Se i festival musicali portano in Tirolo
01/06/2011 | Beckmesser
I wagneriani italiani specialmente quelli che non riescono ad andare a Bayreuth (la lista d´attesa per un biglietto è di otto anni) si recano in luglio in pellegrinaggio a Erl, a sud di Amburgo.
I Festival estivi piangono al momento in cui scriviamo su quello pucciniano di Torre del Lago c´è addirittura in dubbio che possa essere realizzato a ragione dei tagli del Fondo unico dello spettacolo (Fus) e delle ristrettezze dei bilanci degli enti locali, per lustri e lustri la loro principale fonte di finanziamento. Beckmesser suggerisce di dare un´occhiata al "Festival del Tirolo" che inizia a fine maggio in Garfagnana (sic!) e termina in settembre a Dobiacco (nel Sud Tirolo per gli austriaci e nell´Alto Adige per noi) e per tutto il mese di luglio (non due settimane come gran parte dei festival nostrani) si svolge in una grande struttura di oltre mille posti (un gioiello architettonico anni ‘50) in quel di Erl, villaggio di poche anime nel lembo del Tirolo che penetra in Baviera.
Cominciamo dal piatto forte in Garfagnana. Da una decina d´anni, i wagneriani italiani specialmente quelli che non riescono ad andare a Bayreuth (la lista d´attesa per un biglietto è di otto anni) si recano in luglio in pellegrinaggio a Erl, 80 km a sud di Monaco ed 80 km a ovest di Salisburgo. È là che Gustav Kuhn (uno dei maggiori concertatori wagneriani viventi), con una nutrita schiera di collaboratori, organizza un Festival dove, per alcuni anni, è stata presentata una brillante edizione del Ring e negli ultimi tempi, oltre a una nutrita schiera di concerti (particolarmente apprezzati quelli del giovane pianista italiano Davide Cabassi), vengono messe in scena anche altre opere del repertorio tedesco. Ad esempio, pochi sanno che Elektra e Fidelio, che questo inverno hanno trionfato in teatri italiani, sono produzioni nate a Erl. Tra i wagneriani italiani, però, ancora meno sono coloro che sanno che da oltre vent´anni il fior fiore dei cantanti per il musikdrama del loro compositore più amato viene formato in Italia dall´Accademia Montegral situata nel convento dell´Angelo nelle ridenti colline nei pressi di Lucca. L´Accademia, fondata e diretta da Kuhn, finanziata da alcune aziende austriache e dalla Fondazione della Cassa di risparmio di Lucca, organizza il Festival "Col Legno" (una casa discografica di Salisburgo) ogni maggio.
La quarta edizione della manifestazione, a carattere annuale, si è svolta dal 19 al 22 maggio. Nel corso di questa vera e propria maratona concertistica della durata di quattro giorni, l´etichetta musicale austriaca "Col Legno" coglie l´occasione per offrire una panoramica sulle sue varie attività, ben rappresentate quest´anno dai solisti Alfonso Alberti, Jeanpierre Faber, Jasmine Stancul e Davide Cabassi, dal complesso Opus Ensemble e dal coro guidato da Marco Meded. Un vero festival internazionale. Nel 2010 il giovane compositore Gerolamo Deraco (molto noto all´estero) ha presentato la prima italiana di una divertentissima opera da camera Checkinaggio (15 minuti di presa in giro dei controlli agli aeroporti). Quest´anno, il suo "REDazione" (ironia sui giornali) è stato uno dei momenti forti.
La musica contemporanea, le improvvisazioni, le opere dal repertorio classico e, chiaramente, la direzione musicale del maestro Kuhn sono le colonne portanti di un programma ricco e non privo di interessanti sorprese. Come di consueto la mattina della domenica si ascolta, durante la celebrazione eucaristica, la Petite messe solennelle di Rossini.
Dal 7 al 31 luglio, la manifestazione continua a Erl, con supporto finanziario di enti ed industrie locali, la partecipazione della popolazione (che fornisce parte del coro su base volontaria): tre allestimenti wagneriani (Tannhäser, Parsifal e Maestri cantori), grande sinfonica (Bruckner, Beetheven, Brahms) ma pure cameristica e serate che coniugano il classico con il leggero (Cabassi & Friends). Interpreti giovani, ma spesso già affermati in Austria e Germania.
A settembre, il Festival termina con una serie di concerti a Dobiacco (anche lì sponsor locali).
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martedì 31 maggio 2011
Riformare l´eurozona (senza farsi troppo male) "Formiche" giugno
Riformare l´eurozona (senza farsi troppo male)
01/06/2011 | Giuseppe Pennisi
Per riformare l´eurozona senza farsi troppo male, ossia senza costi troppo elevati, si potrebbe seguire un metodo analogo a quello utilizzato nel 1993-1999: un percorso a tappe ben definite con criteri ed indicatori prestabiliti.
A poco più di dieci anni dalla sua creazione, l´eurozona ha seri problemi: la crisi di liquidità (ove non di solvibilità) di alcuni dei suoi Stati membri, i forti differenziali dei tassi d´interesse, la divergenza tra saggi di crescita reale ed andamento della produttività e della competitività, i saldi attivi dei conti con l´estero di alcuni Paesi membri e quelli passivi di altri. Per uno Stato uscire dall´eurozona può voler dire una forte contrazione (4-5%) del Pil; smantellarla equivarrebbe a fare fallire il progetto d´integrazione europea a cui si lavora da 60 anni.
Per riformarla senza farsi troppo male, ossia senza costi troppo elevati, si potrebbe seguire un metodo analogo a quello utilizzato nel 1993-1999: un percorso a tappe ben definite con criteri ed indicatori prestabiliti. Nonché mutuare lezioni recenti di alcune unioni monetarie in cui le regole sono state cambiate senza pagare dazi troppo alti quali l´uscita dalla "dollarizzazione", ossia dell´uso del dollaro come moneta nazionale, da parte del Perù e dell´Ecuador e un po´ più lontani nel tempo in Asia, quali l´uscita di Singapore e del Brunei nel 1967 dall´unione monetaria con la Malesia. In seno all´Asean (Associazione delle nazioni del sud est asiatico), dove si pensava di creare un´unione monetaria analoga all´eurozona, ora si sta guardando a queste esperienze.
Il metodo del percorso a medio termine seguito per dare vita all´euro è utile perché proprio le vicende di uscita dalla "dollarizzazione" provano che la gradualità (a tappe molto chiare) premia (il caso di Perù e Ecuador) mentre la mossa brusca costa cara (ne sa qualcosa l´Argentina).
Le tappe, però, non devono essere contrassegnate solamente da indicatori monetari e di bilancio ma da puntelli chiari e trasparenti di economia reale. Il nodo di fondo dell´eurozona, infatti, non è solamente la mancanza di strumenti "europei" di politica di bilancio che facciano da correttivo alla politica della moneta, ma l´esistenza di radicate differenze nelle strutture di produzione e, perciò, di produttività dei fattori di produzione e dei tassi effettivi di andamento dei prezzi di prodotti, servizi e fattori di produzione. In breve, la moneta unica non è stata il grimaldello per avvicinare i comportamenti dei soggetti economici (individui, famiglie e imprese). È verso tale convergenza che occorre andare, poiché uno stesso migliore coordinamento delle politiche macroeconomiche avrebbe effetti limitati se i comportamenti micro-economici di individui, famiglie ed imprese continuassero a divergere.
Qualche timido passo si intravede nel recente "patto euro-plus", specialmente con l´introduzione di indicatori di produttività. Sono, però, pochi ed occasionali. Sarebbe, invece, utile arricchire gli indicatori di economia reale e definire tappe per la loro convergenza in un percorso pluriennale, unitamente a misure di accompagnamento per quei soci del Club che non riescano ad avvicinarsi al resto della cordata. Evitando uscite traumatiche, potrebbero confluire in un accordo di cambio analogo allo Sme 2 (l´accordo sui cambi tra le banche centrali di alcuni Stati dell´Ue che non appartengono all´eurozona, da un lato, e la Banca centrale europea, dall´altro). L´alternativa è il groviglio di apprezzamenti e deprezzamenti impliciti quali quelli accumulatisi negli ultimi quindici anni.
Ne risulterebbe un´Europa a due o più velocità? Nei fatti lo è già; in un´area dell´euro che cresce mediamente all´1,7%, c´è chi corre quasi al 3% e chi arranca per tenere l´1%. Meglio cercare di affrontare le radici (in gran misura microeconomiche e strutturali) del differenziale di crescita e farlo in un lasso di tempo ben definito e con tappe prestabilite, che fingere che non esistono o che possono essere appianate con qualche artificio, oppure sperando in un miracolo.
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01/06/2011 | Giuseppe Pennisi
Per riformare l´eurozona senza farsi troppo male, ossia senza costi troppo elevati, si potrebbe seguire un metodo analogo a quello utilizzato nel 1993-1999: un percorso a tappe ben definite con criteri ed indicatori prestabiliti.
A poco più di dieci anni dalla sua creazione, l´eurozona ha seri problemi: la crisi di liquidità (ove non di solvibilità) di alcuni dei suoi Stati membri, i forti differenziali dei tassi d´interesse, la divergenza tra saggi di crescita reale ed andamento della produttività e della competitività, i saldi attivi dei conti con l´estero di alcuni Paesi membri e quelli passivi di altri. Per uno Stato uscire dall´eurozona può voler dire una forte contrazione (4-5%) del Pil; smantellarla equivarrebbe a fare fallire il progetto d´integrazione europea a cui si lavora da 60 anni.
Per riformarla senza farsi troppo male, ossia senza costi troppo elevati, si potrebbe seguire un metodo analogo a quello utilizzato nel 1993-1999: un percorso a tappe ben definite con criteri ed indicatori prestabiliti. Nonché mutuare lezioni recenti di alcune unioni monetarie in cui le regole sono state cambiate senza pagare dazi troppo alti quali l´uscita dalla "dollarizzazione", ossia dell´uso del dollaro come moneta nazionale, da parte del Perù e dell´Ecuador e un po´ più lontani nel tempo in Asia, quali l´uscita di Singapore e del Brunei nel 1967 dall´unione monetaria con la Malesia. In seno all´Asean (Associazione delle nazioni del sud est asiatico), dove si pensava di creare un´unione monetaria analoga all´eurozona, ora si sta guardando a queste esperienze.
Il metodo del percorso a medio termine seguito per dare vita all´euro è utile perché proprio le vicende di uscita dalla "dollarizzazione" provano che la gradualità (a tappe molto chiare) premia (il caso di Perù e Ecuador) mentre la mossa brusca costa cara (ne sa qualcosa l´Argentina).
Le tappe, però, non devono essere contrassegnate solamente da indicatori monetari e di bilancio ma da puntelli chiari e trasparenti di economia reale. Il nodo di fondo dell´eurozona, infatti, non è solamente la mancanza di strumenti "europei" di politica di bilancio che facciano da correttivo alla politica della moneta, ma l´esistenza di radicate differenze nelle strutture di produzione e, perciò, di produttività dei fattori di produzione e dei tassi effettivi di andamento dei prezzi di prodotti, servizi e fattori di produzione. In breve, la moneta unica non è stata il grimaldello per avvicinare i comportamenti dei soggetti economici (individui, famiglie e imprese). È verso tale convergenza che occorre andare, poiché uno stesso migliore coordinamento delle politiche macroeconomiche avrebbe effetti limitati se i comportamenti micro-economici di individui, famiglie ed imprese continuassero a divergere.
Qualche timido passo si intravede nel recente "patto euro-plus", specialmente con l´introduzione di indicatori di produttività. Sono, però, pochi ed occasionali. Sarebbe, invece, utile arricchire gli indicatori di economia reale e definire tappe per la loro convergenza in un percorso pluriennale, unitamente a misure di accompagnamento per quei soci del Club che non riescano ad avvicinarsi al resto della cordata. Evitando uscite traumatiche, potrebbero confluire in un accordo di cambio analogo allo Sme 2 (l´accordo sui cambi tra le banche centrali di alcuni Stati dell´Ue che non appartengono all´eurozona, da un lato, e la Banca centrale europea, dall´altro). L´alternativa è il groviglio di apprezzamenti e deprezzamenti impliciti quali quelli accumulatisi negli ultimi quindici anni.
Ne risulterebbe un´Europa a due o più velocità? Nei fatti lo è già; in un´area dell´euro che cresce mediamente all´1,7%, c´è chi corre quasi al 3% e chi arranca per tenere l´1%. Meglio cercare di affrontare le radici (in gran misura microeconomiche e strutturali) del differenziale di crescita e farlo in un lasso di tempo ben definito e con tappe prestabilite, che fingere che non esistono o che possono essere appianate con qualche artificio, oppure sperando in un miracolo.
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lunedì 30 maggio 2011
Così l'Italia può evitare di far la fine della Grecia in Il Sussidiario 31 maggio
Così l'Italia può evitare di far la fine della Grecia
Giuseppe Pennisi
martedì 31 maggio 2011
Foto Imagoeconomica
Approfondisci
SCENARIO/ La via di Marchionne contro il "decennio perduto" dell'Italia, di U. Bertone
IL CASO/ I "trucchi" che smascherano il bilancio di FS, di A. Bicotti
vai al dossier Crisi o ripresa?
Per mera coincidenza, il pomeriggio in cui venivano annunciare proiezioni, stime e risultati definitivi dei ballottaggi alle elezioni amministrative, veniva distribuito agli abbonati il Bollettino Mensile di maggio della Banca centrale europea (Bce) e la Reuters mandava on line l’Economic Outlook settimanale di Noha Barkin.
Da ambedue i documenti si trae l’immagine di un’Italia che arranca, il cui tasso di crescita è previsto dalla Reuters ben al di sotto delle stesse deludenti stime Ocse e il cui tasso d’inflazione, se misurato in base ai prezzi all’ingrosso (di norma anticipatori dell’andamento dei prezzi al consumo), è ben superiore alla media dell’eurozona. Il tasso di disoccupazione è più contenuto di quello di altri, a ragione, però, in gran misura dell’istituto della cassa integrazione che mantiene il rapporto di lavoro anche se si resta a casa per periodi più o meno lunghi.
È alla luce di questo quadro che un economista deve esaminare il risultato elettorale e trarne le lezioni per il futuro. I politologi presenteranno letture più raffinate su ciò che il voto vuole dire per i rapporti tra le forze politiche e le probabilità di completamento della legislatura. All’economista preme sottolineare che la situazione ha fortemente inciso sull’esito della chiamata alle urne. Ciò, nonostante il Governo in carica abbia fatto (pur dovendo cedere a compromessi con le corporazioni di settore) qualcosa in campi importanti come il federalismo fiscale, l’università e la ricerca, la pubblica amministrazione e si stia apprestando a varare un riassetto fondamentale del sistema tributario, nonché ad affrontare i difficili nodi posti dall’ordinamento giudiziario.
Tanto il Bollettino Mensile della Bce quanto l’Economic Outlook della Reuters sono positivi in merito alla capacità dimostrata dall’Italia di tenere saldo il timone dei conti pubblici. Lo sono molto meno in tema di riforme strutturali. In un articolo su queste pagine ho già sottolineato come il termine “riforme strutturali” sia stato inteso come modifiche al funzionamento della finanza pubblica (in parte ottenuto) e non come riassetto delle “strutture economiche”, dalle strutture di produzione ai comportamenti di individui, famiglie, e pubblica amministrazione - spesso opportunisticamente rivolto al breve periodo di ciascun particulare (secondo il lessico di Guicciardini) e non al bene comune di medio e lungo periodo della collettività. Governo e Parlamento non hanno dato la “frustata” per sciogliere questi nodi di fondo; quindi non ci si deve sorprendere se sono stati frustati dal corpo elettorale.
E ora cosa fare? La ricetta, paradossalmente, non cambia chiunque abbia responsabilità di Governo, ossia anche nell’eventualità che dopo le amministrative, si decida di sciogliere le Camere, andare alle urne e le attuali forze di opposizione si coalizzino e diventino maggioranza. I problemi sul tappeto restano gli stessi e sarebbe errato guardare all’Europa perché ci tolga le castagne dal fuoco. Proprio il 30 maggio l’Università Cattolica di Lovania diramava un lavoro di Paul de Grauwe per ricordare da quali problemi di “governance” sia afflitta l’eurozona.
