunno del 1983), ma i suoi studi sulla Grande Depressione pubblicati nel 2005.
Pensavo che da questi studi di appena sei anni fa “Ben” avesse tratto le lezioni per gli Stati Uniti e per il resto del mondo - segnatamente il rischio di una recessione douple dip o “a gobba di dromedario” in cui dopo una caduta avviene una ripresa che se non sostenuta da stimoli macro e micro economici si trasforma in una nuova recessione. La notte tra il 26 e il 27 agosto, i modelli econometrici dei 20 maggiori istituti di ricerca previsionale (tutti privati) avvertivano che c’è un forte rischio che un fenomeno del genere si verifichi, anche se in modo più accentuato nell’eurozona che negli Stati Uniti.
Quando conobbi “Ben” ed ebbi con lui un breve periodo di “frequentazione” mi si era presentato come un forte sostenitore di una “comunità economica atlantica a due gambe” in cui se una strascica , l’altra deve rafforzare il passo. A Jackson Hole, invece, Bernanke ha detto che le autorità monetarie federali Usa sono pronte a fornire ulteriore sostegno a un’economia debole, ma non ha indicato alcuna operazione imminente. Qualsiasi decisione sarà presa a settembre, quando la riunione di politica monetaria della Fed sarà prolungata da uno a due giorni - il 20 e il 21 - “per consentire una discussione più completa”.
La Federal Reserve, ha spiegato, “ha una serie di strumenti che potrebbero essere utilizzati per fornire ulteriore stimolo monetario”. Prima di varare nuovi interventi, ha precisato, la Banca centrale attenderà l’andamento dei dati economici nel corso delle prossime settimane e mesi. Bernanke ha affermato che la ripresa degli Stati Uniti continua a essere “modesta”, aggiungendo che il ritmo di crescita è stato più lento di quello che la Fed sperava. Ma si è detto più ottimista nel lungo periodo, spiegando che l’economia a stelle e strisce non è stata definitivamente scalfita dalla crisi finanziaria. “Anche se certamente esistono problemi importanti, i fondamentali della crescita degli Stati Uniti non sembrano essere stati alterati dalla crisi degli ultimi quattro anni”.
Le banche americane sono molto più sane ora - ha osservato - la produzione è aumentata del 15% e le famiglie hanno fatto progressi nel riparare i loro bilanci. Il numero uno della Fed ha poi detto che si aspetta un’inflazione pari o inferiore al 2% in scia a un rallentamento dei prezzi del petrolio e di altri beni. Allarme disoccupazione.
“La nostra economia sta soffrendo oggi di un livello straordinariamente elevato di disoccupazione di lunga durata, con quasi la metà dei disoccupati senza lavoro per più di sei mesi”. In breve, un intervento ispirato non tanto alla prudenza quanto alla “freccia del tempo” (da lui teorizzata anni fa) diretta ad acquisire maggiori informazioni prima di agire. Una posizione che può apparire saggia, ma invece delude. Non solo l’America è anemica e l’Europa sull’orlo di una nuova recessione, ma Cina e America Latina (che hanno trainato l’economia internazionale negli ultimi anni sono in fase di marcato rallentamento) e il Medio Oriente (altra fonte, anche se non centrale, di crescita) sono nel vero e proprio caos.
Non basta certo un nuovo quantative easing da parte delle autorità monetarie americane. Tuttavia, “Ben” avrebbe potuto dare il “la” e indicare anche l’esigenza di prolungare negli Usa gli sgravi relativi a imposte che gravano direttamente sui salari e di avviare, nell’ambito delle competenze sia federali sia dei singoli Stati dell’Unione, un programma di lavori pubblici (manutenzione straordinaria di strade, autostrade ed edifici scolastici). Un’indicazione da Jackson Hole sarebbe servita pure a svegliare il torpore europeo; c’è un vero e proprio “grido di dolore” - lo abbiamo riportato, ad esempio, nelle corrispondenze da Rimini - per politiche di crescita, ma non sembra percepito da alcuni gruppi della politica e dall’altra burocrazia , né da parte del sindacato (composto per di più da pensionati) ora molto alle prese con giochi di poltrone.
La Bce si trincerà dietro la prima delibera dei suoi organi di governo (unico obiettivo della Banca impedire che il saggio d’inflazione superi il 2% l’anno). Quasi nessuno, nel continente vecchio, pare preoccuparsi di produttività e competitività.
Caro “Ben”, contavamo su di te. Perché ci hai deluso?
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Giuseppe Pennisi
sabato 27 agosto 2011
Ben Bernanke (Foto: ANSA)
Approfondisci
FINANZA/ L'accordo Gran Bretagna-Svizzera manda in soffitta il paradiso fiscale
FINANZA/ Gli "allarmi" dal mercato: sta arrivando un’altra Lehman?
vai al dossier Crisi o ripresa?
Diciamolo chiaro e tondo: il discorso del Presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, tenuto a Jackson Hole nel Wyoming. ci ha deluso. Bernanke, ricordiamolo, non ha il ruolo funzionale di un Governatore o di un Presidente di Banca centrale europea, ma in quanto Presidente e Coordinatore del Comitato per le operazioni sul mercato aperto della Federal Reserve può pilotare le operazioni delle banche federali di riserva degli Stati Uniti (12) oltre che dei sette componenti (tra cui lui) del Federal Reserve Board.
Come Capo economista di più di un inquilino della Casa Bianca, inoltre, ha notevole autorevolezza nel mondo accademico, politico e finanziario Usa. Inoltre (molti italiani non lo sanno), il suo libro più importante non è né il manuale di macro-economia adottato in università di mezzo mondo, né la raccolta dei saggi di economia pubblicata nel 1992 (il più significativo apparve nell’American Economic Review nell’autunno del 1983), ma i suoi studi sulla Grande Depressione pubblicati nel 2005.
Pensavo che da questi studi di appena sei anni fa “Ben” avesse tratto le lezioni per gli Stati Uniti e per il resto del mondo - segnatamente il rischio di una recessione douple dip o “a gobba di dromedario” in cui dopo una caduta avviene una ripresa che se non sostenuta da stimoli macro e micro economici si trasforma in una nuova recessione. La notte tra il 26 e il 27 agosto, i modelli econometrici dei 20 maggiori istituti di ricerca previsionale (tutti privati) avvertivano che c’è un forte rischio che un fenomeno del genere si verifichi, anche se in modo più accentuato nell’eurozona che negli Stati Uniti.
Quando conobbi “Ben” ed ebbi con lui un breve periodo di “frequentazione” mi si era presentato come un forte sostenitore di una “comunità economica atlantica a due gambe” in cui se una strascica , l’altra deve rafforzare il passo. A Jackson Hole, invece, Bernanke ha detto che le autorità monetarie federali Usa sono pronte a fornire ulteriore sostegno a un’economia debole, ma non ha indicato alcuna operazione imminente. Qualsiasi decisione sarà presa a settembre, quando la riunione di politica monetaria della Fed sarà prolungata da uno a due giorni - il 20 e il 21 - “per consentire una discussione più completa”.
La Federal Reserve, ha spiegato, “ha una serie di strumenti che potrebbero essere utilizzati per fornire ulteriore stimolo monetario”. Prima di varare nuovi interventi, ha precisato, la Banca centrale attenderà l’andamento dei dati economici nel corso delle prossime settimane e mesi. Bernanke ha affermato che la ripresa degli Stati Uniti continua a essere “modesta”, aggiungendo che il ritmo di crescita è stato più lento di quello che la Fed sperava. Ma si è detto più ottimista nel lungo periodo, spiegando che l’economia a stelle e strisce non è stata definitivamente scalfita dalla crisi finanziaria. “Anche se certamente esistono problemi importanti, i fondamentali della crescita degli Stati Uniti non sembrano essere stati alterati dalla crisi degli ultimi quattro anni”.
Le banche americane sono molto più sane ora - ha osservato - la produzione è aumentata del 15% e le famiglie hanno fatto progressi nel riparare i loro bilanci. Il numero uno della Fed ha poi detto che si aspetta un’inflazione pari o inferiore al 2% in scia a un rallentamento dei prezzi del petrolio e di altri beni. Allarme disoccupazione.
“La nostra economia sta soffrendo oggi di un livello straordinariamente elevato di disoccupazione di lunga durata, con quasi la metà dei disoccupati senza lavoro per più di sei mesi”. In breve, un intervento ispirato non tanto alla prudenza quanto alla “freccia del tempo” (da lui teorizzata anni fa) diretta ad acquisire maggiori informazioni prima di agire. Una posizione che può apparire saggia, ma invece delude. Non solo l’America è anemica e l’Europa sull’orlo di una nuova recessione, ma Cina e America Latina (che hanno trainato l’economia internazionale negli ultimi anni sono in fase di marcato rallentamento) e il Medio Oriente (altra fonte, anche se non centrale, di crescita) sono nel vero e proprio caos.
Non basta certo un nuovo quantative easing da parte delle autorità monetarie americane. Tuttavia, “Ben” avrebbe potuto dare il “la” e indicare anche l’esigenza di prolungare negli Usa gli sgravi relativi a imposte che gravano direttamente sui salari e di avviare, nell’ambito delle competenze sia federali sia dei singoli Stati dell’Unione, un programma di lavori pubblici (manutenzione straordinaria di strade, autostrade ed edifici scolastici). Un’indicazione da Jackson Hole sarebbe servita pure a svegliare il torpore europeo; c’è un vero e proprio “grido di dolore” - lo abbiamo riportato, ad esempio, nelle corrispondenze da Rimini - per politiche di crescita, ma non sembra percepito da alcuni gruppi della politica e dall’altra burocrazia , né da parte del sindacato (composto per di più da pensionati) ora molto alle prese con giochi di poltrone.
La Bce si trincerà dietro la prima delibera dei suoi organi di governo (unico obiettivo della Banca impedire che il saggio d’inflazione superi il 2% l’anno). Quasi nessuno, nel continente vecchio, pare preoccuparsi di produttività e competitività.
Caro “Ben”, contavamo su di te. Perché ci hai deluso?
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venerdì 26 agosto 2011
DAL GIAPPONE I NUMERI PER L’INNOVAZIONE Il Rifornista 27 agosto
I LIBRI DEI MINISTRI- RAFFAELE FITTO
DAL GIAPPONE I NUMERI PER L’INNOVAZIONE
Giuseppe Pennisi
Raffaele Fitto non il più giovane della compagine ministeriale ma il più flemmatico. E’ pugliese ma lo chiamano “British” non solo per i gessati e i fumo di Londra che ama indossare ma soprattutto perché non si turba, né quando lo accusano di “turbativa d’asta” (tutte chiacchiere!!) né quando le autorità europee minacciano di decurtare (e, se del caso, di azzerare) i finanziamenti a titolo di fondi strutturali).
Dopo aver licenziato il 3 agosto un piano di 7,4 miliardi per le infrastrutture, questa estate ha passato i pochi giorni di ferie ministeriali studiando alacremente, anche sulla base di analisi anche inedite inviategli dal Council of European Municipalities and Regions dei cui organi di governo ha fatto parte. Già all’inizio di agosto aveva anticipato che , dopo l’accento sulle infrastrutture, avrebbe dato la priorità alle università ed alla ricerca al fine di promuovere una crescita virtuosa basata sull’innovazione. E’ su questi temi che ha concentrato le sue letture. Lo ha colpito in particolare la metodologia sviluppata in Giappone per valutare l’innovazione a livello regionale . Viene illustrata in un lavoro di Nobuya Fukugawa della Scuola di Specializzazione in Ingegneria di Tohoku University dal titolo “Asssessing Regional Innovation Policy on Local Public Technology Centers in Japan” Nobuya Fukugawa è un giovane professore associato ma i suoi lavori (quello in oggetto è stato pubblicato lo scorso maggio) ha acquisito un notevole prestigio internazionali; le sue proposte metodologiche – fa sapere al suo staff ed alle unità di valutazione e verifica di investimenti pubblici – vanno esaminate con cura: possono diventare un’arma contro i tagliatori di teste (e di fondi) dell’Unione Europea UE . Se hanno difficoltà a trovare il lavoro si mettano in contatto con il buon, e anche lui flemmatico, Fukugawa al nfukugawa@gmail.com. Ne sarà lieto anche il collega Paolo Romani.
