mercoledì 4 maggio 2011

Roma, a Santa Cecilia 100 anni di musica ungherese Il Velino 4 maggio

CLT - Roma, a Santa Cecilia 100 anni di musica ungherese
Ospite dell'Academia nazionale, Peter Eötvös esegue una sua composizione e l’unica opera di Béla Bartók


Roma, 4 mag (Il Velino) - In una sola serata, Santa Cecilia ha fatto gustare una mini-rassegna di 100 anni di musica ungherese. L’Accademia nazionale invitato Peter Eötvös, compositore noto e affermato di cui si ricordano due belle opere recenti, “Trois Soeurs” e “Le Balcon”, di grande successo in Francia e Germania anche se ancora mai rappresentate in Italia. Eötvös ha diretto una sua interessante composizione per violino e orchestra del 2007, “Seven (Memorial for the Columbia astronauts)”, e l’unica opera di Béla Bartók: “Il Castello del Principe Barbablu”. Tra il lavoro di Eötvös e quello di Bartók passano circa 100 anni. Sono, poi, molto differenti. “Seven” è un requiem per i sette astronauti morti quando lo Space Shuttle Columbia si disintegrò nei cieli del Texas, mentre “Il Castello del Principe Barbablu” è un atto unico singolare (per mezzosoprano, basso e orchestra), così privo di azione teatrale che è stato spesso chiamato “sinfonia scenica” o “dramma sinfonico”. Ad avviso di chi scrive - che ne ha visto edizioni teatrali a Budapest, Baltimora, Palermo e Roma - “rende” meglio in una sala da concerto che in teatro vero e proprio. “Seven” è, comunque, un requiem laico, un “memorial” profano senza ricorso ad elementi di cerimonia funebre religiosa. I due lavori, tuttavia, mirabilmente diretti da Eötvös fanno toccare con mano la specificità della musica ungherese, così distante sia dalle esperienze slave sia da quelle sia allora che oggi prevalenti nel mondo tedesco.

Tanto in “Il Castello del Principe Barbablu” quanto in “Seven” il nesso pare essere principalmente con le tendenze prevalenti in Francia. “Il Castello” è il rapporto con il “Pelléas et Mélisande” di Debussy, non solo per la comune matrice da lavori simbolisti, ma anche e soprattutto per il fatto di coniugare il “recitar cantando” (quasi dei primordi dell’opera rinascimentale italiana) con la “melodia infinita” o il sinfonismo wagneriano, con un organico vasto e ricchissimo anche di strumenti che raramente trovano posto nei “golfi mistici” dei teatri d’opera (quello di Budapest in stile rinascimentale è molto bello ma ha una buca relativamente piccola). Richiede due grandi voci (nell’esecuzione romana affidata a Ildiko Komlosi, oltre tutto sempre più bella man mano che passano gli anni, e Peter Fried) il cui canto in gran misura declamato non venga soprastato da una vasta orchestra da cui esce una musica densa e carica di tensione basata su una stretta combinazione di fattori timbrici e tematiche, evitando però i leitmotiv wagneriani.

In “Seven” siamo invece in un mondo che ha echi dell’Ircam (il centro di musica contemporanea francese creato e animato da Pierre Boulez) a ragione dell’effetto stereofonico dei sei violini d’orchestra collocati attorno al pubblico come dei satelliti sonori, che dialogano sia con l’orchestra che con il violino solista (Patricia Kopatchinskaja, una vera virtuosa). La prima parte è in quattro cadenze. La seconda in una serie di variazioni caleidoscopiche sino al finale in cui il violino solista si confronta da solo con l’orchestra. Grande raffinatezza nell’esecuzione e applausi davvero sinceri.

(Hans Sachs) 4 mag 2011 13:12



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