L’essenziale è nel trovare un equilibrio tra politica di crescita e tenuta dei conti pubblici in una fase in cui il possibile collasso della Grecia potrebbe contagiare un Paese dalla situazione politica fragile, come sottolineano gli analisti di Standard & Poor’s che hanno abbassato il rating sui nostri titoli pubblici.
Ciò vuol dire: a) riqualificare la spesa pubblica sia aumentando quella in conto capitale (ormai pari all’1,6% del Pil, mentre negli anni Ottanta era attorno all’8%) sia riprendendo una valutazione della suoi risultati, effetti e impatti (mentre le strutture preposte a questi compiti sono in letargo o smantellate); b) rilanciare le politiche di denazionalizzazione e di liberazione (come indicato, ad esempio, nel Nono Rapporto di Società Libera presentato il 25 maggio a Milano e oggi a Roma); c) completare le riforme iniziate negli ultimi tre anni; d) prendere misure specifiche per facilitare l’occupazione dei giovani e delle donne e il netto in busta paga delle fasce più deboli.
Soprattutto, occorre farlo presto prima che monti una marea di protesta analoghe a quelle in atto in altri Paesi dell’Ue.
© Riproduzione Riservata
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Giuseppe Pennisi
martedì 31 maggio 2011
Foto Imagoeconomica
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SCENARIO/ La via di Marchionne contro il "decennio perduto" dell'Italia, di U. Bertone
IL CASO/ I "trucchi" che smascherano il bilancio di FS, di A. Bicotti
vai al dossier Crisi o ripresa?
Per mera coincidenza, il pomeriggio in cui venivano annunciare proiezioni, stime e risultati definitivi dei ballottaggi alle elezioni amministrative, veniva distribuito agli abbonati il Bollettino Mensile di maggio della Banca centrale europea (Bce) e la Reuters mandava on line l’Economic Outlook settimanale di Noha Barkin.
Da ambedue i documenti si trae l’immagine di un’Italia che arranca, il cui tasso di crescita è previsto dalla Reuters ben al di sotto delle stesse deludenti stime Ocse e il cui tasso d’inflazione, se misurato in base ai prezzi all’ingrosso (di norma anticipatori dell’andamento dei prezzi al consumo), è ben superiore alla media dell’eurozona. Il tasso di disoccupazione è più contenuto di quello di altri, a ragione, però, in gran misura dell’istituto della cassa integrazione che mantiene il rapporto di lavoro anche se si resta a casa per periodi più o meno lunghi.
È alla luce di questo quadro che un economista deve esaminare il risultato elettorale e trarne le lezioni per il futuro. I politologi presenteranno letture più raffinate su ciò che il voto vuole dire per i rapporti tra le forze politiche e le probabilità di completamento della legislatura. All’economista preme sottolineare che la situazione ha fortemente inciso sull’esito della chiamata alle urne. Ciò, nonostante il Governo in carica abbia fatto (pur dovendo cedere a compromessi con le corporazioni di settore) qualcosa in campi importanti come il federalismo fiscale, l’università e la ricerca, la pubblica amministrazione e si stia apprestando a varare un riassetto fondamentale del sistema tributario, nonché ad affrontare i difficili nodi posti dall’ordinamento giudiziario.
Tanto il Bollettino Mensile della Bce quanto l’Economic Outlook della Reuters sono positivi in merito alla capacità dimostrata dall’Italia di tenere saldo il timone dei conti pubblici. Lo sono molto meno in tema di riforme strutturali. In un articolo su queste pagine ho già sottolineato come il termine “riforme strutturali” sia stato inteso come modifiche al funzionamento della finanza pubblica (in parte ottenuto) e non come riassetto delle “strutture economiche”, dalle strutture di produzione ai comportamenti di individui, famiglie, e pubblica amministrazione - spesso opportunisticamente rivolto al breve periodo di ciascun particulare (secondo il lessico di Guicciardini) e non al bene comune di medio e lungo periodo della collettività. Governo e Parlamento non hanno dato la “frustata” per sciogliere questi nodi di fondo; quindi non ci si deve sorprendere se sono stati frustati dal corpo elettorale.
E ora cosa fare? La ricetta, paradossalmente, non cambia chiunque abbia responsabilità di Governo, ossia anche nell’eventualità che dopo le amministrative, si decida di sciogliere le Camere, andare alle urne e le attuali forze di opposizione si coalizzino e diventino maggioranza. I problemi sul tappeto restano gli stessi e sarebbe errato guardare all’Europa perché ci tolga le castagne dal fuoco. Proprio il 30 maggio l’Università Cattolica di Lovania diramava un lavoro di Paul de Grauwe per ricordare da quali problemi di “governance” sia afflitta l’eurozona.
L’essenziale è nel trovare un equilibrio tra politica di crescita e tenuta dei conti pubblici in una fase in cui il possibile collasso della Grecia potrebbe contagiare un Paese dalla situazione politica fragile, come sottolineano gli analisti di Standard & Poor’s che hanno abbassato il rating sui nostri titoli pubblici.
Ciò vuol dire: a) riqualificare la spesa pubblica sia aumentando quella in conto capitale (ormai pari all’1,6% del Pil, mentre negli anni Ottanta era attorno all’8%) sia riprendendo una valutazione della suoi risultati, effetti e impatti (mentre le strutture preposte a questi compiti sono in letargo o smantellate); b) rilanciare le politiche di denazionalizzazione e di liberazione (come indicato, ad esempio, nel Nono Rapporto di Società Libera presentato il 25 maggio a Milano e oggi a Roma); c) completare le riforme iniziate negli ultimi tre anni; d) prendere misure specifiche per facilitare l’occupazione dei giovani e delle donne e il netto in busta paga delle fasce più deboli.
Soprattutto, occorre farlo presto prima che monti una marea di protesta analoghe a quelle in atto in altri Paesi dell’Ue.
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a Roma arriva il “Nabuccolo” e incanta i bambini
Il Velino presenta, in esclusiva per gli abbonati, le notizie via via che vengono inserite.
CLT - Lirica, a Roma arriva il “Nabuccolo” e incanta i bambini
Roma, 30 mag (Il Velino) - A cura dell’Accademia Filarmonica Romana e nel quadro di un’importante collaborazione con l’Associazione Lirica e Concertistica Italiana (Aslico), che da Como opera in tutto il nord Italia, approda oggi a Roma Nabuccolo, primo spettacolo di una trilogia pensata per fare conoscere ai bambini e ai ragazzi l’opera lirica. I tre progetti musicali di “Opera Education” (la piattaforma italiana che riunisce progetti didattici e di spettacolo legati al mondo dell’opera e della musica sinfonica) sono “Opera domani”, dedicato ai ragazzi della scuola dell’obbligo, “Opera kids” per la scuola dell’infanzia e “Opera It” per le scuole secondarie di secondo grado. L’iniziativa a Roma coinvolge circa duemila fra studenti e insegnanti che si sono avvicinati in modo assolutamente originale e formativo all’opera lirica attraverso la musica di Giuseppe Verdi. Sono stati organizzati percorsi didattici per gli insegnanti, tenuti da registi, compositori, musicologi, cantanti, ciascuno realizzato con un taglio particolare, specificamente elaborato sulla tipologia e l’età degli utenti finali; gli studenti delle scuole di secondo grado hanno partecipato anche a conferenze interattive a scuola, integrate da materiali didattici scaricabili dal web.
Vale la pena ricordare che il primo progetto di Aslico rivolto alle scuole risale al 1997 con la prima edizione di “Opera domani”, che all’epoca coinvolse settemila bambini. Da allora, l’iniziativa è andata crescendo fino a raggiungere, nell’edizione 2011, un importantissimo traguardo grazie alla partecipazione di 100 mila bambini e 3800 insegnanti in tutta Italia. Un successo sempre più consolidato che prosegue e amplifica l’interesse delle nuove generazioni per il mondo del teatro e della lirica, anche per merito di un approccio moderno e divertente. L’iniziativa è per molti aspetti una novità per l’Italia dove alcuni teatri d’opera (il “Massimo” di Palermo e la Scala di Milano) hanno programmi mirati ai giovani, non con l’articolazione per età e sensibilità di quello predisposto da Aslico e portato a Roma dall’Accademia filarmonica.
Il “Nabuccolo”, destinato ai bambini delle scuole materne, è uno spettacolo godibilissimo, senza patine risorgimentali, in cui la vicenda viene scarnita a quella di un amore tra una principessa babilonese e un principe ebreo contrastato da un re la cui malvagità dipende da un maleficio connesso alla corona. Rotto il maleficio con la partecipazione dei bambini che cantano in coro, tutti - si capisce - vivranno per sempre felici e contenti: un piano, un soprano, un’attrice, marionette ed un minimo di attrezzeria. Più elaborata la seconda parte: un’orchestra di venti elementi, un attore, un baritono, due bassi, un soprano, un mezzo ed un tenore ed i ragazzi chiamati a fare il coro. Tecnologica la terza parte. Un “Viva Verdi!” decisamente hig tech anche perché per i ragazzi delle scuole superiori che maneggiano il computer meglio della penna. Dopo 20 mila spettatori in Lombardia e 2000 a Roma, le prossime tappe sono a Trieste, Verona, Pordenone e Vicenza. Per l’anno prossimo in cantiere “Il piccolo flauto magico” per i più piccini e due differenti edizioni de “Il Flauto Magico” una per scuola d’obbligo ed uno per scuole superiori e adulti.
(Hans Sachs) 30 mag 2011 17:44
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CLT - Lirica, a Roma arriva il “Nabuccolo” e incanta i bambini
Roma, 30 mag (Il Velino) - A cura dell’Accademia Filarmonica Romana e nel quadro di un’importante collaborazione con l’Associazione Lirica e Concertistica Italiana (Aslico), che da Como opera in tutto il nord Italia, approda oggi a Roma Nabuccolo, primo spettacolo di una trilogia pensata per fare conoscere ai bambini e ai ragazzi l’opera lirica. I tre progetti musicali di “Opera Education” (la piattaforma italiana che riunisce progetti didattici e di spettacolo legati al mondo dell’opera e della musica sinfonica) sono “Opera domani”, dedicato ai ragazzi della scuola dell’obbligo, “Opera kids” per la scuola dell’infanzia e “Opera It” per le scuole secondarie di secondo grado. L’iniziativa a Roma coinvolge circa duemila fra studenti e insegnanti che si sono avvicinati in modo assolutamente originale e formativo all’opera lirica attraverso la musica di Giuseppe Verdi. Sono stati organizzati percorsi didattici per gli insegnanti, tenuti da registi, compositori, musicologi, cantanti, ciascuno realizzato con un taglio particolare, specificamente elaborato sulla tipologia e l’età degli utenti finali; gli studenti delle scuole di secondo grado hanno partecipato anche a conferenze interattive a scuola, integrate da materiali didattici scaricabili dal web.
Vale la pena ricordare che il primo progetto di Aslico rivolto alle scuole risale al 1997 con la prima edizione di “Opera domani”, che all’epoca coinvolse settemila bambini. Da allora, l’iniziativa è andata crescendo fino a raggiungere, nell’edizione 2011, un importantissimo traguardo grazie alla partecipazione di 100 mila bambini e 3800 insegnanti in tutta Italia. Un successo sempre più consolidato che prosegue e amplifica l’interesse delle nuove generazioni per il mondo del teatro e della lirica, anche per merito di un approccio moderno e divertente. L’iniziativa è per molti aspetti una novità per l’Italia dove alcuni teatri d’opera (il “Massimo” di Palermo e la Scala di Milano) hanno programmi mirati ai giovani, non con l’articolazione per età e sensibilità di quello predisposto da Aslico e portato a Roma dall’Accademia filarmonica.
Il “Nabuccolo”, destinato ai bambini delle scuole materne, è uno spettacolo godibilissimo, senza patine risorgimentali, in cui la vicenda viene scarnita a quella di un amore tra una principessa babilonese e un principe ebreo contrastato da un re la cui malvagità dipende da un maleficio connesso alla corona. Rotto il maleficio con la partecipazione dei bambini che cantano in coro, tutti - si capisce - vivranno per sempre felici e contenti: un piano, un soprano, un’attrice, marionette ed un minimo di attrezzeria. Più elaborata la seconda parte: un’orchestra di venti elementi, un attore, un baritono, due bassi, un soprano, un mezzo ed un tenore ed i ragazzi chiamati a fare il coro. Tecnologica la terza parte. Un “Viva Verdi!” decisamente hig tech anche perché per i ragazzi delle scuole superiori che maneggiano il computer meglio della penna. Dopo 20 mila spettatori in Lombardia e 2000 a Roma, le prossime tappe sono a Trieste, Verona, Pordenone e Vicenza. Per l’anno prossimo in cantiere “Il piccolo flauto magico” per i più piccini e due differenti edizioni de “Il Flauto Magico” una per scuola d’obbligo ed uno per scuole superiori e adulti.
(Hans Sachs) 30 mag 2011 17:44
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LETTURE CHE INVECE CONSIGLIANO CAUTELA NELL'INVOCARE IL FALLIMENTO DEGLI STATI Gazzetta Finanziaria del Foglio 30 maggio
AND THE PAPER IS...
LETTURE CHE INVECE CONSIGLIANO CAUTELA NELL'INVOCARE IL FALLIMENTO DEGLI STATI
Pare sia di moda suggerire alla Grecia di dichiarare fallimento (come ha fatto non molto tempo fa l'?Islanda): non pagare i debitori e ripartire?...correndo. E' probabile che questi suggerimenti si basino su letture di storia dell'economia del lontano passato; quando, di tanto in tanto, i sovrani non pagavano nessun creditore e rimettevano in moto l'economia.
L'esempio della dichiarazione di fallimento dell'Islanda non è affatto incoraggiante però, come dimostra anche un lavoro di Andrea De Michelis, funzionario del Tesoro americano ("?Iceland Challenging Times for Monetary and Fiscal Policies"): da quando, nell'ottobre 2008, la piccola repubblica dichiarò fallimento, il settore bancario è crollato, il tasso di cambio sprofondato, l'inflazione aumentata, i flussi di capitale prosciugati, il debito pubblico cresciuto, il gettito tributario diminuito, le esigenze sociali sono esplose, la disoccupazione giunta a livelli mai visti, il fondo per i sussidi di disoccupazione rimasto al verde. Al punto che il lavoro suggerisce che l?Islanda si metta sulla strada (lunga e in salita) dell'euro, accettando una fase di riduzione del tenore di vita e spingendo per incrementare la produttività. (Giuseppe Pennisi)
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LETTURE CHE INVECE CONSIGLIANO CAUTELA NELL'INVOCARE IL FALLIMENTO DEGLI STATI
Pare sia di moda suggerire alla Grecia di dichiarare fallimento (come ha fatto non molto tempo fa l'?Islanda): non pagare i debitori e ripartire?...correndo. E' probabile che questi suggerimenti si basino su letture di storia dell'economia del lontano passato; quando, di tanto in tanto, i sovrani non pagavano nessun creditore e rimettevano in moto l'economia.
L'esempio della dichiarazione di fallimento dell'Islanda non è affatto incoraggiante però, come dimostra anche un lavoro di Andrea De Michelis, funzionario del Tesoro americano ("?Iceland Challenging Times for Monetary and Fiscal Policies"): da quando, nell'ottobre 2008, la piccola repubblica dichiarò fallimento, il settore bancario è crollato, il tasso di cambio sprofondato, l'inflazione aumentata, i flussi di capitale prosciugati, il debito pubblico cresciuto, il gettito tributario diminuito, le esigenze sociali sono esplose, la disoccupazione giunta a livelli mai visti, il fondo per i sussidi di disoccupazione rimasto al verde. Al punto che il lavoro suggerisce che l?Islanda si metta sulla strada (lunga e in salita) dell'euro, accettando una fase di riduzione del tenore di vita e spingendo per incrementare la produttività. (Giuseppe Pennisi)
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domenica 29 maggio 2011
"La battaglia di Legnano", oltre i pregiudizi e le retoriche celebrazioni Il Sussidiario 30 maggio
VERDI/ "La battaglia di Legnano", oltre i pregiudizi e le retoriche celebrazioni
Giuseppe Pennisi
lunedì 30 maggio 2011
La Battaglia di Legnano
Approfondisci
MONTEGRAL/ La perla dei festival musicali estivi in un convento sulla Garfagnana
BENJAMIN BRITTEN/ Il "War Requiem" e l'inutile strage
Quest'anno di grazia 2011, “La Battaglia di Legnano”, composta da Verdi (su un pessimo libretto di Cammarano) nei mesi in cui si preparava la nascita della breve Repubblica Romana del 1849, ha ben tre allestimenti: uno del Teatro dell’Opera di Roma (in collaborazione con il Liceu di Barcellona), una alla Scala e una a Busseto. La prima è andata in scena il 24 maggio; la recensione si basa sulla rappresentazione di quella sera. A Milano e Busseto l’opera arriverà in autunno
.