Think Positevely è il suo britannico motto per uscire dalla stagnazione (e dalla recessione nel Sud e delle Isole). A tal fine fa sapere Bobo Maroni che l’immigrazione può essere strumento d’innovazione. Lo documenta il Discussion Paper 11 -112/3 del Timbergen Institute dell’Università di Amsterdam , facilmente reperibile sul sito dell’istituto. Ne sono autori Crenen Ozgen, Peter Nijkamp e Jacques Poot. Nijkamp, in particolare, un grande amico e conoscitore dell’Italia: i memo giovani si ricordano sia i suoi corsi universitari sia le sue nuotate mattutine in costume adamitico nella piscina di casa Archibugi, nei pressi del Divino Amore. La loro analisi si basa su dati del 1991-95 e del 2001-2005 di 170 distretti economici dell’UE. Vengono utilizzati numerosi indicatori, tra cui la localizzazione dei ristoranti McDonald’s come nuovo strumento per attirare immigranti nell’area, Con formazione appropriata, i dati affermano che dove esiste una struttura produttiva appropriata, il livello medio della preparazione degli immigrati contribuisce all’innovazione, non solo a quella “adattiva” (ossia all’adattamento alle condizioni locali) ma anche all’aumento del numero dei brevetti ed alla nascita di nuove imprese ed alla loro crescita.
DAL GIAPPONE I NUMERI PER L’INNOVAZIONE
Giuseppe Pennisi
Raffaele Fitto non il più giovane della compagine ministeriale ma il più flemmatico. E’ pugliese ma lo chiamano “British” non solo per i gessati e i fumo di Londra che ama indossare ma soprattutto perché non si turba, né quando lo accusano di “turbativa d’asta” (tutte chiacchiere!!) né quando le autorità europee minacciano di decurtare (e, se del caso, di azzerare) i finanziamenti a titolo di fondi strutturali).
Dopo aver licenziato il 3 agosto un piano di 7,4 miliardi per le infrastrutture, questa estate ha passato i pochi giorni di ferie ministeriali studiando alacremente, anche sulla base di analisi anche inedite inviategli dal Council of European Municipalities and Regions dei cui organi di governo ha fatto parte. Già all’inizio di agosto aveva anticipato che , dopo l’accento sulle infrastrutture, avrebbe dato la priorità alle università ed alla ricerca al fine di promuovere una crescita virtuosa basata sull’innovazione. E’ su questi temi che ha concentrato le sue letture. Lo ha colpito in particolare la metodologia sviluppata in Giappone per valutare l’innovazione a livello regionale . Viene illustrata in un lavoro di Nobuya Fukugawa della Scuola di Specializzazione in Ingegneria di Tohoku University dal titolo “Asssessing Regional Innovation Policy on Local Public Technology Centers in Japan” Nobuya Fukugawa è un giovane professore associato ma i suoi lavori (quello in oggetto è stato pubblicato lo scorso maggio) ha acquisito un notevole prestigio internazionali; le sue proposte metodologiche – fa sapere al suo staff ed alle unità di valutazione e verifica di investimenti pubblici – vanno esaminate con cura: possono diventare un’arma contro i tagliatori di teste (e di fondi) dell’Unione Europea UE . Se hanno difficoltà a trovare il lavoro si mettano in contatto con il buon, e anche lui flemmatico, Fukugawa al nfukugawa@gmail.com. Ne sarà lieto anche il collega Paolo Romani.
Think Positevely è il suo britannico motto per uscire dalla stagnazione (e dalla recessione nel Sud e delle Isole). A tal fine fa sapere Bobo Maroni che l’immigrazione può essere strumento d’innovazione. Lo documenta il Discussion Paper 11 -112/3 del Timbergen Institute dell’Università di Amsterdam , facilmente reperibile sul sito dell’istituto. Ne sono autori Crenen Ozgen, Peter Nijkamp e Jacques Poot. Nijkamp, in particolare, un grande amico e conoscitore dell’Italia: i memo giovani si ricordano sia i suoi corsi universitari sia le sue nuotate mattutine in costume adamitico nella piscina di casa Archibugi, nei pressi del Divino Amore. La loro analisi si basa su dati del 1991-95 e del 2001-2005 di 170 distretti economici dell’UE. Vengono utilizzati numerosi indicatori, tra cui la localizzazione dei ristoranti McDonald’s come nuovo strumento per attirare immigranti nell’area, Con formazione appropriata, i dati affermano che dove esiste una struttura produttiva appropriata, il livello medio della preparazione degli immigrati contribuisce all’innovazione, non solo a quella “adattiva” (ossia all’adattamento alle condizioni locali) ma anche all’aumento del numero dei brevetti ed alla nascita di nuove imprese ed alla loro crescita.
giovedì 25 agosto 2011
Un cavaliere a Milano da Formiche settembre
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Un cavaliere a Milano
01/08/2011 | Beckmesser
Il Teatro alla Scala è l´unico teatro d´opera italiano a ricordare che nel 2011 ricorre il centenario de Il cavaliere della rosa (Komôdie für Musik), del cattolico liberale bavarese Richard Strauss e dell´integralista Hugo von Hofmannsthal.
Il Teatro alla Scala merita un elogio: è l´unico teatro d´opera italiano a ricordare che nel 2011 ricorre il centenario de Il cavaliere della rosa (Komôdie für Musik), del cattolico liberale bavarese Richard Strauss e dell´integralista (di famiglia di ebrei convertiti) Hugo von Hofmannsthal. Propone un grande allestimento alla ripresa autunnale. Al pari di quanto Theodor Adorno ha scritto su I maestri cantori di Norimberga di Richard Wagner "la maggiore espressione artistica del mondo occidentale", Il cavaliere della rosa di Strauss-Hofmannsthal non è soltanto ancora oggi la migliore espressione artistica di un´Europa che (schiacciata da americanizzazione e globalizzazione) ha spazi sempre più ristretti ma ha anche valori sempre più forti innanzitutto la tolleranza.
Il progetto iniziale del laicissimo ed europeissimo "Graf" (Conte) Harry Klesser, nato a Parigi da padre tedesco e madre irlandese, ma cresciuto tra Gran Bretagna, Francia e Germania era una curiosa "contaminatio" di commedie di Molière, dei libretti scritti da Da Ponte per Mozart (in particolare Le nozze di Figaro), di capitoli del Wilhelm Meister di Goethe, di spunti da I maestri cantori di Wagner, nonché di intrecci tipici del teatro italiano (soprattutto Goldoni e Machiavelli). Nata con ambizioni commerciali, rappresentata per la prima volta a Dresda il 27 gennaio 1911 e, nel giro di pochi mesi, sulle scene di tutti i maggiori teatri europei, trasformata in un film di successo nel 1925, Il cavaliere avrebbe cantato la "finis Europa" in tutte e due le guerre mondiali. Tanto nel 1914-18 quanto nel 1939-45, i giovani Jules e Jim, tedeschi e francesi, fischiettavano, in trincea, il tempo di valzer che accompagna gran parte della "commedia in musica". Il cavaliere può essere interpretato a vari livelli: a) una "commedia per adulti" sulla formazione del giovane protagonista (quindi, una "Bildungsoper"); b) una "rievocazione in musica" del tempo andato; c) un messaggio politico alto e forte sulla transizione (il Verwandlung che ha un ruolo fondante nella cultura non solo tedesca ma europea nella seconda parte del XIX e nella prima del XX secolo e che è di grande rilievo all´Italia di questo primo scorcio di XXI secolo).
Quale è il messaggio? Per Richard Strauss, nato nel 1864, già celebre nel 1880 ed ancora in attività nel 1949, e per Hugo von Hofmannsthal, nato dieci anni dopo e morto venti prima del suo sodale, la politica del secolo che va dalla battaglia di Sedan al secondo dopoguerra è stata solo un rumore di fondo, un brusio fuori scena, di un messaggio più alto, e, quindi, paradossalmente più politico: l´inarrestabilità della trasformazione e della modernizzazione, salvaguardando sempre il valore della tolleranza. Marie-Thèrese, la Marescialla 33nne, "dà" Octavian, il giovane 17nne, a Sophie, fanciulla 16enne, perché sa che chi difende l´esistente perde sempre. Analogamente, il flusso inarrestabile della sinfonia wagneriana si fonde con i terzetti mozartiani, la polifonia, la vocalità italiana ed il teatro "leggero" alla ricerca di qualcosa che supera gli stessi primi approcci di dodecafonia perché, anche nella composizione e nella "commedia in musica", chi difende l´esistente perde sempre.
Una notazione finale. La Scala, che nel 2003 aveva ripreso un allestimento del Teatro Carlo Felice di Genova, questa volta presenta una produzione di Herbert Wernicke che rappresenta probabilmente un affinamento di allestimenti già presentati a Salisburgo, Parigi e Madrid. Il vostro chroniquer lo ha visto nel 2005 a Salisburgo: è una gioia per gli occhi che interpreta correttamente il significato de Il Cavaliere.
© Riproduzione riservata
01/08/2011 | Beckmesser
Il Teatro alla Scala è l´unico teatro d´opera italiano a ricordare che nel 2011 ricorre il centenario de Il cavaliere della rosa (Komôdie für Musik), del cattolico liberale bavarese Richard Strauss e dell´integralista Hugo von Hofmannsthal.
Il Teatro alla Scala merita un elogio: è l´unico teatro d´opera italiano a ricordare che nel 2011 ricorre il centenario de Il cavaliere della rosa (Komôdie für Musik), del cattolico liberale bavarese Richard Strauss e dell´integralista (di famiglia di ebrei convertiti) Hugo von Hofmannsthal. Propone un grande allestimento alla ripresa autunnale. Al pari di quanto Theodor Adorno ha scritto su I maestri cantori di Norimberga di Richard Wagner "la maggiore espressione artistica del mondo occidentale", Il cavaliere della rosa di Strauss-Hofmannsthal non è soltanto ancora oggi la migliore espressione artistica di un´Europa che (schiacciata da americanizzazione e globalizzazione) ha spazi sempre più ristretti ma ha anche valori sempre più forti innanzitutto la tolleranza.
Il progetto iniziale del laicissimo ed europeissimo "Graf" (Conte) Harry Klesser, nato a Parigi da padre tedesco e madre irlandese, ma cresciuto tra Gran Bretagna, Francia e Germania era una curiosa "contaminatio" di commedie di Molière, dei libretti scritti da Da Ponte per Mozart (in particolare Le nozze di Figaro), di capitoli del Wilhelm Meister di Goethe, di spunti da I maestri cantori di Wagner, nonché di intrecci tipici del teatro italiano (soprattutto Goldoni e Machiavelli). Nata con ambizioni commerciali, rappresentata per la prima volta a Dresda il 27 gennaio 1911 e, nel giro di pochi mesi, sulle scene di tutti i maggiori teatri europei, trasformata in un film di successo nel 1925, Il cavaliere avrebbe cantato la "finis Europa" in tutte e due le guerre mondiali. Tanto nel 1914-18 quanto nel 1939-45, i giovani Jules e Jim, tedeschi e francesi, fischiettavano, in trincea, il tempo di valzer che accompagna gran parte della "commedia in musica". Il cavaliere può essere interpretato a vari livelli: a) una "commedia per adulti" sulla formazione del giovane protagonista (quindi, una "Bildungsoper"); b) una "rievocazione in musica" del tempo andato; c) un messaggio politico alto e forte sulla transizione (il Verwandlung che ha un ruolo fondante nella cultura non solo tedesca ma europea nella seconda parte del XIX e nella prima del XX secolo e che è di grande rilievo all´Italia di questo primo scorcio di XXI secolo).
