AL FONDO CANDIDATURE “EMERGENTI”
Giuseppe Pennisi
Alla diciannovesima strada di Washington dove ha sede, il Fondo monetario internazionale (Fmi) , nel caos successivo all’arresto del Managing Director (la carica più importante dell’istituzione) Domique Strauss-Kahn (DSK nell’acronimo coniato in Francia quando era potentissimo Ministro dell’Economia e delle Finanze, c’è un’unica certezza: l’Europa perderà una carica che tiene dal 1944 in base ad un accordo informale (ma cogentissimo ed osservatissimo) stretto alla conferenza di Bretton Woods. Allora la delegazione americana e quella europea conclusero un patto (formalizzato in una lettera tra i capi delegazioni): il Presidente della Banca Mondiale sarebbe stato un cittadino degli Usa e il Managing Director del Fmi uno dell’Europa occidentale. All’epoca c’erano ragioni valide. Il nodo centrale del primo nucleo del Gruppo Banca Mondiale (che oggi comprende 5 differenti istituzioni ma allora era composto unicamente dalla Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo) sarebbe stato quello di reperire sul mercato capitali per la ricostruzione del Vecchio Continente e del Giappone. L’unica piazza esistente per fornirli era, allora, Wall Street, che avrebbe avuto fiducia soprattutto in un americano. Di contro, il tema principale all’ordine del giorno in Europa era il ritorno alla convertibilità; soltanto un europeo autorevole avrebbe potuto fare da apripista.
Da allora molta acqua è passata sotto le acque del Potomac , il fiume che traversa Washington. Gli Stati membri del Fmi , e della Banca mondiale, non sono più una quarantina come nel 1944 ma circa 190. I rapporti di forza tra aree geografiche sono cambiati. In particolare, il gruppo BRICs (Brasile, Russia, India, Cina) chiede da anni con insistenza di avere uno dei seggi più alti , o al Fmi o alla Banca mondiale (in pratica, quello che si libera prima). In effetti da anni è in atto un graduale riassetto delle “quote” (ossia partecipazione nel capitale) e voti. L’Europa detiene, tuttora, il 30% dei voti negli organi decisionali Fmi e cinque nei 24 seggi del Consiglio d’Amministrazione (CdA) che ha compiti esecutivi e si riunisce mediamente tre volte la settimana. L’Europa avrebbe probabilmente avuto la probabilità di continuare ad essere, per così dire, “l’azionista di riferimento” del Fmi (con il 30% dei voti lo si può ampiamente essere) se le ambizioni nazionali (specialmente di Francia, Germania e Gran Bretagna) fossero state disposte a fare un passo indietro e si fosse creato un seggio (a rotazione) per l’Unione Europea o per l’eurozona. Oppure se si fossero attuate procedure minimali di coordinamento tra gli europei del CdA del Fondo. Spesso assumono posizioni divergenti: ad esempio, per anni alcuni hanno sostenuto l’esigenza di interventi per ridurre drasticamente il peso del debito estero sugli Stati più poveri mentre altri hanno argomentato che in tal modo si sarebbe incoraggiato chi ha razzolato male a razzolare ancora peggio. In aggiunta, avviene spesso che il rappresentante di uno Stato europeo, o di un gruppo di Stati europei, al CdA del Fmi prenda una posizione differente (su problemi simili) da quelli del suo connazionale alla Banca mondiale (la cui sede è dall’altra parte della strada).
Quali che siano gli esiti giudiziari della vicenda che coinvolge DSK, appare certo che il suo vice, l’americano, John Lipski terrà la reggenza per un periodo limitato. Gli europei stanno tentando di coordinarsi per mantenere la poltrona. Pochi scommettono che ce la faranno anche a ragione delle indicazioni di differenze di fondo che stanno mostrando nel Vecchio Continenti su temi come debito sovrano, immigrazione, libertà di circolazione e via discorrendo.
Un anno fa, Avvenire aveva riferito la voce insistente di un patto che il Presidente Usa Obama avrebbe concluso con i BRICs: operarsi perché la guida del Fondo o della Banca vada all’ex Presidente del Brasile, Luiz Inácio Lula da Silva. L’ora pare sia scoccata.
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