Emerge da un lungo letargo. Le ultime edizioni che si ricordano sono quella romana del 1983 e quella del circuito emiliano del 1999. Viene di norma associata a celebrazioni; dopo la prima assoluta al Teatro Argentina il 27 gennaio 1849 (e uno strepitoso successo per un mese), riapparve un paio di volte alla fine dell’Ottocento (subito dopo la breccia di Porta Pia), nel 1916 (Prima Guerra Mondiale) con interpolazioni di Gabriele D’Annunzio, nel 1951 (centenario della Seconda Guerra d’Indipendenza) e nel 1961 (centenario dell’unità d’Italia). Poco rappresentata all’estero - ne ricordo una messa in scena, con regia vagamente ironica, negli Usa degli Anni Settanta - era di repertorio a Budapest dal 1970 al 1990, in chiave di libertà dal giogo sovietico
.
La musicologia italiana la considera un passo indietro nello sviluppo di un Verdi che aveva già prodotto capolavori come “Macbeth” e “Ernani”. Il dramma - peraltro copiato da una “pièce” eroico-napoleonica francese su una battaglia di Tolosa del 1814 - è inesistente: un triangolo amoroso in un quadro storico di maniera. Pur se la Repubblica Romana avrebbe costretto il Papa a scappare a Gaeta non c’è segno di anti-clericalismo. Musicalmente, a una buona compatta overture, fanno seguito quattro brevi atti in cui cabalette amorose si alternano a cori enfatici.
Occorre dare atto al Teatro dell’Opera di Roma di avere trattato egregiamente, anzi nobilitato, questo “pastiche”. In primo luogo, già il tema spruzza patriottismo da ogni nota che la regia (Ruggero Cappuccio; scene e costumi di Carlo Salvi), invece, di forzare la mano, situa la vicenda in un imprecisato Novecento all’interno di un museo in restauro, dove battaglie e amplessi amorosi sono nelle tele e nelle statue su cui i restauratori lavorano; quindi, niente castelli, chiese e campi di battaglia di cartapesta. Il pubblico pare avere gradito questa scelta.
In secondo luogo. Pinchas Steinberg (maestro concertatore) e Roberto Gabbiani (direttore del coro) hanno tenuto serrati gli aspetti musicali, evitando enfasi e dando tempi ben modulati, ma tesi, alla partitura (i quattro atti sono divisi da un unico intervallo). C’è stata qualche sbavatura del coro all’inizio, ma il complesso è stato di altissimo livello nel quarto atto dov'è il vero protagonista
.
In terzo luogo, un cast vocale di grande livello. Ha trionfato il giovane tenore coreano (dalla perfetta dizione italiana) Yonghoon Lee sin dalla cavatina iniziale al commovente addio alla vita finale. A meno di 30 anni è una star negli Usa e in Germania; nel suo debutto italiano conferma la chiarezza di timbro, il delicato legato e la capacità di "riempire" con la sua voce platea e palchi. Tatiana Serjan (già ascoltata a Milano, Bologna e Ravenna) conferma di essere uno dei rari soprani drammatici d’agilità. Versatile, come sempre, il baritono Luca Salsi. E di effetto in due piccoli ruoli Dmitry Beloselskiy e Gianfranco Montresor. Gli applausi non sono stati di mera cortesia. Il Teatro farà un’ottima figura a Barcellona.
© Riproduzione Riservata.
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Giuseppe Pennisi
lunedì 30 maggio 2011
La Battaglia di Legnano
Approfondisci
MONTEGRAL/ La perla dei festival musicali estivi in un convento sulla Garfagnana
BENJAMIN BRITTEN/ Il "War Requiem" e l'inutile strage
Quest'anno di grazia 2011, “La Battaglia di Legnano”, composta da Verdi (su un pessimo libretto di Cammarano) nei mesi in cui si preparava la nascita della breve Repubblica Romana del 1849, ha ben tre allestimenti: uno del Teatro dell’Opera di Roma (in collaborazione con il Liceu di Barcellona), una alla Scala e una a Busseto. La prima è andata in scena il 24 maggio; la recensione si basa sulla rappresentazione di quella sera. A Milano e Busseto l’opera arriverà in autunno
.
Emerge da un lungo letargo. Le ultime edizioni che si ricordano sono quella romana del 1983 e quella del circuito emiliano del 1999. Viene di norma associata a celebrazioni; dopo la prima assoluta al Teatro Argentina il 27 gennaio 1849 (e uno strepitoso successo per un mese), riapparve un paio di volte alla fine dell’Ottocento (subito dopo la breccia di Porta Pia), nel 1916 (Prima Guerra Mondiale) con interpolazioni di Gabriele D’Annunzio, nel 1951 (centenario della Seconda Guerra d’Indipendenza) e nel 1961 (centenario dell’unità d’Italia). Poco rappresentata all’estero - ne ricordo una messa in scena, con regia vagamente ironica, negli Usa degli Anni Settanta - era di repertorio a Budapest dal 1970 al 1990, in chiave di libertà dal giogo sovietico
.
La musicologia italiana la considera un passo indietro nello sviluppo di un Verdi che aveva già prodotto capolavori come “Macbeth” e “Ernani”. Il dramma - peraltro copiato da una “pièce” eroico-napoleonica francese su una battaglia di Tolosa del 1814 - è inesistente: un triangolo amoroso in un quadro storico di maniera. Pur se la Repubblica Romana avrebbe costretto il Papa a scappare a Gaeta non c’è segno di anti-clericalismo. Musicalmente, a una buona compatta overture, fanno seguito quattro brevi atti in cui cabalette amorose si alternano a cori enfatici.
Occorre dare atto al Teatro dell’Opera di Roma di avere trattato egregiamente, anzi nobilitato, questo “pastiche”. In primo luogo, già il tema spruzza patriottismo da ogni nota che la regia (Ruggero Cappuccio; scene e costumi di Carlo Salvi), invece, di forzare la mano, situa la vicenda in un imprecisato Novecento all’interno di un museo in restauro, dove battaglie e amplessi amorosi sono nelle tele e nelle statue su cui i restauratori lavorano; quindi, niente castelli, chiese e campi di battaglia di cartapesta. Il pubblico pare avere gradito questa scelta.
In secondo luogo. Pinchas Steinberg (maestro concertatore) e Roberto Gabbiani (direttore del coro) hanno tenuto serrati gli aspetti musicali, evitando enfasi e dando tempi ben modulati, ma tesi, alla partitura (i quattro atti sono divisi da un unico intervallo). C’è stata qualche sbavatura del coro all’inizio, ma il complesso è stato di altissimo livello nel quarto atto dov'è il vero protagonista
.
In terzo luogo, un cast vocale di grande livello. Ha trionfato il giovane tenore coreano (dalla perfetta dizione italiana) Yonghoon Lee sin dalla cavatina iniziale al commovente addio alla vita finale. A meno di 30 anni è una star negli Usa e in Germania; nel suo debutto italiano conferma la chiarezza di timbro, il delicato legato e la capacità di "riempire" con la sua voce platea e palchi. Tatiana Serjan (già ascoltata a Milano, Bologna e Ravenna) conferma di essere uno dei rari soprani drammatici d’agilità. Versatile, come sempre, il baritono Luca Salsi. E di effetto in due piccoli ruoli Dmitry Beloselskiy e Gianfranco Montresor. Gli applausi non sono stati di mera cortesia. Il Teatro farà un’ottima figura a Barcellona.
© Riproduzione Riservata.
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sabato 28 maggio 2011
Quegli “affari” di Intesa Sanpaolo e CariParma che danneggiano i correntisti i Il Sussidiario 28 maggio
IL CASO/ Giuseppe Pennisi
sabato 28 maggio 2011
Foto: Imagoeconomica
Approfondisci
MANOVRE/ Dietro l’addio di Lufthansa a Malpensa i "giochi" di Easyjet e Alitalia, di A. Giuricin
FINANZA/ L’asse Lega-Quirinale prepara il dopo Draghi (e Berlusconi?), di G. Credit
INTESA SANPAOLO-CARIPARMA: I DISAGI DEI CORRENTISTI - Avendo fatto la mia prima carriera in una banca (la Banca mondiale) e facendo ora parte del Consiglio scientifico di una delle maggiori banche italiane, ho sempre evitato di trattare temi riguardanti banche e banchieri nelle mie attività pubblicistiche. Temevo di essere in conflitto di interesse.
Dopo, però, le ultime vicende che hanno già occupato due settimane intere del mio tempo (distogliendomi dal lavoro) e che, da quello che so, nella sola Roma riguardano almeno 30.000 persone, credo doversi raccontare una vicenda, ancora in corso, che non fa onore a nessuna delle istituzioni coinvolte, provoca un danno ai correntisti (quanto meno in termini di mancanza di servizi e di perdite di tempo) e richiede l’intervento delle autorità di vigilanza. La riporterò in prima persona, poiché da un breve sondaggio apprendo che molti altri stanno avendo disagi analoghi.
In breve, quando nel 1967, a 25 anni, andai a studiare negli Stati Uniti (dove sono rimasto per oltre tre lustri) chiusi un conto corrente che avevo con l’allora Banco di Roma e ne aprii uno con l’agenzia dell’allora Banca Commerciale Italia (la Bci) in Via Cola di Rienzo 150, un’agenzia molto vicina all’abitazione di una zia; collaboravo a Il Sole 24 Ore ed era saggio che il conto venisse operato da un familiare con cui era co-intestato. La Bci è stata inglobata in Banca Intesa, prima, e in San Paolo Intesa poi. Nei vari passaggi, è gradualmente diminuito il personale dell’agenzia (anche grazie al progresso tecnologico e varie forme di home banking), ma non ci sono stati particolari disagi.
In seguito a una complessa vicenda, in cui erano coinvolte in vario modo anche le Assicurazioni Generali e Credit Agricole, su indicazione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (in breve, l’Antitrust) un numero significativo di agenzie e di sportelli di Intesa San Paolo, tra cui l’agenzia a via Cola di Rienzo 150 a Roma, sono stati ceduti da Intesa San Paolo a CariParma-Credit Agricole. I correntisti hanno avuto alcuni spifferi dai dipendenti e solo pochi giorni prima dell’entrata in vigore della cessione una lettera con un numero con cui accedere all’home banking.
Il 18 maggio era il “D-Day”, che ha coinciso con un caos analogo per numerosissimi correntisti analogo a quello che deve avere caratterizzato lo sbarco degli alleati in Normandia. Sono cambiati libretti di assegni, bancomat e simili. Per l'home banking non solo sono mutate le procedure di accesso, ma è in pratica non utilizzabile per “disguidi informatici”; le informazioni sui depositi titoli sono parziali (quindi, inutili).
Naturalmente si sono dovute dedicare ore a fornire i nuovi codici Iban a datori di lavoro ed enti previdenziali. Erano state date assicurazioni che ciò sarebbe stato effettuato centralmente, ma i due maggiori istituti previdenziali (Inps e Inpad) affermano di non saperne nulla; i clienti in materia hanno avuto unicamente informazioni ufficiose e verbali. Guai per chi deve andare all’estero e utilizzare, dall’estero, i servizi telematici; a due settimane (tempo molto lungo nel settore bancario) dal “D-Day” sono in disguido permanente.
CariParma, interpellata, sostiene che la colpa sia di Intesa San Paolo. Dal canto suo, Intesa San Paolo fa intendere che CariParma non ha valutato le implicazioni dell’acquisto di un numero così elevato di agenzie. È chiaro che i due istituti non si amano. È anche chiaro, però, che i correntisti non chiedono ai due amministratori delegati di sollazzarsi in un letto a due piazze, ma che i servizi siano puntuali ed efficienti e che ci sia adeguato risarcimento per il tempo e lo stress causato da questi situazione.
Cosa fare? In primo luogo, le autorità di vigilanza devono prendere la situazione in mano e la stessa Abi deve intervenire a mettere ordine in una vicenda che non dà certo lustro al sistema bancario italiano. In secondo luogo, le associazioni dei consumatori devono prendere le azioni necessarie perché, da un lato, i servizi vengano ripristinati senza indugio e i responsabili di questo stato di cose vengano chiamati a rispondere con i loro patrimoni personali di disagi e danni causati ai correntisti. In terzo luogo, i correntisti medesimi devono “votare con le gambe”: se i servizi restano incompleti e non si è risarciti per i disagi e danni subiti, vadano altrove.
© Riproduzione Riservata
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sabato 28 maggio 2011
Foto: Imagoeconomica
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MANOVRE/ Dietro l’addio di Lufthansa a Malpensa i "giochi" di Easyjet e Alitalia, di A. Giuricin
FINANZA/ L’asse Lega-Quirinale prepara il dopo Draghi (e Berlusconi?), di G. Credit
INTESA SANPAOLO-CARIPARMA: I DISAGI DEI CORRENTISTI - Avendo fatto la mia prima carriera in una banca (la Banca mondiale) e facendo ora parte del Consiglio scientifico di una delle maggiori banche italiane, ho sempre evitato di trattare temi riguardanti banche e banchieri nelle mie attività pubblicistiche. Temevo di essere in conflitto di interesse.
Dopo, però, le ultime vicende che hanno già occupato due settimane intere del mio tempo (distogliendomi dal lavoro) e che, da quello che so, nella sola Roma riguardano almeno 30.000 persone, credo doversi raccontare una vicenda, ancora in corso, che non fa onore a nessuna delle istituzioni coinvolte, provoca un danno ai correntisti (quanto meno in termini di mancanza di servizi e di perdite di tempo) e richiede l’intervento delle autorità di vigilanza. La riporterò in prima persona, poiché da un breve sondaggio apprendo che molti altri stanno avendo disagi analoghi.
In breve, quando nel 1967, a 25 anni, andai a studiare negli Stati Uniti (dove sono rimasto per oltre tre lustri) chiusi un conto corrente che avevo con l’allora Banco di Roma e ne aprii uno con l’agenzia dell’allora Banca Commerciale Italia (la Bci) in Via Cola di Rienzo 150, un’agenzia molto vicina all’abitazione di una zia; collaboravo a Il Sole 24 Ore ed era saggio che il conto venisse operato da un familiare con cui era co-intestato. La Bci è stata inglobata in Banca Intesa, prima, e in San Paolo Intesa poi. Nei vari passaggi, è gradualmente diminuito il personale dell’agenzia (anche grazie al progresso tecnologico e varie forme di home banking), ma non ci sono stati particolari disagi.
In seguito a una complessa vicenda, in cui erano coinvolte in vario modo anche le Assicurazioni Generali e Credit Agricole, su indicazione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (in breve, l’Antitrust) un numero significativo di agenzie e di sportelli di Intesa San Paolo, tra cui l’agenzia a via Cola di Rienzo 150 a Roma, sono stati ceduti da Intesa San Paolo a CariParma-Credit Agricole. I correntisti hanno avuto alcuni spifferi dai dipendenti e solo pochi giorni prima dell’entrata in vigore della cessione una lettera con un numero con cui accedere all’home banking.
Il 18 maggio era il “D-Day”, che ha coinciso con un caos analogo per numerosissimi correntisti analogo a quello che deve avere caratterizzato lo sbarco degli alleati in Normandia. Sono cambiati libretti di assegni, bancomat e simili. Per l'home banking non solo sono mutate le procedure di accesso, ma è in pratica non utilizzabile per “disguidi informatici”; le informazioni sui depositi titoli sono parziali (quindi, inutili).
Naturalmente si sono dovute dedicare ore a fornire i nuovi codici Iban a datori di lavoro ed enti previdenziali. Erano state date assicurazioni che ciò sarebbe stato effettuato centralmente, ma i due maggiori istituti previdenziali (Inps e Inpad) affermano di non saperne nulla; i clienti in materia hanno avuto unicamente informazioni ufficiose e verbali. Guai per chi deve andare all’estero e utilizzare, dall’estero, i servizi telematici; a due settimane (tempo molto lungo nel settore bancario) dal “D-Day” sono in disguido permanente.