Quale è il messaggio? Per Richard Strauss, nato nel 1864, già celebre nel 1880 ed ancora in attività nel 1949, e per Hugo von Hofmannsthal, nato dieci anni dopo e morto venti prima del suo sodale, la politica del secolo che va dalla battaglia di Sedan al secondo dopoguerra è stata solo un rumore di fondo, un brusio fuori scena, di un messaggio più alto, e, quindi, paradossalmente più politico: l´inarrestabilità della trasformazione e della modernizzazione, salvaguardando sempre il valore della tolleranza. Marie-Thèrese, la Marescialla 33nne, "dà" Octavian, il giovane 17nne, a Sophie, fanciulla 16enne, perché sa che chi difende l´esistente perde sempre. Analogamente, il flusso inarrestabile della sinfonia wagneriana si fonde con i terzetti mozartiani, la polifonia, la vocalità italiana ed il teatro "leggero" alla ricerca di qualcosa che supera gli stessi primi approcci di dodecafonia perché, anche nella composizione e nella "commedia in musica", chi difende l´esistente perde sempre.
Una notazione finale. La Scala, che nel 2003 aveva ripreso un allestimento del Teatro Carlo Felice di Genova, questa volta presenta una produzione di Herbert Wernicke che rappresenta probabilmente un affinamento di allestimenti già presentati a Salisburgo, Parigi e Madrid. Il vostro chroniquer lo ha visto nel 2005 a Salisburgo: è una gioia per gli occhi che interpreta correttamente il significato de Il Cavaliere.
© Riproduzione riservata
Rilancio europeo a colpi di sigle in Formiche settembre
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Rilancio europeo a colpi di sigle
01/08/2011 | Giuseppe Pennisi
La vera innovazione, la più importante forse da dieci anni in Europa, è la stretta connessione e simultaneità tra crescita economica e aggiustamento finanziario, quindi tra Pnr e Psc, al fine di dare vita a una politica economica di qualità (Dpe).
Tre nuove sigle sono entrare nella galassia delle abbreviazioni. Prima piano, piano. Poi in modo più visibile e più rumoroso. Si tratta dei documenti-chiave del nuovo "semestre europeo", in effetti la prima parte dell´anno in cui tutti i Paesi dell´"eurozona" (ma in pratica anche i Paesi non dell´"eurozona" ma parte del club dell´Unione europea) assumono le loro decisioni chiave di politica economica e, con esse, i vari strumenti normativi, per raggiungere gli obiettivi di "Europa 2020" e del patto "euro-plus". Quindi, non solo il pareggio di bilancio entro il 2014 e la riduzione di un ventesimo l´anno dello stock di debito pubblico superiore al 60% del Pil; "Europa 2020" infatti, ha obiettivi di crescita. Il Programma nazionale di riforma (Pnr) deve dare ad essi corpo. Il Programma di stabilità e convergenza (Psc), invece, riguarda la finanza pubblica e gli aggregati monetari; per molti Paesi dell´"eurozona" (l´Italia è nelle prime file) è un programma di restrizioni di finanza pubblica il nostro (43 miliardi di euro) si presenta tanto pesante quanto quello che, negli anni Novanta, ci ha portato all´ingresso nell´euro.
Insieme, rappresentano i due aspetti della Decisione di politica economica (Dpe) che si estrinseca con una o più norme, come la legge finanziaria d´antan con i suoi collegati. Il disegno è coerente: in un´unione economica e ancor più in un´unione monetaria, le decisioni chiave di tutti i partner sono interdipendenti e per questo motivo devono essere prese simultaneamente e in modo coordinato. Il coordinamento avviene non solamente tramite il Consiglio dei ministri economici e finanziari dell´Ue (e dell´"eurozona") ma anche in quanto, all´inizio del processo, la Commissione europea fornisce a tutte le parti in causa un proprio quadro di previsioni e, in corso d´opera, osservazioni e proposte in materia di Pnr, Psc e via discorrendo. In Italia una funzione importante di stimolo è stata svolta dal Cnel, che ha tra l´altro fornito a governo e Parlamento un´analisi comparata dei programmi dei principali Paesi dell´Ue.
Guardando a ritroso, occorre chiedersi se in Italia è andato tutto bene in questa prima tornata del "semestre europeo". Dato che si trattava di una prima volta, ci si dovrebbe appellare alla clemenza della Corte. È mancato, infatti, il nesso essenziale: la simultaneità tra Pnr e Psc. In effetti, in una prima fase, c´è anche stata una certa confusione su chi avesse la titolarità della preparazione del Pnr; se, in mancanza del ministro delle Politiche comunitarie (o simile), l´organo collegiale (Ciace; Comitato interministeriale per gli affari comunitari ed europei) o il ministro dell´Economia e delle finanze a cui il presidente del Consiglio aveva conferito una delega. In effetti, il Pnr presentato nei termini (metà aprile) appare di qualità notevolmente inferiore rispetto a quelli presentati da Francia, Germania e Gran Bretagna, in quanto piuttosto vago anche nei punti centrali della politica dello sviluppo. Quasi a ridosso del Pnr è stato presentato un "decreto per lo Sviluppo", che riguarda una serie di obiettivi meritevoli ("piano casa", incentivi per le assunzioni al sud) ma poco attinenti al Pnr. Dopo l´approvazione del "decreto per lo Sviluppo" è iniziato il vero e proprio tormentone sulla manovra annuale e pluriennale di finanza pubblica (ossia il Psc) che si estenderà su quattro esercizi finanziari.
Non è questa la sede per esaminare il merito dei singoli provvedimenti.
È molto più importante il metodo: la vera innovazione, la più importante forse da dieci anni in Europa, è la stretta connessione e simultaneità tra crescita economica e aggiustamento finanziario, quindi tra Pnr e Psc, al fine di dare vita a una politica economica di qualità (Dpe).
Il prossimo anno è bene dare segni concreti di miglioramento.
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L’euro? Rischia di fare la fine della sterlina in Avvenire 25 agosto
l’analisi L’euro? Rischia di fare la fine della sterlina
DI GIUSEPPE PENNISI
L a crisi del debito dell’Euro¬zona e le manovre di finanza pubblica messe in atto per tamponarla si dice abbiano pun¬ti in comune con la situazione del¬l’estate- autunno del 1992. Al¬lora, l’unione monetaria euro¬pea era in prospettiva, ma i mercati non avevano fiducia nel fatto che alcuni potenzia¬li Stati membri (Italia in prima linea) ce l’avrebbero fatta.
Anche se ci sono analogie con la crisi del 1992, il parallelo più calzante è quello con la fase che precedette la fine dell’area della sterlina dopo la svalutazione della moneta di Sua Maestà bri¬tannica, il 18 novembre 1967. In quel caso non ci fu un tracollo, con azzeramento dei pertinen¬ti accordi, ma uno smottamen¬to progressivo sino alla fine del 1972.
Il contesto internazionale era ben diverso dall’attuale. Nata al¬l’inizio della seconda guerra mondiale (la sterlina aveva perso dopo la pri¬ma guerra mondiale lo status di principale valuta per gli scambi internazionali), la «zo¬na della sterlina» consisteva in una serie di accordi diretti a definire un sistema unifor¬me di controlli valutari (verso il resto del mondo) e di assicurare al proprio interno l’utilizzazione della sterlina come moneta dei vari Paesi ad essa aderenti, oppure cam¬bi fissi tra monete nazio¬nali (da utilizzarsi all’in¬terno di ciascun Paese) e la sterlina. Circa 80 Paesi tra grandi – come Canada e Australia – e piccoli – ad esempio le Seychelles – ne fecero parte al mo¬mento del suo maggior fulgore in base a nor¬mative uniformi. Le compensazioni dei sal¬di delle bilance dei pagamenti diventarono compito della Bank of England, dove le ster¬ling balances venivano depositate.
La Gran Bretagna uscì dalla seconda guerra mondiale con uno stock di debito pari al 250% circa del Pil; ne seguì nel 1949 una sva¬lutazione del 30% circa del cambio della ster¬lina nei confronti del dollaro, concertata con il resto della zona, utilizzando anche i buo¬ni uffici del Fondo monetario. Il quadro cambiò negli Anni Sessanta: non tanto perché i vari Paesi prendevano strade differenti (pure in ragione dei diversissimi livelli di sviluppo), ma in quanto le politiche interne britanniche (i laburisti guidavano la macchina) comportavano crescenti disa¬vanzi della bilancia dei pagamenti in una fa¬se di trasformazione del mercato interna¬zionale (sorgeva l’euro¬dollaro). Da un lato, Lon¬dra diventò il principale cliente del Fondo mone¬tario. Dall’altro – ricorda un acuto saggio di Ben Clift – dal confronto con¬tinuo ed intenso con i go¬verni laburisti, il Fondo (nato keynesiano) diventò neo-liberale. Dato che le risorse or¬dinarie del Fmi non sembravano adeguate a soddisfare l’esigenza di parare il disavan¬zo britannico e assicurare liquidità per la cre-scita mondiale, nel settembre 1967 l’assem¬blea del Fondo monetario internazionale ap¬provò la modifica degli statuti per varare i «diritti speciali di prelievo», i DPS, le cui pri¬me emissioni avvennero nel 1969.
Il 18 novembre 1967 (ero studente negli U¬sa) il professor Randall Hinshaw (ex Sotto¬segretario al Tesoro Usa oltre che noto teo¬rico di economica monetaria), non ar¬rivò a lezione con la solita puntualità e aspetto apollineo, ma trafelato.
Non esistevano telefonini. Aveva appena ricevuto una telefonata dalla moglie e ci disse agitatis¬simo: «They finally did it! (alla fine lo hanno fatto!, ndr ) »: la Gran Bretagna aveva svaluta¬to del 14% la sterlina senza consultarsi con il resto della zona. Chi aveva saldi attivi presso la Bank of England pre¬se una bella botta. Iniziò lo smottamento.
I paralleli sono molteplici: la na¬scita di mercati e strumenti non regolamentati (l’eurodollaro); i D¬PS non dissimili dagli «eurobond» di cui si parla oggi; i tentativi di tam¬ponare falle (senza cambiare politiche economiche); il pericolo di smotta¬mento per rivalutazione o svalutazione non concordata di alcuni soci. Per questo è urgente definire un percorso che eviti che la situazione si ripeta.
La situazione attuale è simile a quella che portò alla fine dell’area della moneta britannica, nel 1972
DI GIUSEPPE PENNISI
L a crisi del debito dell’Euro¬zona e le manovre di finanza pubblica messe in atto per tamponarla si dice abbiano pun¬ti in comune con la situazione del¬l’estate- autunno del 1992. Al¬lora, l’unione monetaria euro¬pea era in prospettiva, ma i mercati non avevano fiducia nel fatto che alcuni potenzia¬li Stati membri (Italia in prima linea) ce l’avrebbero fatta.
Anche se ci sono analogie con la crisi del 1992, il parallelo più calzante è quello con la fase che precedette la fine dell’area della sterlina dopo la svalutazione della moneta di Sua Maestà bri¬tannica, il 18 novembre 1967. In quel caso non ci fu un tracollo, con azzeramento dei pertinen¬ti accordi, ma uno smottamen¬to progressivo sino alla fine del 1972.
Il contesto internazionale era ben diverso dall’attuale. Nata al¬l’inizio della seconda guerra mondiale (la sterlina aveva perso dopo la pri¬ma guerra mondiale lo status di principale valuta per gli scambi internazionali), la «zo¬na della sterlina» consisteva in una serie di accordi diretti a definire un sistema unifor¬me di controlli valutari (verso il resto del mondo) e di assicurare al proprio interno l’utilizzazione della sterlina come moneta dei vari Paesi ad essa aderenti, oppure cam¬bi fissi tra monete nazio¬nali (da utilizzarsi all’in¬terno di ciascun Paese) e la sterlina. Circa 80 Paesi tra grandi – come Canada e Australia – e piccoli – ad esempio le Seychelles – ne fecero parte al mo¬mento del suo maggior fulgore in base a nor¬mative uniformi. Le compensazioni dei sal¬di delle bilance dei pagamenti diventarono compito della Bank of England, dove le ster¬ling balances venivano depositate.