CariParma, interpellata, sostiene che la colpa sia di Intesa San Paolo. Dal canto suo, Intesa San Paolo fa intendere che CariParma non ha valutato le implicazioni dell’acquisto di un numero così elevato di agenzie. È chiaro che i due istituti non si amano. È anche chiaro, però, che i correntisti non chiedono ai due amministratori delegati di sollazzarsi in un letto a due piazze, ma che i servizi siano puntuali ed efficienti e che ci sia adeguato risarcimento per il tempo e lo stress causato da questi situazione.
Cosa fare? In primo luogo, le autorità di vigilanza devono prendere la situazione in mano e la stessa Abi deve intervenire a mettere ordine in una vicenda che non dà certo lustro al sistema bancario italiano. In secondo luogo, le associazioni dei consumatori devono prendere le azioni necessarie perché, da un lato, i servizi vengano ripristinati senza indugio e i responsabili di questo stato di cose vengano chiamati a rispondere con i loro patrimoni personali di disagi e danni causati ai correntisti. In terzo luogo, i correntisti medesimi devono “votare con le gambe”: se i servizi restano incompleti e non si è risarciti per i disagi e danni subiti, vadano altrove.
© Riproduzione Riservata
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venerdì 27 maggio 2011
La battaglia di Legnano entra nel Novecento Milano Finanza 27 maggio
InScena
La battaglia di Legnano entra nel Novecento
di Giuseppe Pennisi
La Battaglia di Legnano è l'unica opera risorgimentale di Verdi, composta per il Teatro Argentina di Roma quando si preparava la nascita della breve Repubblica del 1849. Allora fu un grande successo ma sparì dai palcoscenici pochi anni dopo. Venne rilanciata alla Scala nel 1961 in occasione del centenario dell'unità d'Italia e riproposta a Roma del 1983.
Il lavoro ruota su temi che Verdi sentiva poco: il consueto triangolo amoroso è inserito in enfatiche scene corali. In concomitanza con i 150 dalla proclamazione del Regno d'Italia, viene messa in scena a Roma (in collaborazione con Barcellona), a Milano e a Parma. L'edizione romana (in scena fino al 31 maggio) ne fa uno spettacolo di rilievo, nonostante la debolezza di libretto e spartito. In gran misura il merito va alla serrata direzione musicale di Pinchas Steinberg e alla misurata gestione del coro da parte di Roberto Gabbiani. Tra le voci spicca lo straordinario giovanissimo tenore lirico coreano Yonghoon Lee, mentre Tatiana Serjan conferma le sue doti di soprano drammatico. Di livello Luca Salsi e Dmitry Beloselsky. Risulta interessante la controversa regia di Ruggero Cappuccio (le scene e i costumi sono di Carlo Savi). Al posto delle consuete iconografie risorgimentali o medioevali, l'azione è situata in un museo in restauro in un imprecisato Novecento. Un tocco di irrealtà che fa quasi dimenticare l'astruso libretto, ma che non piace a chi si aspetta stendardi e castelli di carta. (riproduzione riservata)
La battaglia di Legnano entra nel Novecento
di Giuseppe Pennisi
La Battaglia di Legnano è l'unica opera risorgimentale di Verdi, composta per il Teatro Argentina di Roma quando si preparava la nascita della breve Repubblica del 1849. Allora fu un grande successo ma sparì dai palcoscenici pochi anni dopo. Venne rilanciata alla Scala nel 1961 in occasione del centenario dell'unità d'Italia e riproposta a Roma del 1983.
Il lavoro ruota su temi che Verdi sentiva poco: il consueto triangolo amoroso è inserito in enfatiche scene corali. In concomitanza con i 150 dalla proclamazione del Regno d'Italia, viene messa in scena a Roma (in collaborazione con Barcellona), a Milano e a Parma. L'edizione romana (in scena fino al 31 maggio) ne fa uno spettacolo di rilievo, nonostante la debolezza di libretto e spartito. In gran misura il merito va alla serrata direzione musicale di Pinchas Steinberg e alla misurata gestione del coro da parte di Roberto Gabbiani. Tra le voci spicca lo straordinario giovanissimo tenore lirico coreano Yonghoon Lee, mentre Tatiana Serjan conferma le sue doti di soprano drammatico. Di livello Luca Salsi e Dmitry Beloselsky. Risulta interessante la controversa regia di Ruggero Cappuccio (le scene e i costumi sono di Carlo Savi). Al posto delle consuete iconografie risorgimentali o medioevali, l'azione è situata in un museo in restauro in un imprecisato Novecento. Un tocco di irrealtà che fa quasi dimenticare l'astruso libretto, ma che non piace a chi si aspetta stendardi e castelli di carta. (riproduzione riservata)
*I debiti dell’euro" in Il Velino 26 maggio
ECO - *I debiti dell’euro
Roma, 26 mag (Il Velino) - Grande attenzione, e grande preoccupazione, per il debito sovrano di alcuni Paesi dell’eurozona. In particolare si teme il rischio di insolvenza della Grecia o che la Repubblica Ellenica non sia in grado di reggere il piano di riassetto richiesto dal resto dell’area euro, dalla Banca centrale europea e dal Fondo monetario internazionale. E, soprattutto, si ha paura del contagio per altri Stati dell’area e che l’eurozona esploda o imploda. Pochi sembrano preoccuparsi di un fenomeno speculare: quello dell’indebitamento delle aziende e delle famiglie. Sul debito delle famiglie (aumentato rapidamente dal 2007) riferiscono periodicamente gli istituti nazionali di statistica: la stampa piagnucola per un paio di giorni ma l’attenzione dei governi è tutta sul profondo rosso delle loro finanze. Il servizio studi della Banca centrale finlandese - meno valutato di quanto meriterebbe - ha condotto un’analisi (ancora inedita) dell’indebitamento aziendale nell’area dell’euro dal 1991 al 2006 (prima di una crisi le cui dimensioni hanno cambiato le carte in tavola) raffrontandolo con l’andamento in cinque Stati che dell’eurozona non fanno parte. Prima considerazione: le imprese di Stati le cui valute erano claudicanti prima dell’ingresso nell’unione monetaria hanno aumentato, alla grande, sia l’emissione di capitale di rischio sia quella di obbligazioni ad un tasso molto più rapido dei cinque che non appartengono all’area dell’euro. Lo hanno fatto specialmente le grandi imprese di Stati a valuta considerata debole e in settori che più dipendono dal finanziamento all’estero (indebitandosi, a tassi d’interesse considerati bassi, nei confronti di altri Stati dell’area, o meglio delle loro banche)
.
Da un lato, questi risultati dimostrano che appartenere all’eurozona ha voluto dire maggiori opportunità d’investimento. Da un altro, indica però che l’effeto Minsky (il “Minsky moment” in gergo) non riguarda solo Pantalone; come l’economista americano aveva preconizzato: da “grande moderazione” si passa a “grande crisi”. Per tutti. Difficile trovare una ricetta per uscire dal pasticcio. La terapia consueta sarebbe quella di accelerare la crescita e andare a briglia sciolta con l’inflazione al fine di ripulirsi dal fardello del debito. Ma non è fattibile a ragione del peso sociale che l’inflazione avrebbe sui più deboli. Una serie di misure per lo sviluppo vengono presentate il 31 maggio al centro studi americani di Roma nel rapporto “Liberalizzazioni e Speranze”, il nono di una serie, proposto dall’Associazione Società Libera. Possono essere utili per alleggerire la gamba privata del debito dell’euro.
(Giuseppe Pennisi) 26 mag 2011 19:58
Roma, 26 mag (Il Velino) - Grande attenzione, e grande preoccupazione, per il debito sovrano di alcuni Paesi dell’eurozona. In particolare si teme il rischio di insolvenza della Grecia o che la Repubblica Ellenica non sia in grado di reggere il piano di riassetto richiesto dal resto dell’area euro, dalla Banca centrale europea e dal Fondo monetario internazionale. E, soprattutto, si ha paura del contagio per altri Stati dell’area e che l’eurozona esploda o imploda. Pochi sembrano preoccuparsi di un fenomeno speculare: quello dell’indebitamento delle aziende e delle famiglie. Sul debito delle famiglie (aumentato rapidamente dal 2007) riferiscono periodicamente gli istituti nazionali di statistica: la stampa piagnucola per un paio di giorni ma l’attenzione dei governi è tutta sul profondo rosso delle loro finanze. Il servizio studi della Banca centrale finlandese - meno valutato di quanto meriterebbe - ha condotto un’analisi (ancora inedita) dell’indebitamento aziendale nell’area dell’euro dal 1991 al 2006 (prima di una crisi le cui dimensioni hanno cambiato le carte in tavola) raffrontandolo con l’andamento in cinque Stati che dell’eurozona non fanno parte. Prima considerazione: le imprese di Stati le cui valute erano claudicanti prima dell’ingresso nell’unione monetaria hanno aumentato, alla grande, sia l’emissione di capitale di rischio sia quella di obbligazioni ad un tasso molto più rapido dei cinque che non appartengono all’area dell’euro. Lo hanno fatto specialmente le grandi imprese di Stati a valuta considerata debole e in settori che più dipendono dal finanziamento all’estero (indebitandosi, a tassi d’interesse considerati bassi, nei confronti di altri Stati dell’area, o meglio delle loro banche)
.
Da un lato, questi risultati dimostrano che appartenere all’eurozona ha voluto dire maggiori opportunità d’investimento. Da un altro, indica però che l’effeto Minsky (il “Minsky moment” in gergo) non riguarda solo Pantalone; come l’economista americano aveva preconizzato: da “grande moderazione” si passa a “grande crisi”. Per tutti. Difficile trovare una ricetta per uscire dal pasticcio. La terapia consueta sarebbe quella di accelerare la crescita e andare a briglia sciolta con l’inflazione al fine di ripulirsi dal fardello del debito. Ma non è fattibile a ragione del peso sociale che l’inflazione avrebbe sui più deboli. Una serie di misure per lo sviluppo vengono presentate il 31 maggio al centro studi americani di Roma nel rapporto “Liberalizzazioni e Speranze”, il nono di una serie, proposto dall’Associazione Società Libera. Possono essere utili per alleggerire la gamba privata del debito dell’euro.
(Giuseppe Pennisi) 26 mag 2011 19:58
lunedì 23 maggio 2011
MONTEGRAL/ La perla dei festival musicali estivi in un convento sulla Garfagnana Sussidiario 24 maggio
MONTEGRAL/ La perla dei festival musicali estivi in un convento sulla Garfagnana
Giuseppe Pennisi
martedì 24 maggio 2011
L'Accademia di Montegral
Approfondisci
BENJAMIN BRITTEN/ Il "War Requiem" e l'inutile strage
VERDI/ Tre ottimi motivi per gustarsi la passione rivoluzionaria dell'Ernani a Bologna
Anche quest’anno, la stagione dei festival estivi è iniziata con la manifestazione musicale più insolita, e più elitaria, dell’anno: dal 20 al 22 maggio una quarantina di artisti di livello internazionale e un pubblico di cento persone - tanti ne contiene la chiesa neoclassica costruita tra il 1827 ed il 1830 dall’Architetto Lodovico Natalini - si sono dati convegno in un convento storico appollaiato sulla Garfagnana, dove si può giungere esclusivamente tramite una scoscesa strada di collina. Si tratta del quarto festival annuale dell’Accademia di Montegral, il centro di perfezionamento e di cultura musicale creato, d’intesa con i Padri Passionisti da Gustav Kuhn, noto in Italia per essere stato tra l’altro direttore artistico all’Opera di Roma, al San Carlo di Napoli e allo Sferisterio di Macerata. Kuhn è stato considerato per anni l’erede di Herbert von Karajan. Il Convento dell’Angelo dispone di 70 celle, oltre di un chiostro, qualche salone e una vista mozzafiato. Quindi, parte degli artisti e degli spettatori alloggiano a Lucca e dintorni.
Parterre d’eccezione: oltre al Generale dei Passionisti (in fin dei conti si è a casa loro), il Primo Ministro del Tirolo, il Presidente della Banca centrale austriaca, nomi importanti di Austria e Baviera e parte del Gotha della Lucchesia e della Toscana in generale. Unicamente tre critici musicali italiani: quello de l’Osservatore Romano, lo specialista di musica contemporanea del mensile Musica e il vostro chroniqueur. Rappresentate le principali testate austriache, tedesche e britannica. Anche se molto contingentate a ragione degli spazi.
Tre giorni insieme potrebbero dare adito a pensare a un complotto per riscrivere i trattati europei. Seguono, invece, un rituale minuzioso (e sono ammessi tanto il lungo per le signore e lo smoking per i signori quanto i jeans). Aperitivo alle 18. Passeggiata verso la Chiesa, accompagnati dal virtuosismo di Fojodor Lusch (giovane violista già affermato in mezza Europa); concerto in due parti in chiesa, cena in comune e “late night concert” sino alle ore piccole). La domenica mattina la celebrazione dell’Eucarestia è accompagnata dall’edizione integrale e filologica (ossia con l’accompagnamento di tre pianoforti) della Petite Messe Solennelle di Rossini.
E’ un evento davvero “fuori dall’ordinario” (tra la cinquantina circa di festival estivi in Italia). E’ anche straordinario perché finanziato quasi esclusivamente da privati e dai pochi fortunati che riescono ad acquistare il numero severamente contingento di biglietti in vendita. La musica - ripete spesso Benedetto XVI - è la forma più alta delle arti; con il festival (che, come vedremo, è il preludio ad altre manifestazioni aperte a vasto pubblico), l’Accademia dà il suo contributo a questo insegnamento con temi rivolti all’Alto.
Altra caratteristica è che la musica tradizionale (Brahms, Schuman, Beethoven, Mozart) viene alternata a prime assolute e contemporaneità. Inoltre artisti giovani, ma tutti affermati, come i pianisti Jasniska Stancul, Antonio Alfonsi e Davide Cabassi e un coro composto quasi esclusivamente di solisti che cantano già parti principali in teatri austriaci, italiani e tedeschi.
Da due anni, poi, al Convento si presentano “micro-opere”, ossia teatro in musica brevissimo, con pochi strumenti, pochi interpreti ma grande effetto. L’anno scorso è stata la volta di “Checkinaggio” - dieci esilaranti minuti di Girolamo Deraco - su un (poco competente attentato) all’imbarco di un volo internazionale - lavoro già presentato in vari teatri europei. Questa volta, sempre Deraco ha aperto il festival con “REDazione” (sette “fiati” e un percussionista tutti in grado di recitare e di dire alcune parole cadenzate) in cui si prende garbatamente in giro una disorganizzata redazione di quotidiano. Andrà in estate al maggior festival musicale scandinavo e in autunno a Milano ed a Roma.
La tre giorni di full immersione è solo l’antipasto. Un festival lirico, sinfonico, ma anche di spericolatezze pianistiche a Erl, in Tirolo, per quasi tutto il mese di luglio, rappresenta il pranzo vero e proprio (per il programma www.tiroler-festpiele.at). Il dessert sarà servito con due settimane di grande sinfonica a Dolbacco, luogo di vacanza preferito da Gustav Mahler, di cui pochi giorni fa ricorreva il centenario della morte (per il cartellone www.altoadige-festival.it). E il cordiale a Salisburgo nel week-end precedente il Natale in un festival di improvvisazione il cui titolo “Delirium” dice tutto.
© Riproduzione Riservata.
Giuseppe Pennisi
martedì 24 maggio 2011
L'Accademia di Montegral
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BENJAMIN BRITTEN/ Il "War Requiem" e l'inutile strage
VERDI/ Tre ottimi motivi per gustarsi la passione rivoluzionaria dell'Ernani a Bologna
Anche quest’anno, la stagione dei festival estivi è iniziata con la manifestazione musicale più insolita, e più elitaria, dell’anno: dal 20 al 22 maggio una quarantina di artisti di livello internazionale e un pubblico di cento persone - tanti ne contiene la chiesa neoclassica costruita tra il 1827 ed il 1830 dall’Architetto Lodovico Natalini - si sono dati convegno in un convento storico appollaiato sulla Garfagnana, dove si può giungere esclusivamente tramite una scoscesa strada di collina. Si tratta del quarto festival annuale dell’Accademia di Montegral, il centro di perfezionamento e di cultura musicale creato, d’intesa con i Padri Passionisti da Gustav Kuhn, noto in Italia per essere stato tra l’altro direttore artistico all’Opera di Roma, al San Carlo di Napoli e allo Sferisterio di Macerata. Kuhn è stato considerato per anni l’erede di Herbert von Karajan. Il Convento dell’Angelo dispone di 70 celle, oltre di un chiostro, qualche salone e una vista mozzafiato. Quindi, parte degli artisti e degli spettatori alloggiano a Lucca e dintorni.