La Gran Bretagna uscì dalla seconda guerra mondiale con uno stock di debito pari al 250% circa del Pil; ne seguì nel 1949 una sva¬lutazione del 30% circa del cambio della ster¬lina nei confronti del dollaro, concertata con il resto della zona, utilizzando anche i buo¬ni uffici del Fondo monetario. Il quadro cambiò negli Anni Sessanta: non tanto perché i vari Paesi prendevano strade differenti (pure in ragione dei diversissimi livelli di sviluppo), ma in quanto le politiche interne britanniche (i laburisti guidavano la macchina) comportavano crescenti disa¬vanzi della bilancia dei pagamenti in una fa¬se di trasformazione del mercato interna¬zionale (sorgeva l’euro¬dollaro). Da un lato, Lon¬dra diventò il principale cliente del Fondo mone¬tario. Dall’altro – ricorda un acuto saggio di Ben Clift – dal confronto con¬tinuo ed intenso con i go¬verni laburisti, il Fondo (nato keynesiano) diventò neo-liberale. Dato che le risorse or¬dinarie del Fmi non sembravano adeguate a soddisfare l’esigenza di parare il disavan¬zo britannico e assicurare liquidità per la cre-scita mondiale, nel settembre 1967 l’assem¬blea del Fondo monetario internazionale ap¬provò la modifica degli statuti per varare i «diritti speciali di prelievo», i DPS, le cui pri¬me emissioni avvennero nel 1969.
Il 18 novembre 1967 (ero studente negli U¬sa) il professor Randall Hinshaw (ex Sotto¬segretario al Tesoro Usa oltre che noto teo¬rico di economica monetaria), non ar¬rivò a lezione con la solita puntualità e aspetto apollineo, ma trafelato.
Non esistevano telefonini. Aveva appena ricevuto una telefonata dalla moglie e ci disse agitatis¬simo: «They finally did it! (alla fine lo hanno fatto!, ndr ) »: la Gran Bretagna aveva svaluta¬to del 14% la sterlina senza consultarsi con il resto della zona. Chi aveva saldi attivi presso la Bank of England pre¬se una bella botta. Iniziò lo smottamento.
I paralleli sono molteplici: la na¬scita di mercati e strumenti non regolamentati (l’eurodollaro); i D¬PS non dissimili dagli «eurobond» di cui si parla oggi; i tentativi di tam¬ponare falle (senza cambiare politiche economiche); il pericolo di smotta¬mento per rivalutazione o svalutazione non concordata di alcuni soci. Per questo è urgente definire un percorso che eviti che la situazione si ripeta.
La situazione attuale è simile a quella che portò alla fine dell’area della moneta britannica, nel 1972
mercoledì 24 agosto 2011
Wagner in the Alps in Music and Vision 20 luglio
Wagner in the Alps
GIUSEPPE PENNISI reports from
the 2011 Tiroler Festspiele
Too costly or too difficult (there is a seven year waiting list) to ascend to the 'holy hill' of Bayreuth, the Wagnerian Temple par excellence? There is an alternative: the part of Austria bordering with Bavaria. Well, there is Erl, a little rural village of 1450 year-round residents. Since 1613, Erl's villagers have organized, every seven years, a major Passion Play where all the population is engaged and some additional participants come from nearby hamlets. In the late fifties and early sixties, a modern structure was built to host the Passion Play; the building, named the 'Passionsspielhaus', is beautifully placed in a valley at the foot of the Kaiserberg as well as in meadows where cows and sheep graze. It was designed by Robert Schuller, of the Clemens Holzmeister school. It has 1700 seats in a wooden structure which provided an excellent view and perfect acoustics from any row of seats and ticket prices. Erl is 80km south of Munich and 75km east of Salzburg. An ideal place for music goers.
View of Erl with cows. Photo © Peter Kitzbichler. Click on the image for higher resolution
Some twelve years ago, Salzburg conductor and composer Gustav Kuhn (see M&V, 31 May 2010) conjured up support from local authorities and mostly private business for a Festival of lyric, symphonic and chamber music for a full utilization of the Passionsspielhaus during the six years where there is no Passion Play. Also, local baroque churches are made to work for the Festival. Initially, very few people would have bet on the project. The turning point was 2005 when the Tyrol Festival staged two full cycles of Wagner's Ring in the Passionsspielhaus with a remarkably young and impressive cast, an orchestra of 140 (including six harpists) set on seven huge steps at the back of a simple but effective stage; furthermore the Passionsspielhaus' potential for stereophonic effects was fully exploited with singers and orchestral elements set in various parts of the 1700 seat auditorium. It was an international triumph; some of the singers of that Ring are now regular members of major opera companies. Also, some Erl productions, such as the 2009 Elektra and the 2010 Fidelio, have widely travelled in European Opera Houses.
The Passion Play House at Erl. Photo © Peter Kitzbichler. Click on the image for higher resolution
The enterprise was so successful that, because the Passionsspielhaus cannot be heated, and the Tyrol can be quite cold, a new theatre (with the largest orchestral pit in Western Europe) is being built next to it for winter performances from 26 January 2013. There are rumors that the initial 'season' may include all nine major Wagner operas -- all of them, from Der Fliegender Holländer to Parsifal. Other less grandiose plans call for Verdi's 'popular trilogy' (Rigoletto, Trovatore and Traviata). If interested, start working on the bookings.
A model of new Winter Festival House at Erl. Photo © Delugan Meissl Associated Architects, Vienna. Click on the image for higher resolution
The 2011 Festival includes some forty performances between 7 August and 31 August. Three operas are in the program: a new production of Tannhäuser (Paris version) and a revival of Die Meistersinger von Nürnberg and Parsifal. 'Revival' is not the right term because each time, Kuhn updates the production. He is not only the conductor but the stage director and the designer of sets and costumes. On 15 and 16 July 2011, I attended the performances, respectively, of Die Meistersinger von Nürnberg and Tannhäuser; scheduling problems forced me to postpone listening to and viewing Parsifal to a future visit to the Festival.
Andreas Schager as David (standing, third from left) and Michael Baba as Walther von Stolzing (seated, first from right, in a grey suit) with the Choir Academy of the Tyrolean Festival Erl in 'Die Meistersinger von Nürnberg' at Tiroler Festspiele Erl. Photo © 2011 Tom Benz. Click on the image for higher resolution
Stage directions, sets and costumes entail special problems because, as mentioned, the Passionsspielhaus has top class acoustics but was not conceived to be an opera house. Thus, the orchestra is at the back of the stage and there is no stage machinery to move sets. Also the stage is long but not as deep as in regular theatres.
From left to right: Michael Baba as Walther von Stolzing, Arpiné Rahdjian as Eva and Oskar Hillebrandt as Hans Sachs in 'Die Meistersinger von Nürnberg' at Tiroler Festspiele Erl. Photo © 2011 Tom Benz. Click on the image for higher resolution
This is a major challenge in producing Die Meistersinger von Nürnberg, so historically localized even though dealing with such universal themes (tolerance, justice, social capital in a community, and the power of music) that philosopher Theodor Adorn called it 'the best quintessential expression of Western Civilization'. Kuhn resolved this with: a) a single set where a few props move the action from Saint Katherine Church to Nuremberg's small lanes, from Hans Sachs' workshop to the meadow where the singing context is played; b) singers with the physique du rôle and well trained in acting; and c) changes from Renaissance to contemporary costumes as the protagonists moved from scenes where the historical context prevails to moments when the opera deals with universal a-temporal issues. Also the population of Erl, especially the children, are engaged as extras with the view to give everyone a fuller feeling that the Festival belongs to them all -- thus, innovative yet traditional.
Martin Kronthaler as Sixtus Beckmesser, standing, fourth from left (in the centre, with his hand on his chest) in 'Die Meistersinger von Nürnberg' at Tiroler Festspiele Erl. Photo © 2011 Tom Benz. Click on the image for higher resolution
Die Meistersinger von Nürnberg requires a huge orchestra, seventeen principals and a double chorus. The 130 members of the orchestra followed Kuhn's vigorous conducting very well. (His Meistersinger lasts ten minutes less than Mehta's, for example.) Oskar Hillebrandt is a very expressive Hans Sachs -- a taxing role because of being almost always on stage during a performance running for four and a half hours, excluding intermissions. Franz Hawlata is a powerful Pogner, Martin Kronthaler a Beckmesser with superb phrasing, and Arpiné Rahdjian a sweet but astute Eva. Walter has the strong and clear timbre of Michael Baba. Perfect in their roles were Andreas Schager as David, Hermine Haselböck as Magdalene and all the others, just too many to be individually mentioned. There were ovations at the end of the performance.
The Bacchanal scene from 'Tannhäuser' at Tiroler Festspiele Erl. Photo © 2011 Tom Benz. Click on the image for higher resolution
Kuhn's baton was intense in Tannhäuser and the orchestra, mostly consisting of young musicians, rendered the grand romantic concept of the opera very well. (For my analysis of its contents, see M&V, 10 March 2010.) He could rely on an excellent musical cast, especially Nancy Weissbach, a real soprano assoluto, simply engrossing as Elisabeth, the young Mexican tenor Luis Chapa on his way to become a high-in-demand heldentenor, and Michael Kupfer, a velvet baritone who moved the audience with his song to the evening star. Mona Somm was a good Venus. The rest of the cast were better than average, and the chorus impressive.
Arpiné Rahdjian as Elisabeth in 'Tannhäuser' at Tiroler Festspiele Erl. Photo © 2011 Tom Benz. Click on the image for higher resolution
The stage direction and the costumes remained a mystery to me, however. The first scene of the first Act pictured the sensual orgy in the Venusberg as a Taliban harem party with the girls wearing burqa and 'kepi' hats. More surprising was the second scene with the Landgrave of Thuringia set as the master clown in a circus; also Tannhäuser and the other knights competing in the 'Sängerkrieg auf der Wartburg' (the song context in the Castle of Warburg) were in attire more suitable to Offenbach's Les Comtes d'Hoffmann than to Wagner's 'grosse romantik oper': shining red jackets, large shoulders and black trousers. Whilst the male chorus members were in 1880s black morning suits, the females were in late 1930s black dresses with smashing green hats. Only the pilgrims looked like pilgrims. Kuhn might have been influenced by Graham Vick's stage direction, sets and costumes of Wagner's Ring in the São Carlos Opera House in Lisbon; there all four operas were, amazingly, set in a three ring circus. Or he might have seen too many of Fellini's movies. In any event, it was sufficient to shut the eyes and to listen to the orchestral flows and to the singing.
Michael Kupfer as Wolfram von Eschenbach (left) and Luis Chapa in the title role of Wagner's 'Tannhäuser' at Tiroler Festspiele Erl. Photo © 2011 Tom Benz. Click on the image for higher resolution
I wish that in revisiting the production for a tour or for an Erl revival, he may rethink the staging. I must admit that the audience did not seem to share my reservations, as the performance was warmly applauded at curtain calls.
Copyright © 20 July 2011 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy
RICHARD WAGNER
AUSTRIA
DIE MEISTERSINGER VON NUERNBERG
TANNHAEUSER
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The Quality of Mercy in Music & Vision 14 luglio
The Quality of Mercy
GIUSEPPE PENNISI visits the
2011 Aix-en-Provence Festival and
reports on four of the six operas
'The quality of mercy' can be taken as the common theme of the six operas presented at the 2011 Aix-en-Provence Festival (5-25 July). Mercy mixed with melancholy underlines Thanks to my eyes by the young Italian-Swiss composer Oscar Bianchi, the inaugural opera of the three week run of music (in parallel) in four different theatres. Mercy and forgiveness are the focus of the new production of Verdi's La traviata. Mercy is, of course, the core of Mozart's La Clemenza di Tito. A special kind of sarcastic mercy, against all kinds of stupid bureaucracies, is the essence of Shostakovich's The Nose. Mercy of the Gods provides a happy ending to a tragedy in Handel's Acis and Galatea. Finally, mercy also molds Austerlitz, a children's opera by Jérôme Combier, which is a double voyage over time and space to explain twentieth century sorrow to today's youngsters.
In my week in Aix en Provence, I saw four of the six operas, mostly because scheduling problems prevented me from following the full lyric program (part of a broader scheme including chamber music and symphonies, performed by the orchestra-in-residence, the London Symphony Orchestra, LSO). The operas I did not see were Acis and Galatea (which will be performed in Venice this Autumn), and Austerlitz (scheduled in the very last days of the Festival).
It is always a joy to be under the Provence sun and in the fascinating Aix theatres. More interestingly, for the operagoer, the Festival is an unusual opportunity to see what will be staged in the main European opera houses during the following seasons. Most staging are co-productions with primary theatres and set to enter their regular programs and repertories or to have extensive tours.
As already mentioned, even though the Festival was started, after World War Two, to promote knowledge of Mozart in France (where he and his music were almost unknown) and it is generally inaugurated by a new production of a Mozart opera, this year the management decided to take a daring bet and to start the feast with a contemporary opera by a young (thirty-six-year-old) Italian-Swiss composer, Oscar Bianchi. Thanks to my eyes is based on a successful play by the French theatre writer Joël Pommerat. This review is based on the 8 July 2011 performance. Bianchi studied in Milan, Paris (IRCAM) and New York (Columbia University School of Music); he is well appreciated in the US, France and Germany (where he now lives), but in Italy only the contemporary music brotherhoods are familiar with his name and with his style. The opera (twenty-four scenes in about ninety minutes) is scheduled to travel extensively in Europe over the next twelve months, and to reach Italy sometime in the future.
Hagen Matzeit as Aymar and Fflur Wyn as A Blonde Woman in Oscar Bianchi's 'Thanks to my eyes' at the Aix-en-Provence Festival. Photo © 2011 Elizabeth Carecchio. Click on the image for higher resolution
A few comments on the play the opera is based upon. It is a rather longish symbolistic and impressionistic piece of writing, dealing with the coming of age of a young man held for too long under his father's control and wishes. The play smells of Chekhov, Maeterlinck, Ibsen, and Bernhard. Thus, early twentieth century more than early 21st century culture and approach. Bianchi and Pommerat reduced the text from a nearly three hour stage play in French to a concise one act opera in English. The twenty-four scenes have almost a cinematic pace in a single set where lighting shows changes in locations and times of the day. Sets, lighting and costumes are signed by Eric Soyer and Isabelle Deffin. The orchestra has only twelve players (but sounding like thirty) under the baton of Franck Ollu. There is only very limited use of electro-acoustics (mostly to create echoes). The orchestration is rich and eclectic. The vocal score, although modern in texture (often quite high) and on the use of declamation, follows, to a large extent, standard operatic 'conventions' such as arioso, duets and even a 'madness scene'. The protagonist is a countertenor (Hagen Matzeit) able to descend from the highest sphere of the vocal scale almost to baritone tonalities -- a homage to seventeenth century vocal style. He is surrounded by a bass and two lyric sopranos. Altogether, it is a very interesting piece of contemporary music. It is far away from Darmstadt and the twelve note row system. It is light years distant from the American neo-romantic approach to opera. There is, no doubt, some IRCAM influence, but in my view, Bianchi's style is closer to Ligeti, Kurtag, Xenakis, Tutino and Sani. A stimulating path to follow. No doubt the bet was won.
Brian Bannatyne Scott as The Father and Anna Rogter as The Mother in Oscar Bianchi's 'Thanks to my eyes' at the Aix-en-Provence Festival. Photo © 2011 Elizabeth Carecchio. Click on the image for higher resolution
Why have a new production of La Traviata in Aix? There are two main reasons: firstly to provide a new staging scheduled (after a tour in France) to enter the repertory of an operatic temple such as Vienna Staatsoper (and to be performed there for several years), and secondly, to provide Natalie Dessay with a new opportunity to prove herself in the role of Violetta, already sung, with mixed reviews, in Santa Fe and Turin.
Charles Castronovo as Alfredo and Natalie Dessay as Violetta in Act II scene 1 of 'La traviata' at the Aix-en-Provence Festival. Photo © 2011 Pascal Victor. Click on the image for higher resolution
The production is stunning: on the bare stage set, with the help of only a few props and the drops of elements of painted scenes, we have a 1950s reading of the road to death of a young woman to whom life gave only a short moment of happiness (in Alfredo's arms). Jean-François Sivadier (stage direction), Alexandre de Dardel (sets), Virginie Gervaise (costumes) and Philippe Berthomé (lighting) hint at quotation from French movies of the 1950s (Chabrol, Truffaut) and even at Visconti's La Scala staging for Maria Callas. The LSO is conducted by Louis Langrée who slows the tempos with the view of making Violetta's tragic destiny even more engrossing. At the 9 July performance, Charles Castronovo, her Alfredo, is a top class lyric tenor and a superb actor; his timbre has slightly darkened since the times when he sang mostly light coloratura roles, but it is still a pleasure for the ears. Ludovic Tézier is an effective Germont with a strong rounded voice, although he no longer has the legato he enchanted audiences with as Pelléas. What about Natalie Dessay? She had a ten minute standing ovation; this means that she pleases the public in general, not only her fans. She is, no doubt, a magnificent actress. Now, vocally Violetta suits her more than Cleopatra in the controversial production of Händel's Giulio Cesare in Egitto recently seen and heard in Paris. She is right in not emphasizing 'coloratura' (eg Verdi never wrote the 'sovracuto' traditionally included at the end of Sempre Libera in the first act). Her Violetta is close to a full dramatic 'soprano assoluto' (in the operatic world's idiom), eg like Renata Scotto's Violetta. This is highly acceptable, but as in Renata Scotto's later years, her Violetta is not a 22-23 year-old 'pretty woman' but a mature lady with a long past of disorderly life now introducing the young and inexperienced Alfredo to love and sex. Not everyone, both in the critics' box and in the audience, appreciates this reading of the character.
Charles Castronovo as Alfredo and Natalie Dessay as Violetta in Act II scene 2 of 'La traviata' at the Aix-en-Provence Festival. Photo © 2011 Pascal Victor. Click on the image for higher resolution
The much awaited La Clemenza di Tito (back in Aix after six years) was a partial disappointment. The attention was on two aspects: the stage direction of David McVicar, one of the most praised European directors and recently applauded for his Strasbourg Ring, and the eighty-three year old Sir Colin Davis in the pit with the LSO. Most likely, McVicar conceived the production with his arms tied under his shoulders and his eyes shut. There is no innovation either in the staging, the costumes or the acting. The action is moved to Napoleonic times -- a device already used several times. The black and white costumes and sets are spoiled by a grayish concrete moving stairway. The characters act just as old-fashioned opera singers. The staging will require some serious revisions before the production goes to Toulouse and Marseilles (whose opera houses are the co-producers).
Gregory Kunde as Tito in Act II of 'La clemenza di Tito' at the Aix-en-Provence Festival. Photo © 2011 Pascal Victor. Click on the image for higher resolution
On the other hand, Sir Colin Davis provides a sumptuous reading of the score with chamber music aspects (the clarinets, the harps) seldom singled out. On the vocal front, the group of women (Sarah Connolly, Carmen Giannattasio and Anna Stephany) clearly outclasses Gregory Kunde. At the 10 July performance he had been called to replace John Mark Ainsley (who called sick for all the Aix performances); this is a mitigating factor in judging the tenor on that very night. Kunde no longer has the agility of fifteen years ago; now, he is better in Verdi's roles than in those of Donizetti, Rossini or Mozart. He was highly uneven, especially in the first act, but he redeemed himself in his final aria, Ma Che Giorno.
In Music & Vision on 26 February 2011, I provided an extensive review of Shostakovich's The Nose as presented in Parma in Pokrovskij's production for the Moscow Chamber Music Opera dated 1974 and still going strong in the Russian Federation and abroad. Our readers may wish to refer to that review for my comments on the opera's background and sarcasm against any kind of stupid bureaucracy. There it was stressed how Boris Pokrovskij employed very limited means for the ten different scenes of three acts, lasting 100 minutes. There is no shortage of resources in William Kentridge's staging, already seen at the Metropolitan Opera House in New York (and extensively reviewed a few months ago in the American and European press). The production had to be refocused to fit the smaller stages of the Gran Théâtre de Provence and the Opéra National de Lyon, where it will be seen after the Aix performances; it may also land at La Scala in Milan sometime in the future. Kentridge is full of ideas and makes very skillful use of all modern technological devices -- computerized projections, quick changes of set, clips of 1930s documentary films and the like. Kazushi Ono gives plenty of rhythmic drive to the orchestra of the Opéra National de Lyon and to the well-assorted mix of some twenty-five Russian singers. Vladimir Samsonov and Alexandre Kravets had the key roles. Standing ovations were a must by the 12 July audience who listened to excellent music and had a lot of fun.
A scene from Shostakovich's 'The Nose' at the Aix-en-Provence Festival. Photo © 2011 Pascal Victor. Click on the image for higher resolution
A final word is necessary for the two choirs -- the Estonian Philharmonic Chamber Choir in La Traviata and La Clemenza di Tito, and the Choeur de Opéra National de Lyon for The Nose. They sang and also acted quite well.
Copyright © 14 July 2011 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy
AIX-EN-PROVENCE
GIUSEPPE VERDI
WOLFGANG AMADEUS MOZART
DMITRI SHOSTAKOVICH
COLIN DAVIS
LONDON SYMPHONY ORCHESTRA
FRANCE
DAVID MCVICAR
NATALIE DESSAY
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martedì 23 agosto 2011
Tutti i nodi da sciogliere di un sindacato "da pensionati" Il Sussidiario 24 agosto
MANOVRA/ Tutti i nodi da sciogliere di un sindacato "da pensionati"
Giuseppe Pennisi
mercoledì 24 agosto 2011
Luigi Angeletti, Susanna Camusso e Raffaele Bonanni (Foto Ansa)
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Il Senato ha iniziato a esaminare il disegno di legge per la conversione del Decreto Legge 138 del 13 agosto 2011 che riguarda la manovra di politica economica per riportare l’Italia sul percorso sia della stabilizzazione finanziaria. sia della crescita inclusiva. Giuliano Amato ha detto che occorre fare una svolta molta più profonda di quella dell’estate-autunno 1992. Gli hanno fatto eco nel Meeting in corso in questi giorni a Rimini imprenditori ed economisti.
Occorre chiedersi, in questo quadro, che fine ha fatto il sindacato? La Cgil ha proclamato uno sciopero generale (ulteriore perdita di produttività e di competitività per il sistema italiano), mentre gli altri sono parsi essenzialmente ancorati al coretto a cappella “Non cambiamo le pensioni”, senza riflettere che in tal modo si penalizzano le nuove generazioni e il sindacato è destinato a diventare una o più organizzazioni di pensionati.
Il ruolo del sindacato nella definizione e attuazione della strategia è essenziale perché a essa dobbiamo partecipare tutti. Ci sono in particolare due nodi da sciogliere con il contributo attivo del sindacato. Il primo è stato chiaramente individuato, circa 25 anni fa, dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil), l’unica agenzia internazionale nei cui organi di governo siedono i rappresentanti delle confederazioni sindacali mondiali.
Ci sono due vaste categorie di “patti per la stabilizzazione e lo sviluppo”: quelli “difensivi” - diretti a tutelare l’esistente (a volte con un occhio rivolto al passato) - e quelli “aggressivi” - diretti, invece, a facilitare l’adattamento a un contesto in rapida evoluzione e, se possibile, a far da guida al cambiamento. In Italia, il ciampiano Patto di San Tommaso del 1993 e il prodiano Accordo di Natale del 1998 sono esempi della prima categoria, mentre il Patto di San Valentino del 1984 e il Protocollo sul Welfare del 2007 contengono cenni della seconda. Una strategia “aggressiva” è quella invocata dal Presidente Napolitano perché si guardi al futuro delle giovani generazioni.
Il secondo luogo riguarda la politica industriale: siamo il maggior Paese europeo, dopo la Repubblica Federale Tedesca in termini di produzione industriale e, in aggiunta, non si può certo concepire che agricoltura e servizi assorbano quota crescente di forza lavoro e, al tempo stesso, crescano produttività e competitività.
In Italia co-esistono due modelli, distinti tra loro e per certi aspetti contrapposti. Il primo è quello importato negli anni Ottanta dalle Isole nipponiche in molti paesi europei (anche in Francia e in Germania): in giapponese esiste un termine kaizen, evoluzione graduale e progressiva ma all’insegna della tradizione aziendale e della continuità.