Parterre d’eccezione: oltre al Generale dei Passionisti (in fin dei conti si è a casa loro), il Primo Ministro del Tirolo, il Presidente della Banca centrale austriaca, nomi importanti di Austria e Baviera e parte del Gotha della Lucchesia e della Toscana in generale. Unicamente tre critici musicali italiani: quello de l’Osservatore Romano, lo specialista di musica contemporanea del mensile Musica e il vostro chroniqueur. Rappresentate le principali testate austriache, tedesche e britannica. Anche se molto contingentate a ragione degli spazi.
Tre giorni insieme potrebbero dare adito a pensare a un complotto per riscrivere i trattati europei. Seguono, invece, un rituale minuzioso (e sono ammessi tanto il lungo per le signore e lo smoking per i signori quanto i jeans). Aperitivo alle 18. Passeggiata verso la Chiesa, accompagnati dal virtuosismo di Fojodor Lusch (giovane violista già affermato in mezza Europa); concerto in due parti in chiesa, cena in comune e “late night concert” sino alle ore piccole). La domenica mattina la celebrazione dell’Eucarestia è accompagnata dall’edizione integrale e filologica (ossia con l’accompagnamento di tre pianoforti) della Petite Messe Solennelle di Rossini.
E’ un evento davvero “fuori dall’ordinario” (tra la cinquantina circa di festival estivi in Italia). E’ anche straordinario perché finanziato quasi esclusivamente da privati e dai pochi fortunati che riescono ad acquistare il numero severamente contingento di biglietti in vendita. La musica - ripete spesso Benedetto XVI - è la forma più alta delle arti; con il festival (che, come vedremo, è il preludio ad altre manifestazioni aperte a vasto pubblico), l’Accademia dà il suo contributo a questo insegnamento con temi rivolti all’Alto.
Altra caratteristica è che la musica tradizionale (Brahms, Schuman, Beethoven, Mozart) viene alternata a prime assolute e contemporaneità. Inoltre artisti giovani, ma tutti affermati, come i pianisti Jasniska Stancul, Antonio Alfonsi e Davide Cabassi e un coro composto quasi esclusivamente di solisti che cantano già parti principali in teatri austriaci, italiani e tedeschi.
Da due anni, poi, al Convento si presentano “micro-opere”, ossia teatro in musica brevissimo, con pochi strumenti, pochi interpreti ma grande effetto. L’anno scorso è stata la volta di “Checkinaggio” - dieci esilaranti minuti di Girolamo Deraco - su un (poco competente attentato) all’imbarco di un volo internazionale - lavoro già presentato in vari teatri europei. Questa volta, sempre Deraco ha aperto il festival con “REDazione” (sette “fiati” e un percussionista tutti in grado di recitare e di dire alcune parole cadenzate) in cui si prende garbatamente in giro una disorganizzata redazione di quotidiano. Andrà in estate al maggior festival musicale scandinavo e in autunno a Milano ed a Roma.
La tre giorni di full immersione è solo l’antipasto. Un festival lirico, sinfonico, ma anche di spericolatezze pianistiche a Erl, in Tirolo, per quasi tutto il mese di luglio, rappresenta il pranzo vero e proprio (per il programma www.tiroler-festpiele.at). Il dessert sarà servito con due settimane di grande sinfonica a Dolbacco, luogo di vacanza preferito da Gustav Mahler, di cui pochi giorni fa ricorreva il centenario della morte (per il cartellone www.altoadige-festival.it). E il cordiale a Salisburgo nel week-end precedente il Natale in un festival di improvvisazione il cui titolo “Delirium” dice tutto.
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Istat, l’Italia e la sindrome del gambero Il Sussidiario 24 maggio
INDAGINE/ Istat, l’Italia e la sindrome del gambero
Giuseppe Pennisi
martedì 24 maggio 2011
Foto Imagoeconomica
Approfondisci
FINANZA/ Tra forbici e frusta, il governo risponde alla "gufata" di S&P’s, di M. Arnese
IL CASO/ L’inutile bufala dietro al referendum sull’acqua, di C. Stagnaro
vai al dossier Crisi o ripresa?
A una prima lettura, il Rapporto annuale dell’Istat sulla situazione del Paese lascia spiazzati numerosi cronisti economici: per quanto riguarda il breve termine, infatti, il documento conferma ciò che molti sapevano e scrivevano da tempo. Da un lato, l’Italia è tecnicamente uscita dalla recessione, ma sotto il profilo sociale gli effetti di trascinamento si presentano pesantissimi tramite una catena di trasmissione che dal mondo del lavoro arriva alle famiglie, che per sopravvivere hanno eroso il risparmio, portandolo al 9,1% del reddito disponibile, il livello più basso dall’inizio degli anni Novanta.
La recessione ci ha portato indietro di dieci anni e con gli attuali ritmi ce ne vorranno sei-sette per recuperare la produzione e il reddito perduto. In due anni, due milioni e mezzo di giovani hanno perso il lavoro. Oggi circa un quarto della popolazione è a rischio di povertà o di esclusione sociale. I salari ristagnano ed è difficile preconizzarne un aumento perché, nonostante il leggero recupero di produttività, l’indice resta al di sotto del livello del 2000.
Ci sono alcuni segnali incoraggianti, principalmente la ripresa sia della produzione industriale, sia, soprattutto, degli ordinativi per il manifatturiero, indicazione non solo che le imprese manifatturiere italiane hanno resistito comparativamente bene alla crisi finanziaria e a quella dell’economia reale nell’area Usa-Ue, ma è che su di esse che occorre porre l’accento nel quadro di qualsivoglia “exit strategy”.
Un’indicazione importante in una fase in cui alcune sirene hanno ripreso a inneggiare alla “new economy” o “net economy” di cui nessuno può disconoscere i vantaggi (in termini di riduzione di costi di transazione e di abbattimenti di quelli di tempo e di spazio), ma che rappresenta una leva di sviluppo unicamente se ben integrata nel resto dell’economia (manifatturiero, servizi e, soprattutto, pubblica amministrazione).
Non mancano - e come potrebbero mancare! - le preoccupazioni sullo Stato e sulle prospettive della finanza pubblica, specialmente sul livello raggiunto dal nostro stock di debito pubblico rispetto al flusso di beni e servizi prodotti ogni anno dal Paese (il Pil). Il rapporto Istat è stato scritto e stampato settimane prima della diramazione delle previsioni negative di Standard & Poor’s sull’Italia, ma, scavando tra le sue pagine, si avvertono le medesime preoccupazioni degli analisti di S&P’s: se non acceleriamo la crescita, e se lo stallo politico la frena o le fa addirittura fare marcia indietro, la percezione (giusta o sbagliata che sia) del “rischio Italia” aumenta con tutte le implicazioni che se ne possono trarre.
La settimana scorsa il rapporto del Centro Europa Ricerche lo aveva detto a tutto tondo; due settimana fa una lettura attenta delle analisi mensili dei 20 maggiori istituti internazionali di analisi previsionale econometrica (tutti privati, nessuno italiano) lo aveva anticipato. Si stupiscono, quindi, quei cronisti economici che già sabato 21 maggio si sono meravigliati delle analisi di S&P’s e che oggi esprimono ancora volta sorpresa. Ma era tutto già nelle carte; avrebbero fatto bene a leggerle.
Questi, però, non sono, a mio avviso, gli aspetti salienti del documento presentato, appropriatamente, in Parlamento. Nel Rapporto c’è uno stile nuovo e più attento al lungo periodo e alle fondamenta della politica economica (quale che sia la maggioranza parlamentare e la struttura dell’esecutivo). Non so quanti abbiano notato che oggi, a ridosso quasi di questo Rapporto sulla situazione del Paese, l’Istat presenta il Rapporto sulla demografia dell’Italia. Un messaggio forte per dire che senza una politica della famiglia, che freni l’invecchiamento della popolazione, si è condannati a un lento ma inesorabile declino.
Un altro aspetto poco notato dai cronisti economici: da quando venne interrotto a fine 1996 (a ragione dei tagli al bilancio Istat), l’istituto ha ripreso il lavoro sulla matrice di contabilità sociale (Social Accounting Matrix, Sam). Non è una chicca che può solo stuzzicare gli appetiti di una confraternita di pochi appassionati. Una Sam aggiornata (l’ultima risale al 1994), infatti, è lo strumento essenziale per valutazioni quantitative delle politiche economiche (quale che sia la maggioranza parlamentare e la composizione dell’Esecutivo). È parte integrante della cassetta degli attrezzi per cui uno Stato moderno possa operare.
Questi non sono che due esempi di un disegno più vasto che imporrà, prima o poi, misure legislative: la fusione di fatto tra Isae (Istituto di studi e analisi economica) e Istat fa sì che l’Italia si stia dotando di un’istituzione analoga all’Insee (Istituto nazionale di statistica e di studi economici) francese - un istituto centrale autonomo e indipendente di analisi economica e statistica in grado di formulare osservazioni e commenti a Governi e Parlamenti: non è un’innovazione da poco.
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Giuseppe Pennisi
martedì 24 maggio 2011
Foto Imagoeconomica
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FINANZA/ Tra forbici e frusta, il governo risponde alla "gufata" di S&P’s, di M. Arnese
IL CASO/ L’inutile bufala dietro al referendum sull’acqua, di C. Stagnaro
vai al dossier Crisi o ripresa?
A una prima lettura, il Rapporto annuale dell’Istat sulla situazione del Paese lascia spiazzati numerosi cronisti economici: per quanto riguarda il breve termine, infatti, il documento conferma ciò che molti sapevano e scrivevano da tempo. Da un lato, l’Italia è tecnicamente uscita dalla recessione, ma sotto il profilo sociale gli effetti di trascinamento si presentano pesantissimi tramite una catena di trasmissione che dal mondo del lavoro arriva alle famiglie, che per sopravvivere hanno eroso il risparmio, portandolo al 9,1% del reddito disponibile, il livello più basso dall’inizio degli anni Novanta.
La recessione ci ha portato indietro di dieci anni e con gli attuali ritmi ce ne vorranno sei-sette per recuperare la produzione e il reddito perduto. In due anni, due milioni e mezzo di giovani hanno perso il lavoro. Oggi circa un quarto della popolazione è a rischio di povertà o di esclusione sociale. I salari ristagnano ed è difficile preconizzarne un aumento perché, nonostante il leggero recupero di produttività, l’indice resta al di sotto del livello del 2000.
Ci sono alcuni segnali incoraggianti, principalmente la ripresa sia della produzione industriale, sia, soprattutto, degli ordinativi per il manifatturiero, indicazione non solo che le imprese manifatturiere italiane hanno resistito comparativamente bene alla crisi finanziaria e a quella dell’economia reale nell’area Usa-Ue, ma è che su di esse che occorre porre l’accento nel quadro di qualsivoglia “exit strategy”.
Un’indicazione importante in una fase in cui alcune sirene hanno ripreso a inneggiare alla “new economy” o “net economy” di cui nessuno può disconoscere i vantaggi (in termini di riduzione di costi di transazione e di abbattimenti di quelli di tempo e di spazio), ma che rappresenta una leva di sviluppo unicamente se ben integrata nel resto dell’economia (manifatturiero, servizi e, soprattutto, pubblica amministrazione).
Non mancano - e come potrebbero mancare! - le preoccupazioni sullo Stato e sulle prospettive della finanza pubblica, specialmente sul livello raggiunto dal nostro stock di debito pubblico rispetto al flusso di beni e servizi prodotti ogni anno dal Paese (il Pil). Il rapporto Istat è stato scritto e stampato settimane prima della diramazione delle previsioni negative di Standard & Poor’s sull’Italia, ma, scavando tra le sue pagine, si avvertono le medesime preoccupazioni degli analisti di S&P’s: se non acceleriamo la crescita, e se lo stallo politico la frena o le fa addirittura fare marcia indietro, la percezione (giusta o sbagliata che sia) del “rischio Italia” aumenta con tutte le implicazioni che se ne possono trarre.
La settimana scorsa il rapporto del Centro Europa Ricerche lo aveva detto a tutto tondo; due settimana fa una lettura attenta delle analisi mensili dei 20 maggiori istituti internazionali di analisi previsionale econometrica (tutti privati, nessuno italiano) lo aveva anticipato. Si stupiscono, quindi, quei cronisti economici che già sabato 21 maggio si sono meravigliati delle analisi di S&P’s e che oggi esprimono ancora volta sorpresa. Ma era tutto già nelle carte; avrebbero fatto bene a leggerle.
Questi, però, non sono, a mio avviso, gli aspetti salienti del documento presentato, appropriatamente, in Parlamento. Nel Rapporto c’è uno stile nuovo e più attento al lungo periodo e alle fondamenta della politica economica (quale che sia la maggioranza parlamentare e la struttura dell’esecutivo). Non so quanti abbiano notato che oggi, a ridosso quasi di questo Rapporto sulla situazione del Paese, l’Istat presenta il Rapporto sulla demografia dell’Italia. Un messaggio forte per dire che senza una politica della famiglia, che freni l’invecchiamento della popolazione, si è condannati a un lento ma inesorabile declino.
Un altro aspetto poco notato dai cronisti economici: da quando venne interrotto a fine 1996 (a ragione dei tagli al bilancio Istat), l’istituto ha ripreso il lavoro sulla matrice di contabilità sociale (Social Accounting Matrix, Sam). Non è una chicca che può solo stuzzicare gli appetiti di una confraternita di pochi appassionati. Una Sam aggiornata (l’ultima risale al 1994), infatti, è lo strumento essenziale per valutazioni quantitative delle politiche economiche (quale che sia la maggioranza parlamentare e la composizione dell’Esecutivo). È parte integrante della cassetta degli attrezzi per cui uno Stato moderno possa operare.
Questi non sono che due esempi di un disegno più vasto che imporrà, prima o poi, misure legislative: la fusione di fatto tra Isae (Istituto di studi e analisi economica) e Istat fa sì che l’Italia si stia dotando di un’istituzione analoga all’Insee (Istituto nazionale di statistica e di studi economici) francese - un istituto centrale autonomo e indipendente di analisi economica e statistica in grado di formulare osservazioni e commenti a Governi e Parlamenti: non è un’innovazione da poco.
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A Roma “La battaglia di Legnano”, la “misconosciuta” di Verdi Il Velino 23 maggio
CLT - Opera/ A Roma “La battaglia di Legnano”, la “misconosciuta” di Verdi
È l’unico lavoro davvero risorgimentale del Maestro di Busseto, poco rappresentata sia in Italia che all’estero. Un motivo in più per plaudire alla scommessa fatta nella Capitale
Roma, 23 mag (Il Velino) - Approda domani sera al Teatro dell’Opera di Roma la prima delle tre edizioni che quest’anno si vedranno in Italia de “La battaglia di Legnano”, unica opera davvero risorgimentale e patriottica di Giuseppe Verdi ma lavoro “misconosciuto”, come scrisse Gioacchino Lanza Tomasi in occasione di un raro allestimento (proprio nella capitale) del 1983. Le altre due sono programmate in autunno alla Scala e al piccolo teatro di Busseto. Composta su un mediocre libretto di Salvatore Cammarano (il quale a sua volte la trasse da un dramma popolare francese di successo (“La Bataille de la Toulose” che, fin troppo ovviamente, poco aveva a che fare con la Lega Lombarda, Federico Barbarossa e quant’altro), si tratta di uno dei pochi lavori “d’occasione” di Verdi, ossia commissionata per un evento specifico. Rappresentata al Teatro Argentina di Roma il 27 gennaio 1849, si pone nel solco degli avvenimenti che, sulla scia dei moti del 1848, dopo l’assassinio del riformista Pellegrino Rossi portarono alla fuga del Papa a Gaeta e alla proclamazione della Repubblica Romana. In questo contesto Verdi, già affermato da un bagaglio di una dozzina di titoli di successo, venne incaricato dalla gestione laica del Teatro Argentina di scrivere un’opera che da un lato interpretasse il momento e dall’altro fornisse slancio verso quello che sarebbe stato l’ulteriore rinnovamento. Tanto più che la Lega Lombarda combatteva Federico Barbarossa in nome del Papa.