Le medie imprese seguono, invece, un altro modello - ben individuato dall’economista inglese D.H. Pyle nei “distretti” dell’Italia centrale e della costiera adriatica e ionica: mutamento tramite discontinuità in stile anglosassone - ossia cambiamenti secchi caratterizzati da segnali forti a tutti gli interessati (dipendenti in primo luogo). Il sindacato ha un compito cruciale nel contribuire a definire il mix appropriato tra questi due modelli.
Chiaramente un’intesa su come sciogliere il primo nodo è la premessa per risolvere il secondo e porre le basi per delineare i contenuti di un eventuale “patto”. Il passato non può cambiare, ma non può neanche tornare. Un “patto” difensivo è votato al fallimento, come lo sono stati il Patto di San Tommaso del 1993 e l’Accordo di Natale del 1998. Occorre oggi un “patto” molto più aggressivo di quello, limitato peraltro al welfare, di circa cinque anni fa: un “patto” che promuova meritocrazia, mobilità sociale, disponibilità al mutamento di mansioni e di sede di lavoro, con l’obiettivo di portare l’industria italiana in posizione di leadership non di traino.
Tuttavia, pare che molti esponenti del sindacato stiano dedicati tempo ed energie a tentare di smontare, a fini particolaristici (ove non clientelare), una riforma del Cnel (art. 17 del decreto 138) basata sull’esperienza di analoghi organi in altri paesi, sulla documentata presenza (e, di converso, assenteismo) di alcune categorie ai lavori e alla stesura di documenti sull'effettiva alta competenza e qualificazione e sulla crescente importanza del Terzo settore.
Un piccolo gruppo di autoconvocati si presenterebbe come rappresentativo di tutto l’organismo e avrebbe anche espresso la minaccia di bloccarne il funzionamento. Pur una strategia “aggressiva” nella definizione Oil i leader delle confederazioni dovrebbero sconfessare pubblicamente gli “autoconvocati”. Hanno l’opportunità di farlo al Meeting di Rimini dimostrando a tutti che vanno nella direzione giusta per il bene di tutti, soprattutto dei giovani.
Giuseppe Pennisi
mercoledì 24 agosto 2011
Luigi Angeletti, Susanna Camusso e Raffaele Bonanni (Foto Ansa)
Approfondisci
MANOVRA/ Bonanni (Cisl): sì a patrimoniale e più Iva, ma non tocchiamo le pensioni
PENSIONI/ Cazzola: vi spiego le bugie della Lega
vai al dossier Il ruolo del sindacato, tra pensionati ed economia reale
vai allo speciale Manovra finanziaria 2011
Il Senato ha iniziato a esaminare il disegno di legge per la conversione del Decreto Legge 138 del 13 agosto 2011 che riguarda la manovra di politica economica per riportare l’Italia sul percorso sia della stabilizzazione finanziaria. sia della crescita inclusiva. Giuliano Amato ha detto che occorre fare una svolta molta più profonda di quella dell’estate-autunno 1992. Gli hanno fatto eco nel Meeting in corso in questi giorni a Rimini imprenditori ed economisti.
Occorre chiedersi, in questo quadro, che fine ha fatto il sindacato? La Cgil ha proclamato uno sciopero generale (ulteriore perdita di produttività e di competitività per il sistema italiano), mentre gli altri sono parsi essenzialmente ancorati al coretto a cappella “Non cambiamo le pensioni”, senza riflettere che in tal modo si penalizzano le nuove generazioni e il sindacato è destinato a diventare una o più organizzazioni di pensionati.
Il ruolo del sindacato nella definizione e attuazione della strategia è essenziale perché a essa dobbiamo partecipare tutti. Ci sono in particolare due nodi da sciogliere con il contributo attivo del sindacato. Il primo è stato chiaramente individuato, circa 25 anni fa, dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil), l’unica agenzia internazionale nei cui organi di governo siedono i rappresentanti delle confederazioni sindacali mondiali.
Ci sono due vaste categorie di “patti per la stabilizzazione e lo sviluppo”: quelli “difensivi” - diretti a tutelare l’esistente (a volte con un occhio rivolto al passato) - e quelli “aggressivi” - diretti, invece, a facilitare l’adattamento a un contesto in rapida evoluzione e, se possibile, a far da guida al cambiamento. In Italia, il ciampiano Patto di San Tommaso del 1993 e il prodiano Accordo di Natale del 1998 sono esempi della prima categoria, mentre il Patto di San Valentino del 1984 e il Protocollo sul Welfare del 2007 contengono cenni della seconda. Una strategia “aggressiva” è quella invocata dal Presidente Napolitano perché si guardi al futuro delle giovani generazioni.
Il secondo luogo riguarda la politica industriale: siamo il maggior Paese europeo, dopo la Repubblica Federale Tedesca in termini di produzione industriale e, in aggiunta, non si può certo concepire che agricoltura e servizi assorbano quota crescente di forza lavoro e, al tempo stesso, crescano produttività e competitività.
In Italia co-esistono due modelli, distinti tra loro e per certi aspetti contrapposti. Il primo è quello importato negli anni Ottanta dalle Isole nipponiche in molti paesi europei (anche in Francia e in Germania): in giapponese esiste un termine kaizen, evoluzione graduale e progressiva ma all’insegna della tradizione aziendale e della continuità.
Le medie imprese seguono, invece, un altro modello - ben individuato dall’economista inglese D.H. Pyle nei “distretti” dell’Italia centrale e della costiera adriatica e ionica: mutamento tramite discontinuità in stile anglosassone - ossia cambiamenti secchi caratterizzati da segnali forti a tutti gli interessati (dipendenti in primo luogo). Il sindacato ha un compito cruciale nel contribuire a definire il mix appropriato tra questi due modelli.
Chiaramente un’intesa su come sciogliere il primo nodo è la premessa per risolvere il secondo e porre le basi per delineare i contenuti di un eventuale “patto”. Il passato non può cambiare, ma non può neanche tornare. Un “patto” difensivo è votato al fallimento, come lo sono stati il Patto di San Tommaso del 1993 e l’Accordo di Natale del 1998. Occorre oggi un “patto” molto più aggressivo di quello, limitato peraltro al welfare, di circa cinque anni fa: un “patto” che promuova meritocrazia, mobilità sociale, disponibilità al mutamento di mansioni e di sede di lavoro, con l’obiettivo di portare l’industria italiana in posizione di leadership non di traino.
Tuttavia, pare che molti esponenti del sindacato stiano dedicati tempo ed energie a tentare di smontare, a fini particolaristici (ove non clientelare), una riforma del Cnel (art. 17 del decreto 138) basata sull’esperienza di analoghi organi in altri paesi, sulla documentata presenza (e, di converso, assenteismo) di alcune categorie ai lavori e alla stesura di documenti sull'effettiva alta competenza e qualificazione e sulla crescente importanza del Terzo settore.
Un piccolo gruppo di autoconvocati si presenterebbe come rappresentativo di tutto l’organismo e avrebbe anche espresso la minaccia di bloccarne il funzionamento. Pur una strategia “aggressiva” nella definizione Oil i leader delle confederazioni dovrebbero sconfessare pubblicamente gli “autoconvocati”. Hanno l’opportunità di farlo al Meeting di Rimini dimostrando a tutti che vanno nella direzione giusta per il bene di tutti, soprattutto dei giovani.
SALVATE IL SOLDATO "RIFORMA DEL CNEL Il Velino 24 agosto
SALVATE IL SOLDATO "RIFORMA DEL CNEL"
Roma - di Giuseppe PennisiEdizione completa
Stampa l'articolo Roma - Da anni si parla di riforma del Cnel che pareva ridotto al ruolo di una mummia in quel di Villa Lubin in uno degli angoli più belli di Villa Borghese. Si è anche pensato di abolire l’organo con apposita legge costituzionale – idea a cui si è sempre opposto parte del sindacato che trovava nell’organo un’elegante forma di pensionamento o di integrazione della pensione per molti suoi quadri. Studi (in vista di una riforma) sono stati fatti a bizzeffe, anche dal centro di ricerche Astrid, presieduto da Franco Bassanini. Nel mettere a punto la definizione della strategia di stabilizzazione finanziaria e di crescita economica inclusiva, ci si è accorti che del Cnel c’è bisogno, ma di un organo meno elefantiaco dell’attuale e meglio attrezzato a guardare quelli che (ce lo ha ricordato più volte il Capo dello Stato in queste ultime settimane) sono i problemi non di ieri o dell’altro ieri ma di oggi e domani: i giovani, le nuove tipologie di lavoro, le strategie industriali che contribuiscano effettivamente alla crescita di produttività e di competitività. Un apposito articolo del Decreto Legge 18 (di cui è appena iniziato l’iter verso la conversione) - l'art. 17 - prevede una riforma basata sulle esperienze e la composizione della settantina di organi analoghi in altri Paesi, sull’esigenza di predisporre documenti di alto contenuto ed alto profilo, ed anche sull’effettiva e comprovata partecipazione ai lavori di alcuni gruppi, usi ad essere presenti quasi solo alle riunioni utili ai fini dei “gettoni”- a quella del 15 luglio alcuni hanno firmato e si sono dileguati mentre i lavori effettivi stavano per iniziare. Quindi, su dati e statistiche solide a cui gli esperti del Governo hanno lavorato con Istat e altri.
Ciò anche in quanto negli ultimi mesi l’attuale Consigliatura del Cnel ha dato contributi importanti in settori che spaziano dai programmi di stabilizzazioni e riforme alla lotta alla criminalità, all’attuazione delle riforme della Pubblica Amministrazione, ai programmi d’infrastruttura, e via discorrendo. Per queste ragioni non per la bellezza di Villa Lubin, l’Associazione dei 70 Cnel sparsi per il mondo ha scelto Roma come sede del proprio Segretariato internazionale - una scelta di prestigio. Il Decreto Legge è stato varato il 13 agosto, e il 18 agosto (ossia mentre gran parte dei consiglieri del Cnel erano in vacanza), "zitti,zitti, piano, piano/senza fare alcun rumore" – in pieno stile Barbiere di Siviglia – un gruppetto si è autoconvocato a Villa Lubin per smontare la riforma, essenzialmente per indebolire i contenuti tecnico-scientifico e per farla tornare ad essere un mummificatorio.
La procedura humma-humma è quanto meno bizzarra. Gli “autoconvocati” hanno redatto un “emendamento” al Decreto Legge (peraltro già in vigore). Se il Cnel, in quanto tale, intende presentare proposte migliorative, lo faccia a viso aperto e seguendo le procedure previste per legge tramite la convocazione di un'Assemblea, se possibile ordinaria, al fine di assicurare la massima partecipazione. Le procedure non sono mere decorazioni barocche. Studiosi della democrazia così intellettualmente distanti come Bobbio e Sartori dimostrano che esse sono l’essenza del viver civile in uno Stato di diritto. Un chiaro percorso procedurale eviterebbe di indurre a pensare che numerosi punti dell’”emendamento” hanno obiettivi particolaristici e esprimono ripicche individuali. Allontanerebbero per sempre le voci secondo cui si starebbe cercando di incidere su Governo e Parlamento ritardando le indicazioni di chi debba fare parte del Cnel e mettendo, quindi, nell’impossibilità di funzionare un organo costituzionale. Non credo alle voci, anche perché ho presente la fine che fece Giovanna D’Arco. Tuttavia, proprio per allontanare qualsiasi dubbio sulla loro consistenza, i leader delle categorie interessate dovrebbero smentirle ufficialmente e pubblicamente. Altrimenti resterebbe l’alone che essi rappresentano la reazione (come efficacemente scritto da Giuseppe De Rita sul “Corriere della Sera” del 20 agosto) e l’impressione che per fini particolaristici siano pronti a calpestare il Cnel, l’assetto istituzionale della Repubblica e la stessa Costituzione. Negli Usa dove ho vissuto tre lustri ed in Francia (mia moglie è francese) gli “autoconvocati” verrebbero o ridicolizzati o accusati di “alto tradimento” nei confronti della Costituzione.
Nel merito, l’eventuale approvazione dell’”emendamento”, vorrebbe dire, nel breve periodo, una paralisi di almeno nove mesi proprio nella fase di maggiore esigenza dei pareri del Cnel sui temi sollevati dal Capo dello Stato in persona. L’”emendamento”, soprattutto, pare indicare che ci sono due visioni contrapposte del Cnel: una rivolta all’avvenire; l'altra rivolta al passato e ad un mondo fordista-taylorista in cui ci si preoccupa non delle politiche e strategie per le nuove generazione ma di integrare le pensioni di alcuni che hanno senza dubbio ben servito il Paese ma vedono come loro obiettivo l’impossibile difesa dell’esistente. Se ci sono tali visioni contrapposte è, a maggior ragione, essenziale una discussione chiara, aperta e trasparente. L’argomentazione secondo cui ci sarebbe “fretta” non tiene; non sarebbe la prima volta che un decreto convertito in legge viene modificato da nuova misura normativa se alla prova dell’esperienza risulta migliorabile. Nel frattempo, Governo e Parlamento devono intervenire a salvare il soldato Cnel e la sua riforma. "Zitti, zitti, piano, piano/senza fare alcun rumore", mettete l’”emendamento” nel primo cestino di carta straccia. E’ stato un colpo di sole estivo; avviene quando ci si autoconvoca.(G. Pennisi) 23 Agosto 2011 18:55
Roma - di Giuseppe PennisiEdizione completa
Stampa l'articolo Roma - Da anni si parla di riforma del Cnel che pareva ridotto al ruolo di una mummia in quel di Villa Lubin in uno degli angoli più belli di Villa Borghese. Si è anche pensato di abolire l’organo con apposita legge costituzionale – idea a cui si è sempre opposto parte del sindacato che trovava nell’organo un’elegante forma di pensionamento o di integrazione della pensione per molti suoi quadri. Studi (in vista di una riforma) sono stati fatti a bizzeffe, anche dal centro di ricerche Astrid, presieduto da Franco Bassanini. Nel mettere a punto la definizione della strategia di stabilizzazione finanziaria e di crescita economica inclusiva, ci si è accorti che del Cnel c’è bisogno, ma di un organo meno elefantiaco dell’attuale e meglio attrezzato a guardare quelli che (ce lo ha ricordato più volte il Capo dello Stato in queste ultime settimane) sono i problemi non di ieri o dell’altro ieri ma di oggi e domani: i giovani, le nuove tipologie di lavoro, le strategie industriali che contribuiscano effettivamente alla crescita di produttività e di competitività. Un apposito articolo del Decreto Legge 18 (di cui è appena iniziato l’iter verso la conversione) - l'art. 17 - prevede una riforma basata sulle esperienze e la composizione della settantina di organi analoghi in altri Paesi, sull’esigenza di predisporre documenti di alto contenuto ed alto profilo, ed anche sull’effettiva e comprovata partecipazione ai lavori di alcuni gruppi, usi ad essere presenti quasi solo alle riunioni utili ai fini dei “gettoni”- a quella del 15 luglio alcuni hanno firmato e si sono dileguati mentre i lavori effettivi stavano per iniziare. Quindi, su dati e statistiche solide a cui gli esperti del Governo hanno lavorato con Istat e altri.
Ciò anche in quanto negli ultimi mesi l’attuale Consigliatura del Cnel ha dato contributi importanti in settori che spaziano dai programmi di stabilizzazioni e riforme alla lotta alla criminalità, all’attuazione delle riforme della Pubblica Amministrazione, ai programmi d’infrastruttura, e via discorrendo. Per queste ragioni non per la bellezza di Villa Lubin, l’Associazione dei 70 Cnel sparsi per il mondo ha scelto Roma come sede del proprio Segretariato internazionale - una scelta di prestigio. Il Decreto Legge è stato varato il 13 agosto, e il 18 agosto (ossia mentre gran parte dei consiglieri del Cnel erano in vacanza), "zitti,zitti, piano, piano/senza fare alcun rumore" – in pieno stile Barbiere di Siviglia – un gruppetto si è autoconvocato a Villa Lubin per smontare la riforma, essenzialmente per indebolire i contenuti tecnico-scientifico e per farla tornare ad essere un mummificatorio.
La procedura humma-humma è quanto meno bizzarra. Gli “autoconvocati” hanno redatto un “emendamento” al Decreto Legge (peraltro già in vigore). Se il Cnel, in quanto tale, intende presentare proposte migliorative, lo faccia a viso aperto e seguendo le procedure previste per legge tramite la convocazione di un'Assemblea, se possibile ordinaria, al fine di assicurare la massima partecipazione. Le procedure non sono mere decorazioni barocche. Studiosi della democrazia così intellettualmente distanti come Bobbio e Sartori dimostrano che esse sono l’essenza del viver civile in uno Stato di diritto. Un chiaro percorso procedurale eviterebbe di indurre a pensare che numerosi punti dell’”emendamento” hanno obiettivi particolaristici e esprimono ripicche individuali. Allontanerebbero per sempre le voci secondo cui si starebbe cercando di incidere su Governo e Parlamento ritardando le indicazioni di chi debba fare parte del Cnel e mettendo, quindi, nell’impossibilità di funzionare un organo costituzionale. Non credo alle voci, anche perché ho presente la fine che fece Giovanna D’Arco. Tuttavia, proprio per allontanare qualsiasi dubbio sulla loro consistenza, i leader delle categorie interessate dovrebbero smentirle ufficialmente e pubblicamente. Altrimenti resterebbe l’alone che essi rappresentano la reazione (come efficacemente scritto da Giuseppe De Rita sul “Corriere della Sera” del 20 agosto) e l’impressione che per fini particolaristici siano pronti a calpestare il Cnel, l’assetto istituzionale della Repubblica e la stessa Costituzione. Negli Usa dove ho vissuto tre lustri ed in Francia (mia moglie è francese) gli “autoconvocati” verrebbero o ridicolizzati o accusati di “alto tradimento” nei confronti della Costituzione.
Nel merito, l’eventuale approvazione dell’”emendamento”, vorrebbe dire, nel breve periodo, una paralisi di almeno nove mesi proprio nella fase di maggiore esigenza dei pareri del Cnel sui temi sollevati dal Capo dello Stato in persona. L’”emendamento”, soprattutto, pare indicare che ci sono due visioni contrapposte del Cnel: una rivolta all’avvenire; l'altra rivolta al passato e ad un mondo fordista-taylorista in cui ci si preoccupa non delle politiche e strategie per le nuove generazione ma di integrare le pensioni di alcuni che hanno senza dubbio ben servito il Paese ma vedono come loro obiettivo l’impossibile difesa dell’esistente. Se ci sono tali visioni contrapposte è, a maggior ragione, essenziale una discussione chiara, aperta e trasparente. L’argomentazione secondo cui ci sarebbe “fretta” non tiene; non sarebbe la prima volta che un decreto convertito in legge viene modificato da nuova misura normativa se alla prova dell’esperienza risulta migliorabile. Nel frattempo, Governo e Parlamento devono intervenire a salvare il soldato Cnel e la sua riforma. "Zitti, zitti, piano, piano/senza fare alcun rumore", mettete l’”emendamento” nel primo cestino di carta straccia. E’ stato un colpo di sole estivo; avviene quando ci si autoconvoca.(G. Pennisi) 23 Agosto 2011 18:55
PER CONVINCERE BERLINO SUGLI EUROBONDS VIRIAMOLI ALLA CRESCITA Il Foglio 24 agosto
PER CONVINCERE BERLINO SUGLI EUROBONDS VIRIAMOLI ALLA CRESCITA
Giuseppe Pennisi
Da 40 anni il termine “Eurobond” appare periodicamente, e in varie guise, nella galassia delle sigle europee. L’ultima versione, che ha sollevato una levata di scudi da parte di politici ed economisti tedeschi (ieri Kai Carstensen e Michael Huther lo hanno spiegato al Foglio), si riferisce a strumenti finanziari diretti a “socializzare”, all’interno dell’unione monetaria, nuove emissioni di debito pubblico. Anche la proposta di “EuroUnionBond” avanzata ieri da Romano Prodi e Alberto Quadro Curzio sul Sole 24 Ore, come pure quella presentata nel 2010 dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti e dal presidente dell’Eurogruppo Jean-Claude Juncker, ha come obiettivo primario la socializzazione del debito in un quadro di solidarietà e maggiore integrazione europea. La percezione di chi si oppone al progetto è che gli Eurobond comporterebbero così un aumento del costo del denaro pure ai paesi virtuosi e opererebbero come “sanatoria” per quelli più propensi al vizio. Non è detto che tale timore sia giustificato, ma in economia e finanza le percezioni sono più importanti della realtà; ergo, è stato eretto un vero e proprio muro contro la proposta.
Senza Eurobond sarà però difficile attivare quel processo di crescita di cui tutta l’Eurozona ha esigenza non solo per ridurre lo stock del debito in rapporto al pil ma anche per contenere un tasso di disoccupazione che nell’area si aggira sul 10 per cento della forza lavoro e tende a crescere. Lo hanno documentato in un libro relativamente recente gli economisti italiani Carlo Favero e Alessandro Missale, e in un lavoro ancora più fresco tre economisti della Banca europea per gli onvestimenti (Bei), Rien Wagenvoort, Carlo de Nicola e Andreas Kappeler: in sintesi, da quando nel 2007 è iniziata la crisi finanziaria, tutti i principali paesi hanno decurtato i già magri stanziamenti per gli investimenti in infrastrutture. Solo in Italia, le carenze di infrastruttura logistica, prevalentemente nel centro nord, comportano un costo alla società di 40 miliardi di euro all’anno, di cui si sobbarcano principalmente le imprese. Il mercato dei capitali privati, però, è sufficientemente liquido per essere incanalato verso impieghi a lungo termine e gli Eurobond potrebbero essere un adeguato strumento per farlo.
La differenza essenziale tra gli Eurobond per il debito a cui si oppone oggi la Germania e, in misura minore, la Francia, e gli Eurobond per la crescita tramite infrastrutture, è che mentre i primi sarebbero garantiti dalla qualità delle politiche economiche ¬ e i tedeschi nutrono dubbi su quelle degli stati mediterranei ¬, la garanzia reale dei secondi sarebbe la qualità dei progetti. Viene spesso argomentato, per esempio, che i bond della Bei e della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers) servono a questo secondo scopo. Eppure non solo le analisi citate mostrano che queste emissioni non sono sufficienti a soddisfare la domanda di infrastrutture, e per questo Eurobond garantiti dai governi dell’Eurozona (e soprattutto dalla qualità dell’investimento) potrebbero essere attraenti, inserendo per esempio la Banca centrale europea nella concorrenza tra emittenti e offrendo un maggior ventaglio di scelta agli operatori (pure a piccoli investitori come le famiglie) con effetti positivi sui tassi. Senza escludere, man mano che le politiche pubbliche dell’Eurozona diverranno più affidabili agli occhi di Berlino, che in futuro si possa far ricorso pure ad Eurobond basati solo sulla sulla qualità delle politiche.
Giuseppe Pennisi
Da 40 anni il termine “Eurobond” appare periodicamente, e in varie guise, nella galassia delle sigle europee. L’ultima versione, che ha sollevato una levata di scudi da parte di politici ed economisti tedeschi (ieri Kai Carstensen e Michael Huther lo hanno spiegato al Foglio), si riferisce a strumenti finanziari diretti a “socializzare”, all’interno dell’unione monetaria, nuove emissioni di debito pubblico. Anche la proposta di “EuroUnionBond” avanzata ieri da Romano Prodi e Alberto Quadro Curzio sul Sole 24 Ore, come pure quella presentata nel 2010 dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti e dal presidente dell’Eurogruppo Jean-Claude Juncker, ha come obiettivo primario la socializzazione del debito in un quadro di solidarietà e maggiore integrazione europea. La percezione di chi si oppone al progetto è che gli Eurobond comporterebbero così un aumento del costo del denaro pure ai paesi virtuosi e opererebbero come “sanatoria” per quelli più propensi al vizio. Non è detto che tale timore sia giustificato, ma in economia e finanza le percezioni sono più importanti della realtà; ergo, è stato eretto un vero e proprio muro contro la proposta.