L’opera è poco nota e mancano anche incisioni di rilievo, tranne una degli anni Settanta effettuata in Ungheria da Lamberto Gardelli. Due le ragioni. Dopo la fine della Repubblica Romana pochi teatri italiani vollero, per motivi sin troppo ovvi, riprenderla. Inoltre si tratta di un lavoro che, pur avendo alcuni estimatori, ha lasciato perplessi numerosi critici musicali. Severissimo, per esempio, il giudizio di Franco Abbiati nella sua “Storia della Musica”: “La vicenda non reca molto onore né a Cammarano né a Verdi: lo spunto storico veniva saldato a un misero scivolone coniugale, appiccicato per utilità effettistiche e lambiccato senza profonda convinzione né profonda passione (…) Le concomitanti espressioni del cabalattismo amoroso e dell’enfatica corale patriottica, si trovano sospese nel vuoto dall’azione inconsistente e sono incoraggiate ad insistere nei ripieghi dell’enfasi”. Durissimo anche Eugenio Montale: “Si sente che l’interesse di Verdi era d’altra natura”. Più positivo ma ironico Massimo Mila: l’opera “ci fa toccare con mano, meglio d’ogni altra opera di Verdi, che, per questo genio di struttura pressoché shakespeariana, il regno delle madri doveva essere in definitiva una banda di Paese”.
Tra i musicologi stranieri, unicamente Julian Budden nota una caratteristica importante: l’influenza delle forme operistiche francesi su Verdi, un’influenza che ne avrebbe tracciato il percorso futuro del musicista. Pur se le dimensioni, l’attrezzatura tecnica e le povere finanze del Teatro Argentina non avrebbero mai potuto fare approdare Verdi a quel grand-opéra cui sarebbe giunto sei anni dopo con “Les Vêpres Siciliennes”, di recente in scena al San Carlo. A “La battaglia” è mancata la diffusione non solo in Italia ma anche all’estero, dove pure viene regolarmente rappresentato un grande capolavoro verdiano come “Stiffelio” che raramente è presente sulle nostre scene. La produzione del Teatro dell’Opera di Roma, affidata alla direzione musicale di Pinchas Steinberg e alla regia di Ruggero Capuccio, è l’occasione di una rilettura di cui hanno beneficiato lavori come “Macbeth” e “Luisa Miller”, ormai consegnati al repertorio. Una scommessa che merita quindi di essere incoraggiata, insieme all’augurio di ogni bene a questo “figlio minore” di Verdi.
(Hans Sachs) 23 mag 2011 13:31
È l’unico lavoro davvero risorgimentale del Maestro di Busseto, poco rappresentata sia in Italia che all’estero. Un motivo in più per plaudire alla scommessa fatta nella Capitale
Roma, 23 mag (Il Velino) - Approda domani sera al Teatro dell’Opera di Roma la prima delle tre edizioni che quest’anno si vedranno in Italia de “La battaglia di Legnano”, unica opera davvero risorgimentale e patriottica di Giuseppe Verdi ma lavoro “misconosciuto”, come scrisse Gioacchino Lanza Tomasi in occasione di un raro allestimento (proprio nella capitale) del 1983. Le altre due sono programmate in autunno alla Scala e al piccolo teatro di Busseto. Composta su un mediocre libretto di Salvatore Cammarano (il quale a sua volte la trasse da un dramma popolare francese di successo (“La Bataille de la Toulose” che, fin troppo ovviamente, poco aveva a che fare con la Lega Lombarda, Federico Barbarossa e quant’altro), si tratta di uno dei pochi lavori “d’occasione” di Verdi, ossia commissionata per un evento specifico. Rappresentata al Teatro Argentina di Roma il 27 gennaio 1849, si pone nel solco degli avvenimenti che, sulla scia dei moti del 1848, dopo l’assassinio del riformista Pellegrino Rossi portarono alla fuga del Papa a Gaeta e alla proclamazione della Repubblica Romana. In questo contesto Verdi, già affermato da un bagaglio di una dozzina di titoli di successo, venne incaricato dalla gestione laica del Teatro Argentina di scrivere un’opera che da un lato interpretasse il momento e dall’altro fornisse slancio verso quello che sarebbe stato l’ulteriore rinnovamento. Tanto più che la Lega Lombarda combatteva Federico Barbarossa in nome del Papa.
L’opera è poco nota e mancano anche incisioni di rilievo, tranne una degli anni Settanta effettuata in Ungheria da Lamberto Gardelli. Due le ragioni. Dopo la fine della Repubblica Romana pochi teatri italiani vollero, per motivi sin troppo ovvi, riprenderla. Inoltre si tratta di un lavoro che, pur avendo alcuni estimatori, ha lasciato perplessi numerosi critici musicali. Severissimo, per esempio, il giudizio di Franco Abbiati nella sua “Storia della Musica”: “La vicenda non reca molto onore né a Cammarano né a Verdi: lo spunto storico veniva saldato a un misero scivolone coniugale, appiccicato per utilità effettistiche e lambiccato senza profonda convinzione né profonda passione (…) Le concomitanti espressioni del cabalattismo amoroso e dell’enfatica corale patriottica, si trovano sospese nel vuoto dall’azione inconsistente e sono incoraggiate ad insistere nei ripieghi dell’enfasi”. Durissimo anche Eugenio Montale: “Si sente che l’interesse di Verdi era d’altra natura”. Più positivo ma ironico Massimo Mila: l’opera “ci fa toccare con mano, meglio d’ogni altra opera di Verdi, che, per questo genio di struttura pressoché shakespeariana, il regno delle madri doveva essere in definitiva una banda di Paese”.
Tra i musicologi stranieri, unicamente Julian Budden nota una caratteristica importante: l’influenza delle forme operistiche francesi su Verdi, un’influenza che ne avrebbe tracciato il percorso futuro del musicista. Pur se le dimensioni, l’attrezzatura tecnica e le povere finanze del Teatro Argentina non avrebbero mai potuto fare approdare Verdi a quel grand-opéra cui sarebbe giunto sei anni dopo con “Les Vêpres Siciliennes”, di recente in scena al San Carlo. A “La battaglia” è mancata la diffusione non solo in Italia ma anche all’estero, dove pure viene regolarmente rappresentato un grande capolavoro verdiano come “Stiffelio” che raramente è presente sulle nostre scene. La produzione del Teatro dell’Opera di Roma, affidata alla direzione musicale di Pinchas Steinberg e alla regia di Ruggero Capuccio, è l’occasione di una rilettura di cui hanno beneficiato lavori come “Macbeth” e “Luisa Miller”, ormai consegnati al repertorio. Una scommessa che merita quindi di essere incoraggiata, insieme all’augurio di ogni bene a questo “figlio minore” di Verdi.
(Hans Sachs) 23 mag 2011 13:31
HAYEK VS. FRIEDMAN, IL DIBATTITO DA (RI)LEGGERE PER OGNI BANCHIERE CENTRALE Gazzetta Finanziaria de Il Foglio 23 maggio
AND THE PAPER IS...
HAYEK VS. FRIEDMAN, IL DIBATTITO DA (RI)LEGGERE PER OGNI BANCHIERE CENTRALE
Tra le letture da suggerire al governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, prima di assurgere al seggio più alto della Banca centrale europea (Bce) c'è un paper di William Luther della George Mason University, quel covo liberista sulla sponda virginiana del Potomac. Il lavoro di Luther è in corso di stampa ma circola da qualche giorno tra gli addetti ai lavori. Il titolo è eloquente: "Friedman Versus Hayek on Private Outside Monies: New Evidence for the Debate", Friedman contro Hayek sulle monete private: nuove prove per il dibattito.
In vari saggi (rispettivamente del 1976, 1978, 1984 e del 1990), Friedrich August von Hayek ha sostenuto la desiderabilità di permettere ai privati di coniar moneta: la concorrenza che ne risulterebbe imporrebbe disciplina alle (autocratiche e spesso autoreferenziali) autorità monetarie. Milton Friedman ha criticato Hayek come troppo ingenuo: gli emittenti privati avrebbero presto creato una rete, o per dirla in termini eleganti un network, che avrebbe consentito loro di fare gli affari propri senza però fare nascere il meccanismo concorrenziale idealizzato proprio da chi era stato uno dei suoi maestri. Secondo William Luther, l'evidenza empirica (spesso di paesi in via di sviluppo o in guerra) dà ragione a Friedman. Ma che avverrebbe in caso di un ulteriore smottamento dell'euro? Già oggi valute i cui titoli hanno interessi marcatamente differenti (si oscilla dal 3 al 17 per cento) hanno valori differenti e competono l'una con l'altra. (Giuseppe Pennisi)
HAYEK VS. FRIEDMAN, IL DIBATTITO DA (RI)LEGGERE PER OGNI BANCHIERE CENTRALE
Tra le letture da suggerire al governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, prima di assurgere al seggio più alto della Banca centrale europea (Bce) c'è un paper di William Luther della George Mason University, quel covo liberista sulla sponda virginiana del Potomac. Il lavoro di Luther è in corso di stampa ma circola da qualche giorno tra gli addetti ai lavori. Il titolo è eloquente: "Friedman Versus Hayek on Private Outside Monies: New Evidence for the Debate", Friedman contro Hayek sulle monete private: nuove prove per il dibattito.
In vari saggi (rispettivamente del 1976, 1978, 1984 e del 1990), Friedrich August von Hayek ha sostenuto la desiderabilità di permettere ai privati di coniar moneta: la concorrenza che ne risulterebbe imporrebbe disciplina alle (autocratiche e spesso autoreferenziali) autorità monetarie. Milton Friedman ha criticato Hayek come troppo ingenuo: gli emittenti privati avrebbero presto creato una rete, o per dirla in termini eleganti un network, che avrebbe consentito loro di fare gli affari propri senza però fare nascere il meccanismo concorrenziale idealizzato proprio da chi era stato uno dei suoi maestri. Secondo William Luther, l'evidenza empirica (spesso di paesi in via di sviluppo o in guerra) dà ragione a Friedman. Ma che avverrebbe in caso di un ulteriore smottamento dell'euro? Già oggi valute i cui titoli hanno interessi marcatamente differenti (si oscilla dal 3 al 17 per cento) hanno valori differenti e competono l'una con l'altra. (Giuseppe Pennisi)
domenica 22 maggio 2011
Palermo bizantina accoglie Les Vêpres Siciliennes Milano Finanza 21 maggio
Palermo bizantina accoglie Les Vêpres Siciliennes
di Giuseppe Pennisi
L'opera Les Vêpres Siciliennes in scena al restaurato San Carlo di Napoli fino al 24 maggio rappresenta la prima edizione realizzata in tempi moderni del «gran opéra» commissionato dal Teatro Imperiale di Napoleone III nel 1855. Gianluigi Gelmetti, diversamente da ciò che accade di consueto, concerta la partitura integrale compresa di balletti e utilizza il testo francese.
Il regista Nicolas Joël ambienta l'azione in una Palermo medioevale densa di ricordi bizantini. Le scene sono di Federico Tiezzi, i costumi di Franca Squarciapino, la coreografia di Amedeo Amodio. Risulta vincente l'idea di svolgere l'ultima scena all'interno del Duomo di Monreale. Il fulcro del dramma è il tormentato rapporto tra padre, il proconsole francese in Sicilia Guy de Monfort (Diego Solari), e il figlio cresciuto invece tra i rivoluzionari, Henry (Gregory Kunde), ambedue in piena forma al pari di Orlin Anastassov (un Giovanni da Procida dipinto come un terrorista-stragista piuttosto che, quale appare di consueto, come un mazziniano ante literam). In questo dramma tutto al maschile, Alexandrina Pendatchanska, che interpreta la duchessa siciliana innamorata di Henry, ha un volume troppo piccolo per il vasto San Carlo. Applausi a Gelmetti e all'orchestra (ottimi i fiati e gli ottoni), nonché ai tre protagonisti maschili. Perfetta la dizione francese di Kunde e Anastassov, mediocre quella degli altri. (riproduzione riservata)
di Giuseppe Pennisi
L'opera Les Vêpres Siciliennes in scena al restaurato San Carlo di Napoli fino al 24 maggio rappresenta la prima edizione realizzata in tempi moderni del «gran opéra» commissionato dal Teatro Imperiale di Napoleone III nel 1855. Gianluigi Gelmetti, diversamente da ciò che accade di consueto, concerta la partitura integrale compresa di balletti e utilizza il testo francese.
Il regista Nicolas Joël ambienta l'azione in una Palermo medioevale densa di ricordi bizantini. Le scene sono di Federico Tiezzi, i costumi di Franca Squarciapino, la coreografia di Amedeo Amodio. Risulta vincente l'idea di svolgere l'ultima scena all'interno del Duomo di Monreale. Il fulcro del dramma è il tormentato rapporto tra padre, il proconsole francese in Sicilia Guy de Monfort (Diego Solari), e il figlio cresciuto invece tra i rivoluzionari, Henry (Gregory Kunde), ambedue in piena forma al pari di Orlin Anastassov (un Giovanni da Procida dipinto come un terrorista-stragista piuttosto che, quale appare di consueto, come un mazziniano ante literam). In questo dramma tutto al maschile, Alexandrina Pendatchanska, che interpreta la duchessa siciliana innamorata di Henry, ha un volume troppo piccolo per il vasto San Carlo. Applausi a Gelmetti e all'orchestra (ottimi i fiati e gli ottoni), nonché ai tre protagonisti maschili. Perfetta la dizione francese di Kunde e Anastassov, mediocre quella degli altri. (riproduzione riservata)
giovedì 19 maggio 2011
Rapporto C.E.R: nostalgia e vecchi merletti Il Velino 20 maggio
ECO - Rapporto C.E.R: nostalgia e vecchi merletti
Roma, 19 mag (Il Velino) - Il rapporto del Centro Europa Ricerche (CER) è stato presentato, in versione preliminare, il 18 maggio in uno dei saloni della Rappresentanza a Roma della Commissione Europea. Relatori di lignaggio e parterre delle grandi occasioni, con la sala straboccante negli adiacenti corridoi. Ma lasciamo tutto ciò alle cronache mondane o della intellighenzia. Sarebbe forse più appropriato dire dell’intellighenzia del tempo che fu, dei primi “modellacci” (si chiamavano proprio così) che portarono cultura macro-econometrica in Italia quando si utilizzava ancora un lessico strano su convergenze parallele che avrebbero portato al centro sinistra degli Anni Sessanta. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti del Tevere.
Il rapporto è, per molti aspetti, ineccepibile: tratta principalmente della crisi finanziaria globale e delle sue implicazioni sul progetto di integrazione europea. Mette attentamente in risalto in termini quantitativi quanto anticipato venti anni fa da Hyman Minsky: l’efficienza media del capitale è diminuita, c’è stata una re distribuzione nei prezzi relativi dei fattori, ne risultati penalizzati la produttività fattoriale totale, specialmente negli Stati dell’Europa meridionali, indebitatisi oltre misura a ragione dei bassi tassi d’interesse e della convinzione (errata) che all’interno di un’area monetaria gli squilibri dei conti con l’estero non avessero effetti di rilievo.
A questa analisi-diagnosi (non nuova ma con divisibilissima) seguono proposte che paiono non tenere conto né di alcuni errori di fondo dell’unione monetaria europea (l’accento sulla finanza pubblica e sulla macro-economia e la scarsa attenzione, vero e proprio benign neglect nei confronti dei comportamenti micro-economici di individui, famiglie, imprese, pubbliche amministrazioni. In effetti, la produttività dipende da tale comportamenti più che dalle misure macro-economiche.
Quindi, il rapporto propone maggior coordinamento delle politiche di bilancio ed un rilancio di politiche europee di investimento tramite Eurobonds (quale che ne sia la foggia e la guisa). Un ricetta simile a quella formulata da Xavier Ortoli e da Tommaso Padoa-Schioppa (allora direttore generale agli affari economici alla Commissione Europa) nel 1980.
Non ci si accorge o quasi che , anche ammesso che i 27 siano pronti a “coordinare” maggiormente le politiche di bilancio, ciò non avrebbe alcun effetto sul nodo centrale: la produttività. Ci sono modi e maniere per affrontarlo: la nostalgia di quando si era giovani ed i vecchi merletti non sono di grande aiuto.