Senza Eurobond sarà però difficile attivare quel processo di crescita di cui tutta l’Eurozona ha esigenza non solo per ridurre lo stock del debito in rapporto al pil ma anche per contenere un tasso di disoccupazione che nell’area si aggira sul 10 per cento della forza lavoro e tende a crescere. Lo hanno documentato in un libro relativamente recente gli economisti italiani Carlo Favero e Alessandro Missale, e in un lavoro ancora più fresco tre economisti della Banca europea per gli onvestimenti (Bei), Rien Wagenvoort, Carlo de Nicola e Andreas Kappeler: in sintesi, da quando nel 2007 è iniziata la crisi finanziaria, tutti i principali paesi hanno decurtato i già magri stanziamenti per gli investimenti in infrastrutture. Solo in Italia, le carenze di infrastruttura logistica, prevalentemente nel centro nord, comportano un costo alla società di 40 miliardi di euro all’anno, di cui si sobbarcano principalmente le imprese. Il mercato dei capitali privati, però, è sufficientemente liquido per essere incanalato verso impieghi a lungo termine e gli Eurobond potrebbero essere un adeguato strumento per farlo.
La differenza essenziale tra gli Eurobond per il debito a cui si oppone oggi la Germania e, in misura minore, la Francia, e gli Eurobond per la crescita tramite infrastrutture, è che mentre i primi sarebbero garantiti dalla qualità delle politiche economiche ¬ e i tedeschi nutrono dubbi su quelle degli stati mediterranei ¬, la garanzia reale dei secondi sarebbe la qualità dei progetti. Viene spesso argomentato, per esempio, che i bond della Bei e della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers) servono a questo secondo scopo. Eppure non solo le analisi citate mostrano che queste emissioni non sono sufficienti a soddisfare la domanda di infrastrutture, e per questo Eurobond garantiti dai governi dell’Eurozona (e soprattutto dalla qualità dell’investimento) potrebbero essere attraenti, inserendo per esempio la Banca centrale europea nella concorrenza tra emittenti e offrendo un maggior ventaglio di scelta agli operatori (pure a piccoli investitori come le famiglie) con effetti positivi sui tassi. Senza escludere, man mano che le politiche pubbliche dell’Eurozona diverranno più affidabili agli occhi di Berlino, che in futuro si possa far ricorso pure ad Eurobond basati solo sulla sulla qualità delle politiche.
lunedì 22 agosto 2011
GLI ITALIANI DIMENTICATI CHE TRIONFANO A SALISBURGO Il Riformista 23 agosto
GLI ITALIANI DIMENTICATI CHE TRIONFANO A SALISBURGO
Beckmesser
Da cinque anni, nell’ambito del Festival di Salisburgo, si svolge una rassegna di musica contemporanea, intitolata “Kontinent”. Nel 2007, primo anno della rassegna, “Kontinent” è stata interamente dedicata a un compositore italiano: Giacinto Scelsi (La Spezia 1905-Roma 1988) che rappresenta un “unicum” nel panorama del Novecento in quanto lontano sia dalla musica seriale alla Darmstadt sia dal calligrafismo all’IRCAM sia dal minimalismo alla Gass sia dall’ “improvvisazionismo” alla Gage. Meno apprezzato di quanto si dovrebbe in Italia è con due quartetti per archi di Scelsi che quest’anno è stata chiusa l’edizione 2011 di “Kontinent”. Essa potrebbe essere l’ultima del Festival, nonostante i con concerti vadano all’insegna del tutto esaurito, perché il nuovo direttore di Salisburgo pare ami poco la musica contemporanea.
Al di là di questi aspetti (che dovranno essere risolti dalle autorità che vigilano sul Festival) è importante notare come dei sette concerti di “Kontinent” 2011 tre siano stati dedicati ad autori italiani: a) il grandioso “Prometeo, tragedia dell’ascolto” di Luigi Nono; b) il nuovo “Macbeth” di Salvatore Sciarrino (quasi giustapposto a quello di Verdi diretto da Muti e con la regia di Stein) e b) i quartetti di Giacinto Scelsi. Erano in ottima compagnia: un concerto dedicato alla musica per piano di Stockhausen (pianista l’italiano Marino Formenti), un altro alle improvvisazioni di Cage, uno a Grisey (l’”Omaggio a Piero della Francesca) ed a Feldman,uno a Varèse e Xemakis. In breve una panoramica di quanto meglio abbia prodotto la musica dopo la seconda guerra mondiale, dando (il Festival si svolge in Austria ed è finanziato da Governo austriaco) grande rilievo all’Italia. Peccato: pare che nessuno dall’Istituto italiano di cultura a Vienna si sia spostato almeno per l’omaggio a Scelsi (uno dei compositori italiani che, per quanto solitario, ha più inciso sulla musica del Novecento in Europa, negli Usa ed anche in Asia. Sono stati presentati due suoi quartetti per archi, rispettivamente del 1964 e del 1985 – ossia di quanto aveva lasciato l’esplorazione delle “avanguardia” e si avviava verso nuove vie: concerti per una nota sola, micro-variazioni, cromatismo portato quasi agli estremi. I due quartetti, eseguiti dallo Stadler Quartett e seguito dalla prima mondiale del “quartetto notturno” di Georg F. Haas (compositore vivente), hanno entusiasmato il pubblico.
Più della cronaca di “Kontinent”, o del concerto Scelsi, è importante sottolineare come, nonostante Roma sia uno dei centri europei di musica contemporanea (grazie alle attività dell’associazione Nuova Consonanza, dell’Istituzione Universitaria dei Concerti, dell’Accademia Filarmonica e del Roma-Europa Festival, a cui si aggiungono quelle dei numerosi istituti stranieri di cultura), sul fenomeno grava una sorta di congiura del silenzio sulla stessa stampa specializzata.
Penalizza principalmente i giovani che stanno seguendo percorsi nuovi come le “micro-opere” teatro in musica low cost ma high quality che le fondazioni liriche italiane spesso respingo mentre hanno successo all’estero. Penso a Il Sogno di Arsenio di Marcello Filotei, presentato al Teatro Valle di Roma alcuni anni fa, e sparito dopo un breve giro nei teatri dell´Italia centrale. Il giovane compositore calabrese, ma ormai lucchese, Girolamo Deracco si è specializzato in questo genere: suoi lavori si sono visti ed ascoltati, oltre che in Italia, in Austria e Germania. L´anno scorso ha presentato l´esilarante Checkinaggio, un quarto d´ora di presa in giro di come si possono aggirare (con intenti terroristici) i controlli aeroportuali. Quest´anno c´è stata la prima assoluta di REDazione, classificata "Delirium drama" sul caos di una redazione di un quotidiano dove imperversano i telefoni fissi e portatili e il direttore non tiene le redini della squadra: un percussionista, sei fiati, un concertatore tutti anche in grado di recitare ritmicamente (come nei melologhi). Andrà al maggior festival lirico scandinavo in estate e a Milano e a Roma in autunno. Ha nel suo bagaglio anche un Abbecedario per orchestra e due attori che è salpato da Bolzano verso festival internazionali ed in cantiere un Amor che nullo (un po´ alla Moccia) che debutterà in luglio nel Tirolo. Attenzione, compositori di rango come Nicola Sani sono entrati nel mercato delle micro-opere come Centerentola.com che ha trionfato la primavera scorsa a Palermo (il cui Massimo è attento a questa produzione) e merita di essere ripresa in altri spazi.
Beckmesser
Da cinque anni, nell’ambito del Festival di Salisburgo, si svolge una rassegna di musica contemporanea, intitolata “Kontinent”. Nel 2007, primo anno della rassegna, “Kontinent” è stata interamente dedicata a un compositore italiano: Giacinto Scelsi (La Spezia 1905-Roma 1988) che rappresenta un “unicum” nel panorama del Novecento in quanto lontano sia dalla musica seriale alla Darmstadt sia dal calligrafismo all’IRCAM sia dal minimalismo alla Gass sia dall’ “improvvisazionismo” alla Gage. Meno apprezzato di quanto si dovrebbe in Italia è con due quartetti per archi di Scelsi che quest’anno è stata chiusa l’edizione 2011 di “Kontinent”. Essa potrebbe essere l’ultima del Festival, nonostante i con concerti vadano all’insegna del tutto esaurito, perché il nuovo direttore di Salisburgo pare ami poco la musica contemporanea.
Al di là di questi aspetti (che dovranno essere risolti dalle autorità che vigilano sul Festival) è importante notare come dei sette concerti di “Kontinent” 2011 tre siano stati dedicati ad autori italiani: a) il grandioso “Prometeo, tragedia dell’ascolto” di Luigi Nono; b) il nuovo “Macbeth” di Salvatore Sciarrino (quasi giustapposto a quello di Verdi diretto da Muti e con la regia di Stein) e b) i quartetti di Giacinto Scelsi. Erano in ottima compagnia: un concerto dedicato alla musica per piano di Stockhausen (pianista l’italiano Marino Formenti), un altro alle improvvisazioni di Cage, uno a Grisey (l’”Omaggio a Piero della Francesca) ed a Feldman,uno a Varèse e Xemakis. In breve una panoramica di quanto meglio abbia prodotto la musica dopo la seconda guerra mondiale, dando (il Festival si svolge in Austria ed è finanziato da Governo austriaco) grande rilievo all’Italia. Peccato: pare che nessuno dall’Istituto italiano di cultura a Vienna si sia spostato almeno per l’omaggio a Scelsi (uno dei compositori italiani che, per quanto solitario, ha più inciso sulla musica del Novecento in Europa, negli Usa ed anche in Asia. Sono stati presentati due suoi quartetti per archi, rispettivamente del 1964 e del 1985 – ossia di quanto aveva lasciato l’esplorazione delle “avanguardia” e si avviava verso nuove vie: concerti per una nota sola, micro-variazioni, cromatismo portato quasi agli estremi. I due quartetti, eseguiti dallo Stadler Quartett e seguito dalla prima mondiale del “quartetto notturno” di Georg F. Haas (compositore vivente), hanno entusiasmato il pubblico.
Più della cronaca di “Kontinent”, o del concerto Scelsi, è importante sottolineare come, nonostante Roma sia uno dei centri europei di musica contemporanea (grazie alle attività dell’associazione Nuova Consonanza, dell’Istituzione Universitaria dei Concerti, dell’Accademia Filarmonica e del Roma-Europa Festival, a cui si aggiungono quelle dei numerosi istituti stranieri di cultura), sul fenomeno grava una sorta di congiura del silenzio sulla stessa stampa specializzata.
Penalizza principalmente i giovani che stanno seguendo percorsi nuovi come le “micro-opere” teatro in musica low cost ma high quality che le fondazioni liriche italiane spesso respingo mentre hanno successo all’estero. Penso a Il Sogno di Arsenio di Marcello Filotei, presentato al Teatro Valle di Roma alcuni anni fa, e sparito dopo un breve giro nei teatri dell´Italia centrale. Il giovane compositore calabrese, ma ormai lucchese, Girolamo Deracco si è specializzato in questo genere: suoi lavori si sono visti ed ascoltati, oltre che in Italia, in Austria e Germania. L´anno scorso ha presentato l´esilarante Checkinaggio, un quarto d´ora di presa in giro di come si possono aggirare (con intenti terroristici) i controlli aeroportuali. Quest´anno c´è stata la prima assoluta di REDazione, classificata "Delirium drama" sul caos di una redazione di un quotidiano dove imperversano i telefoni fissi e portatili e il direttore non tiene le redini della squadra: un percussionista, sei fiati, un concertatore tutti anche in grado di recitare ritmicamente (come nei melologhi). Andrà al maggior festival lirico scandinavo in estate e a Milano e a Roma in autunno. Ha nel suo bagaglio anche un Abbecedario per orchestra e due attori che è salpato da Bolzano verso festival internazionali ed in cantiere un Amor che nullo (un po´ alla Moccia) che debutterà in luglio nel Tirolo. Attenzione, compositori di rango come Nicola Sani sono entrati nel mercato delle micro-opere come Centerentola.com che ha trionfato la primavera scorsa a Palermo (il cui Massimo è attento a questa produzione) e merita di essere ripresa in altri spazi.
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