Tanto più che la costruzione europea pare a pezzi: c’è chi sospende unilateralmente il Trattato di Schengen sulla libertà di circolazione, nessuno osserva quello di Maastricht ed il “patto di stabilità” e via discorrendo. Meglio dedicare tempo ed energie a tirarsi fuori dal pasticcio che pensare di essere ancora ai “gloriosi” Anni Sessanta.
(Giuseppe Pennisi) 19 mag 2011 19:06
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Roma, 19 mag (Il Velino) - Il rapporto del Centro Europa Ricerche (CER) è stato presentato, in versione preliminare, il 18 maggio in uno dei saloni della Rappresentanza a Roma della Commissione Europea. Relatori di lignaggio e parterre delle grandi occasioni, con la sala straboccante negli adiacenti corridoi. Ma lasciamo tutto ciò alle cronache mondane o della intellighenzia. Sarebbe forse più appropriato dire dell’intellighenzia del tempo che fu, dei primi “modellacci” (si chiamavano proprio così) che portarono cultura macro-econometrica in Italia quando si utilizzava ancora un lessico strano su convergenze parallele che avrebbero portato al centro sinistra degli Anni Sessanta. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti del Tevere.
Il rapporto è, per molti aspetti, ineccepibile: tratta principalmente della crisi finanziaria globale e delle sue implicazioni sul progetto di integrazione europea. Mette attentamente in risalto in termini quantitativi quanto anticipato venti anni fa da Hyman Minsky: l’efficienza media del capitale è diminuita, c’è stata una re distribuzione nei prezzi relativi dei fattori, ne risultati penalizzati la produttività fattoriale totale, specialmente negli Stati dell’Europa meridionali, indebitatisi oltre misura a ragione dei bassi tassi d’interesse e della convinzione (errata) che all’interno di un’area monetaria gli squilibri dei conti con l’estero non avessero effetti di rilievo.
A questa analisi-diagnosi (non nuova ma con divisibilissima) seguono proposte che paiono non tenere conto né di alcuni errori di fondo dell’unione monetaria europea (l’accento sulla finanza pubblica e sulla macro-economia e la scarsa attenzione, vero e proprio benign neglect nei confronti dei comportamenti micro-economici di individui, famiglie, imprese, pubbliche amministrazioni. In effetti, la produttività dipende da tale comportamenti più che dalle misure macro-economiche.
Quindi, il rapporto propone maggior coordinamento delle politiche di bilancio ed un rilancio di politiche europee di investimento tramite Eurobonds (quale che ne sia la foggia e la guisa). Un ricetta simile a quella formulata da Xavier Ortoli e da Tommaso Padoa-Schioppa (allora direttore generale agli affari economici alla Commissione Europa) nel 1980.
Non ci si accorge o quasi che , anche ammesso che i 27 siano pronti a “coordinare” maggiormente le politiche di bilancio, ciò non avrebbe alcun effetto sul nodo centrale: la produttività. Ci sono modi e maniere per affrontarlo: la nostalgia di quando si era giovani ed i vecchi merletti non sono di grande aiuto.
Tanto più che la costruzione europea pare a pezzi: c’è chi sospende unilateralmente il Trattato di Schengen sulla libertà di circolazione, nessuno osserva quello di Maastricht ed il “patto di stabilità” e via discorrendo. Meglio dedicare tempo ed energie a tirarsi fuori dal pasticcio che pensare di essere ancora ai “gloriosi” Anni Sessanta.
(Giuseppe Pennisi) 19 mag 2011 19:06
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Musica, al via da domani il festival più giovane e lungo dell’anno Il Velino 19 maggio
CLT - Musica, al via da domani il festival più giovane e lungo dell’anno
Roma, 19 mag (Il Velino) - Inizia domani in un convento storico appollaiato sulla Garfagnana il festival musicale più lungo e più giovane dell’anno, con cantanti, strumentisti ed anche alcuni autori sono in generale sulla trentina. In effetti, si tratta di tre manifestazioni distinte, accomunate dal fatto di avare lo stesso animatore ed essere finanziate da enti locali per il 20 per cento e per il resto dalla biglietteria e dai privati (grande sponsor la casa discografica austriaca Col-Legno). L’animatore è il direttore d’orchestra Gustav Kuhn, noto in Italia per essere stato tra l’altro direttore artistico all’Opera di Roma, al San Carlo di Napoli e allo Sferisterio di Macerata. Kuhn è stato considerato per anni l’erede di Herbert von Karajan. Le tre tappe della manifestazione sono una prima puntata di tre giorni di full immersion (diciamo l’aperitivo, o l’antipasto) nel Convento dell’Angelo dei Padri Passionisti, nei pressi di Lucca (per i dettagli, www.montegral.com). Un festival lirico, sinfonico, ma anche di spericolatezze pianistiche a Erl, in Tirolo, per quasi tutto il mese di luglio, che rappresenta il pranzo vero e proprio (per il programma www.tiroler-festpiele.at). Il dessert sarà servito con due settimane di grande sinfonica a Dolbacco, luogo di vacanza preferito da Gustav Mahler, di cui ieri ricorreva il centenario della morte (per il cartellone www.altoadige-festival.it).
L’antipasto in Garfagnana coniuga musica contemporanea (Ligeti, Fedele, Deraco), col “novecento storico” (Faber, Messiaen , Puccini, Catalani), nonché Bach e Beethoven. Si segue un programma preciso: aperitivo nella terrazza del Convento, con vista mozzafiato sulla Garfagnana, passeggiata con accompagnamento d’organo verso la Chiesa, dove hanno luogo i concerti veri e propri, cena nel chiostro e late night music, spesso la contemporaneità. La domenica mattina la celebrazione dell’Eucarestia è accompagnata dalla edizione integrale e filologica (ossia con l’accompagnamento di solo due pianoforti) della Petite Messe Solennelle di Rossini. E’ la quarta edizione di un evento straordinario davvero “fuori dall’ordinario” ( tra la cinquantina circa di festival estivi in Italia). Il programma coniuga musica contemporanea ( Ligeti, Fedele, Deraco), con “novecento storico” (Faber, Messiaen , Puccini, Catalani), nonché con Bach e Beethoven. Vi partecipano un numero limitato di ospiti ma anche spettatori paganti. L’anno scorso venne tra l’altro presentata una mini-opera di Girolamo Deraco, “Ceckinaggio”, garbata presa in giro dei controlli aeroportuali anti-terrorismo. Quest’anno Deraco se la prenderà con la stampa, il suo lavoro si intitola “REDazione”.
A Erl in una bella struttura di oltre mille posti, costruito inizialmente per sacre rappresentazioni organizzate da tutta la comunità locale, sono in programma tre opere di Richard Wagner (Tannhauser, Parsifal e I Maestri Cantori di Norimberga ), unitamente a concerti sinfonici e a musica da camera. A 80 km a sud da Monaco e altrettanti a ovest di Salisburgo, occorre prenotarsi presto, anche in quanto i prezzi sono competitivi. A Dolbacco nelle ultime due settimane di settembre con la musica più intensa di Mahler (“Il Canto della Terra e la Nona Sinfonia”) e una rara esecuzione del requiem di Haydn in memoria di Horatio Nelson, l’eroe della battaglia di Trafalgar. Gli artisti sono giovani: molti hanno iniziato in Garfagnana e oggi spopolano nei teatri di mezza Europa.
(Hans Sachs) 19 mag 2011 16:13
Roma, 19 mag (Il Velino) - Inizia domani in un convento storico appollaiato sulla Garfagnana il festival musicale più lungo e più giovane dell’anno, con cantanti, strumentisti ed anche alcuni autori sono in generale sulla trentina. In effetti, si tratta di tre manifestazioni distinte, accomunate dal fatto di avare lo stesso animatore ed essere finanziate da enti locali per il 20 per cento e per il resto dalla biglietteria e dai privati (grande sponsor la casa discografica austriaca Col-Legno). L’animatore è il direttore d’orchestra Gustav Kuhn, noto in Italia per essere stato tra l’altro direttore artistico all’Opera di Roma, al San Carlo di Napoli e allo Sferisterio di Macerata. Kuhn è stato considerato per anni l’erede di Herbert von Karajan. Le tre tappe della manifestazione sono una prima puntata di tre giorni di full immersion (diciamo l’aperitivo, o l’antipasto) nel Convento dell’Angelo dei Padri Passionisti, nei pressi di Lucca (per i dettagli, www.montegral.com). Un festival lirico, sinfonico, ma anche di spericolatezze pianistiche a Erl, in Tirolo, per quasi tutto il mese di luglio, che rappresenta il pranzo vero e proprio (per il programma www.tiroler-festpiele.at). Il dessert sarà servito con due settimane di grande sinfonica a Dolbacco, luogo di vacanza preferito da Gustav Mahler, di cui ieri ricorreva il centenario della morte (per il cartellone www.altoadige-festival.it).
L’antipasto in Garfagnana coniuga musica contemporanea (Ligeti, Fedele, Deraco), col “novecento storico” (Faber, Messiaen , Puccini, Catalani), nonché Bach e Beethoven. Si segue un programma preciso: aperitivo nella terrazza del Convento, con vista mozzafiato sulla Garfagnana, passeggiata con accompagnamento d’organo verso la Chiesa, dove hanno luogo i concerti veri e propri, cena nel chiostro e late night music, spesso la contemporaneità. La domenica mattina la celebrazione dell’Eucarestia è accompagnata dalla edizione integrale e filologica (ossia con l’accompagnamento di solo due pianoforti) della Petite Messe Solennelle di Rossini. E’ la quarta edizione di un evento straordinario davvero “fuori dall’ordinario” ( tra la cinquantina circa di festival estivi in Italia). Il programma coniuga musica contemporanea ( Ligeti, Fedele, Deraco), con “novecento storico” (Faber, Messiaen , Puccini, Catalani), nonché con Bach e Beethoven. Vi partecipano un numero limitato di ospiti ma anche spettatori paganti. L’anno scorso venne tra l’altro presentata una mini-opera di Girolamo Deraco, “Ceckinaggio”, garbata presa in giro dei controlli aeroportuali anti-terrorismo. Quest’anno Deraco se la prenderà con la stampa, il suo lavoro si intitola “REDazione”.
A Erl in una bella struttura di oltre mille posti, costruito inizialmente per sacre rappresentazioni organizzate da tutta la comunità locale, sono in programma tre opere di Richard Wagner (Tannhauser, Parsifal e I Maestri Cantori di Norimberga ), unitamente a concerti sinfonici e a musica da camera. A 80 km a sud da Monaco e altrettanti a ovest di Salisburgo, occorre prenotarsi presto, anche in quanto i prezzi sono competitivi. A Dolbacco nelle ultime due settimane di settembre con la musica più intensa di Mahler (“Il Canto della Terra e la Nona Sinfonia”) e una rara esecuzione del requiem di Haydn in memoria di Horatio Nelson, l’eroe della battaglia di Trafalgar. Gli artisti sono giovani: molti hanno iniziato in Garfagnana e oggi spopolano nei teatri di mezza Europa.
(Hans Sachs) 19 mag 2011 16:13
Perché la mafia cinese si è innamorata di Roma? Il Sussidiario 19 maggio
1. Perché la mafia cinese si è innamorata di Roma?
Giuseppe Pennisi
giovedì 19 maggio 2011
Materiale cinese sequestrato (Imagoeconomica)
Approfondisci
BENJAMIN BRITTEN/ Il "War Requiem" e l'inutile strage
SCENARIO/ C'è un dilemma tedesco che condiziona l'Europa
Il rapporto dell’Osservatorio sulla criminalità del Cnel conclude che Roma è la capitale della contraffazione cinese in Italia (ma in altre Province e città si addensa il crimine violento delle gang provenienti dalla Cina). In sintesi. mentre fino ai primi anni del 2000, spiega l’Osservatorio del Cnel, il fenomeno era di modeste dimensioni, oggi costituisce il principale business della criminalità cinese, a cui prendono parte esponenti delle organizzazioni mafiose italiane. Tale attività ha in gran parte soppiantato le forme di accumulazione illecite del recente passato, che gravitavano intorno alla gestione dell'immigrazione clandestina. Che a livello nazionale resta, però, il reato più diffuso fra i cittadini cinesi residenti nel nostro Paese. I dati essenziali sono stati diffusi il 18 maggio in occasione della presentazione del documento Cnel, alla presenza del Ministro dell’Interno Roberto Maroni i quale ha sottolineato che "la capacità di infiltrare il tessuto economico italiano" delle organizzazioni criminali cinesi "è fortissima, pari a quella della 'ndrangheta, con rischi molto elevati" "Il fenomeno dell'immigrazione cinese ha avuto un aumento notevole - ha proseguito Maroni - I cittadini regolarmente residenti in Italia nel 1980 erano qualche centinaio, ora sono circa 200mila. I cinesi tendono a rimanere e insediarsi nel territorio, fanno venire qui i loro familiari e creano comunità spesso chiuse con una forte identità, come tante piccole Chinatown. Questo porta a criticità, come quella di via Paolo Sarpi a Milano".
Più che tornare sui dati già pubblicati, od in corso di pubblicazione , è interessante scavare nelle determinanti che fanno Roma e le zone limitrofe il centro della contraffazione cinese in Italia.
Una statistica è eloquente: la locazione mensile di un capannone industriale di circa mille metri quadrati va da 10.000 a 20.000 euro nella capitale mentre a Milano è attorno ai 6.000 euro ed a Prato tra i 2.500-3.000. Segno evidente del maggior valore aggiunto nella capitale che nel Nord. E’ utile che ricordare che si tratta di “mafia minore”, non a rami della grande Triade che opera nel mondo della droga, della finanza e del crimine organizzato alla grande. Pur se “minore” non solamente è elemento di concorrenza scorretta (oltre che illegale) nei confronti piccole e medie imprese e di “distretti industriali” a ragione della “specializzazione produttiva”della contraffazione ma inquina la società: nel 2010, -documenta il rapporto Cnel - la Guardia di Finanza ha sequestrato circa 110 milioni di prodotti falsi "made in China", soprattutto giocattoli, capi d'abbigliamento, accessori e beni di consumo. Un indicatore che esemplifica la rilevanza del fenomeno è il prezzo d'affitto per metro quadrato dei capannoni lungo la Casilina e la Prenestina, dove viene momentaneamente allocata la merce sdoganata dai porti di Napoli e di Civitavecchia, in attesa di entrare nel circuito della distribuzione commerciale. La prima determinante che porta a Roma il “tarocco cinese” è di lungo periodo. Roma ed il suo hinterland sono stati caratterizzati per secoli da “Soft Government”. Nel’Ottocento, la burocrazia dello Stato Pontificio veniva considerata tra le più “oliabili” di Roma : lo dimostrano indirettamente le decine di sonetti del Belli dedicati al fenomeno e come l’editore Ricordi riuscisse a ottenere il visto di censura fare rappresentare al Teatro Apollo a Tor di Roma opere di Verdi (come “Un Ballo in Maschera) vietate in tutta Europa.
Pio IX tento di rimediare almeno in parte a questi problemi e nominò, a questo scopo, Pellegrino Rossi Primo Ministro dello Stato. Ma, come è noto, il povero Pellegrino Rossi venne accoltellato sulle scale del Palazzo della Cancelleria il 15 novembre 1848. Forze molte profonde si opponevano al miglioramento. Ancora oggi, Roma è caratterizzata da “Soft Government” : lo dimostrano episodi piccoli (il caos del parcheggio abusivo e dei marciapiedi occupati da tavolini anche essi abusivi, gli scandali dei servizi pubblici, i piccoli Madoff dei quartieri alti). Il premio Nobel Douglas C. North ha dimostrato che “history does matter”, il percorso storico su cui camminiamo conta. Robert Putman, dell’Università di Harvard, distinto e distante , quindi, dalle nostre beghe, ha dimostrato, al termine di uno studio empirico durato un quarto di secolo, che Roma ed il Lazio sono più “porosi” del resto d’Italia (anche se amministrati meglio di molto altre Regioni). I cinesi del “tarocco” lo sanno; fanno un semplice calcolo delle probabilità e concludono che a Roma e dintorni è più difficile essere “beccati” e “sanzionati”.
Inoltre, l’agglomerato urbano è cresciuto da 250.000 persone (quando i bersaglieri attraversano Porta Pia) ad oltre quattro milioni. In una crescita tanto rapida, il “capitale sociale” (ed il “controllo sociale” che comporta) si diluisce sino a sparire. Quindi a determinanti antiche se ne sono aggiunte nuove con cui chiunque abbia il mandato di governare su Regione, Provincia e Città ha bel da fare a contrastare e contenere.
Infine, la logistica: lo stesso documento Cnel dimostra come i porti del Tirreno vengono considerati approdi più facili di quelli dell’Adriatico.
© Riproduzione Riservata.
Giuseppe Pennisi
giovedì 19 maggio 2011
Materiale cinese sequestrato (Imagoeconomica)
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BENJAMIN BRITTEN/ Il "War Requiem" e l'inutile strage
SCENARIO/ C'è un dilemma tedesco che condiziona l'Europa
Il rapporto dell’Osservatorio sulla criminalità del Cnel conclude che Roma è la capitale della contraffazione cinese in Italia (ma in altre Province e città si addensa il crimine violento delle gang provenienti dalla Cina). In sintesi. mentre fino ai primi anni del 2000, spiega l’Osservatorio del Cnel, il fenomeno era di modeste dimensioni, oggi costituisce il principale business della criminalità cinese, a cui prendono parte esponenti delle organizzazioni mafiose italiane. Tale attività ha in gran parte soppiantato le forme di accumulazione illecite del recente passato, che gravitavano intorno alla gestione dell'immigrazione clandestina. Che a livello nazionale resta, però, il reato più diffuso fra i cittadini cinesi residenti nel nostro Paese. I dati essenziali sono stati diffusi il 18 maggio in occasione della presentazione del documento Cnel, alla presenza del Ministro dell’Interno Roberto Maroni i quale ha sottolineato che "la capacità di infiltrare il tessuto economico italiano" delle organizzazioni criminali cinesi "è fortissima, pari a quella della 'ndrangheta, con rischi molto elevati" "Il fenomeno dell'immigrazione cinese ha avuto un aumento notevole - ha proseguito Maroni - I cittadini regolarmente residenti in Italia nel 1980 erano qualche centinaio, ora sono circa 200mila. I cinesi tendono a rimanere e insediarsi nel territorio, fanno venire qui i loro familiari e creano comunità spesso chiuse con una forte identità, come tante piccole Chinatown. Questo porta a criticità, come quella di via Paolo Sarpi a Milano".
Più che tornare sui dati già pubblicati, od in corso di pubblicazione , è interessante scavare nelle determinanti che fanno Roma e le zone limitrofe il centro della contraffazione cinese in Italia.
Una statistica è eloquente: la locazione mensile di un capannone industriale di circa mille metri quadrati va da 10.000 a 20.000 euro nella capitale mentre a Milano è attorno ai 6.000 euro ed a Prato tra i 2.500-3.000. Segno evidente del maggior valore aggiunto nella capitale che nel Nord. E’ utile che ricordare che si tratta di “mafia minore”, non a rami della grande Triade che opera nel mondo della droga, della finanza e del crimine organizzato alla grande. Pur se “minore” non solamente è elemento di concorrenza scorretta (oltre che illegale) nei confronti piccole e medie imprese e di “distretti industriali” a ragione della “specializzazione produttiva”della contraffazione ma inquina la società: nel 2010, -documenta il rapporto Cnel - la Guardia di Finanza ha sequestrato circa 110 milioni di prodotti falsi "made in China", soprattutto giocattoli, capi d'abbigliamento, accessori e beni di consumo. Un indicatore che esemplifica la rilevanza del fenomeno è il prezzo d'affitto per metro quadrato dei capannoni lungo la Casilina e la Prenestina, dove viene momentaneamente allocata la merce sdoganata dai porti di Napoli e di Civitavecchia, in attesa di entrare nel circuito della distribuzione commerciale. La prima determinante che porta a Roma il “tarocco cinese” è di lungo periodo. Roma ed il suo hinterland sono stati caratterizzati per secoli da “Soft Government”. Nel’Ottocento, la burocrazia dello Stato Pontificio veniva considerata tra le più “oliabili” di Roma : lo dimostrano indirettamente le decine di sonetti del Belli dedicati al fenomeno e come l’editore Ricordi riuscisse a ottenere il visto di censura fare rappresentare al Teatro Apollo a Tor di Roma opere di Verdi (come “Un Ballo in Maschera) vietate in tutta Europa.
Pio IX tento di rimediare almeno in parte a questi problemi e nominò, a questo scopo, Pellegrino Rossi Primo Ministro dello Stato. Ma, come è noto, il povero Pellegrino Rossi venne accoltellato sulle scale del Palazzo della Cancelleria il 15 novembre 1848. Forze molte profonde si opponevano al miglioramento. Ancora oggi, Roma è caratterizzata da “Soft Government” : lo dimostrano episodi piccoli (il caos del parcheggio abusivo e dei marciapiedi occupati da tavolini anche essi abusivi, gli scandali dei servizi pubblici, i piccoli Madoff dei quartieri alti). Il premio Nobel Douglas C. North ha dimostrato che “history does matter”, il percorso storico su cui camminiamo conta. Robert Putman, dell’Università di Harvard, distinto e distante , quindi, dalle nostre beghe, ha dimostrato, al termine di uno studio empirico durato un quarto di secolo, che Roma ed il Lazio sono più “porosi” del resto d’Italia (anche se amministrati meglio di molto altre Regioni). I cinesi del “tarocco” lo sanno; fanno un semplice calcolo delle probabilità e concludono che a Roma e dintorni è più difficile essere “beccati” e “sanzionati”.
Inoltre, l’agglomerato urbano è cresciuto da 250.000 persone (quando i bersaglieri attraversano Porta Pia) ad oltre quattro milioni. In una crescita tanto rapida, il “capitale sociale” (ed il “controllo sociale” che comporta) si diluisce sino a sparire. Quindi a determinanti antiche se ne sono aggiunte nuove con cui chiunque abbia il mandato di governare su Regione, Provincia e Città ha bel da fare a contrastare e contenere.
Infine, la logistica: lo stesso documento Cnel dimostra come i porti del Tirreno vengono considerati approdi più facili di quelli dell’Adriatico.
© Riproduzione Riservata.
martedì 17 maggio 2011
C'è un dilemma tedesco che condiziona l'Europa Il Sussidiario 18 maggio
SCENARIO/ C'è un dilemma tedesco che condiziona l'Europa
Giuseppe Pennisi
mercoledì 18 maggio 2011
Angela Merkel (Foto Ansa)
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FINANZA/ Gli Usa preparano un nuovo “attacco” all’Europa, di M. Bottarelli
SCENARIO/ C’è un "euro" che lascia l’Europa in crisi, di S. Cingolani
vai al dossier Crisi o ripresa?
La ripresa dell'economia europea continua ed è leggermente migliore delle attese, anche se ci sono nuovi rischi all'orizzonte, a partire dall'inflazione legata all'aumento dei prezzi delle materie prime. Secondo le previsioni di primavera pubblicate venerdì 13 maggio dalla Commissione europea, l'Eurozona dovrebbe crescere dell'1,6% per quest'anno e dell'1, 8% l'anno prossimo. E sebbene il Pil dell'Italia si annunci più debole di quello degli altri grandi paesi europei e di quanto previsto a novembre, con l'l% per quest'anno e 1'1,3% per l`anno prossimo (contro l'l,l% e 1'1,4% stimati precedentemente), il governo è sulla «strada giusta», ma deve proseguire la sua politica di rigore, attuando anche «riforme più ampie» per dare slancio alla crescita.
È quanto ha dichiarato il Commissario europeo per gli Affari economici, Olli Rehn, presentando il documento, da cui emerge un miglioramento del deficit italiano, al 4% per il 2011 e al 3,2% per il 2012, contro il 4,3% e il 3,5% delle stime di novembre. Mentre il debito, dopo un aumento al 120,3%, scenderà al 119,8% l'anno prossimo. «Durante la crisi, l'Italia ha adottato una politica di bilancio molto prudente, e quindi il deficit non è cresciuto quanto in altri paesi: questo ha avuto un impatto sul debito», ha ammesso Rehn, secondo cui adesso «c'è bisogno di un consolidamento della politica di bilancio e delle finanze pubbliche: la combinazione di questi due fattori consentirà all'Italia di superare sfide formidabili».
Il ministro del Tesoro, Giulio Tremonti, ha sottolineato come «quello che in questi tre anni molto difficili ha fatto il governo non è stato solo mantenere in ordine i conti pubblici, ma tenere il bilancio della Repubblica italiana» e ha riconosciuto che occorre «fare di più» per colmare il divario di crescita rispetto ad altri paesi come la Germania, che nel 2011 avanzerà del 2,6%, riconfermando il suo ruolo di locomotiva d`Europa. L’“eccezione tedesca” (rispetto al resto del continente vecchio) - occorre chiedersi -dipendesoltanto dalla capacità di esportare (un attivo della bilancia commerciale di 200 miliardi di dollari, pari al 5% del Pil negli ultimi 12 mesi) specialmente verso l’Est e i nuovi Paesi ad alta crescita? Ma, pur se così fosse, quali sono le determinanti sottostanti la spinta dell’export?
Alcune sono di lungo periodo: negli anni Sessanta le hanno individuate con cura due economisti - uno americano, Charles Kindleberger, e uno ungherese, Ferenc Janossy - che non si sono mai incontrati e appartenevano a scuole di pensiero contrapposte (Janossy era rigorosamente marxista). La Repubblica federale ha una dotazione ricchissima di risorse umane molto competenti, molto flessibili (un accordo analogo a quelli di Pomigliano e Mirafiori è stato fatto alla Volkswagen circa 20 anni fa), propense al risparmio, contenute nei consumi (nel cui ambito preferiscono quelli culturali - grandi lettori di libri e giornali e frequentatori di sale di concerto e teatri- tali da arricchire ulteriormente).
Altre sono relativamente più recenti e riguardano l’economia reale più che i conti pubblici (la cui tenuta, comunque, non fa affatto male). La più importante concerne la ristrutturazione della “catena del valore” (ossia come ci si organizza per aumentare il valore di ciò che si produce) avvenuta negli ultimi 20 anni (l’accordo Volkswagen può essere preso come spartiacque): mentre Francia, Italia, Spagna e altri scorporavano i servizi dal manifatturiero (tramite varie forme di outsourcing), in Germania le imprese accentuavano l’integrazione dei servizi nel manifatturiero. Strategia che è risultata vincente e ha permesso sia economie di scala, sia internazionalizzazione di esternalità tecnologiche, mentre sovente l’outsourcing ha spesso portato i servizi scorporati nel labirinto poco efficiente della regolazione di competenza di enti locali.
Il processo è descritto con cura nel Rapporto su ricerca, innovazione e andamento tecnologico in Germania, pubblicato l’autunno scorso dal Politecnico di Monaco di Baviera. In breve, come confermato da un lavoro appena pubblicato dalla Fondazione Adenauer e dalla Fondazione Fare Futuro, un aspestto dell’“economia sociale di mercato” lo avevamo anche noi (l’integrazione tra manifatturiero e servizi), ma vi abbiamo rinunciato mentre la Repubblica Federale Tedesca lo ha intensificato.
Altro elemento importante: le medie imprese. Prevale la meccanica, che genera il 46% dei ricavi complessivi del comparto; circa il 43% del fatturato proviene da quelle che operano nella fascia alta e medio-alta della tecnologia, contro il 30% in Italia e il 27% in Spagna; soprattutto hanno ampliato gradualmente le loro dimensioni, tramite fusioni e acquisizioni, nell’ultimo quarto di secolo per fare fronte a vincoli di liquidità e difficoltà di crescita del capitale umano (due caratteristiche di aziende troppo piccole). Da noi le imprese restano lillipuziane pure a ragione di incentivi perversi (sulle dimensioni aziendali) provenienti dalla legislazione lavoristica.
In breve, la Germania di Angela Merkel ha lo stesso dilemma della Germania di Bismarck: è così grande nell’Ue e, a maggior ragione nell’Eurozona, che un suo starnuto causa la polmonite ai vicini; non è abbastanza grande da potersi prendere cura dei problemi di tutti (specialmente di quelli che avendo razzolato come cicale sono carichi di debiti e hanno difficoltà a onorarli).
© Riproduzione Riservata.
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Giuseppe Pennisi
mercoledì 18 maggio 2011
Angela Merkel (Foto Ansa)
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FINANZA/ Gli Usa preparano un nuovo “attacco” all’Europa, di M. Bottarelli
SCENARIO/ C’è un "euro" che lascia l’Europa in crisi, di S. Cingolani
vai al dossier Crisi o ripresa?
La ripresa dell'economia europea continua ed è leggermente migliore delle attese, anche se ci sono nuovi rischi all'orizzonte, a partire dall'inflazione legata all'aumento dei prezzi delle materie prime. Secondo le previsioni di primavera pubblicate venerdì 13 maggio dalla Commissione europea, l'Eurozona dovrebbe crescere dell'1,6% per quest'anno e dell'1, 8% l'anno prossimo. E sebbene il Pil dell'Italia si annunci più debole di quello degli altri grandi paesi europei e di quanto previsto a novembre, con l'l% per quest'anno e 1'1,3% per l`anno prossimo (contro l'l,l% e 1'1,4% stimati precedentemente), il governo è sulla «strada giusta», ma deve proseguire la sua politica di rigore, attuando anche «riforme più ampie» per dare slancio alla crescita.
È quanto ha dichiarato il Commissario europeo per gli Affari economici, Olli Rehn, presentando il documento, da cui emerge un miglioramento del deficit italiano, al 4% per il 2011 e al 3,2% per il 2012, contro il 4,3% e il 3,5% delle stime di novembre. Mentre il debito, dopo un aumento al 120,3%, scenderà al 119,8% l'anno prossimo. «Durante la crisi, l'Italia ha adottato una politica di bilancio molto prudente, e quindi il deficit non è cresciuto quanto in altri paesi: questo ha avuto un impatto sul debito», ha ammesso Rehn, secondo cui adesso «c'è bisogno di un consolidamento della politica di bilancio e delle finanze pubbliche: la combinazione di questi due fattori consentirà all'Italia di superare sfide formidabili».
Il ministro del Tesoro, Giulio Tremonti, ha sottolineato come «quello che in questi tre anni molto difficili ha fatto il governo non è stato solo mantenere in ordine i conti pubblici, ma tenere il bilancio della Repubblica italiana» e ha riconosciuto che occorre «fare di più» per colmare il divario di crescita rispetto ad altri paesi come la Germania, che nel 2011 avanzerà del 2,6%, riconfermando il suo ruolo di locomotiva d`Europa. L’“eccezione tedesca” (rispetto al resto del continente vecchio) - occorre chiedersi -dipendesoltanto dalla capacità di esportare (un attivo della bilancia commerciale di 200 miliardi di dollari, pari al 5% del Pil negli ultimi 12 mesi) specialmente verso l’Est e i nuovi Paesi ad alta crescita? Ma, pur se così fosse, quali sono le determinanti sottostanti la spinta dell’export?
Alcune sono di lungo periodo: negli anni Sessanta le hanno individuate con cura due economisti - uno americano, Charles Kindleberger, e uno ungherese, Ferenc Janossy - che non si sono mai incontrati e appartenevano a scuole di pensiero contrapposte (Janossy era rigorosamente marxista). La Repubblica federale ha una dotazione ricchissima di risorse umane molto competenti, molto flessibili (un accordo analogo a quelli di Pomigliano e Mirafiori è stato fatto alla Volkswagen circa 20 anni fa), propense al risparmio, contenute nei consumi (nel cui ambito preferiscono quelli culturali - grandi lettori di libri e giornali e frequentatori di sale di concerto e teatri- tali da arricchire ulteriormente).
Altre sono relativamente più recenti e riguardano l’economia reale più che i conti pubblici (la cui tenuta, comunque, non fa affatto male). La più importante concerne la ristrutturazione della “catena del valore” (ossia come ci si organizza per aumentare il valore di ciò che si produce) avvenuta negli ultimi 20 anni (l’accordo Volkswagen può essere preso come spartiacque): mentre Francia, Italia, Spagna e altri scorporavano i servizi dal manifatturiero (tramite varie forme di outsourcing), in Germania le imprese accentuavano l’integrazione dei servizi nel manifatturiero. Strategia che è risultata vincente e ha permesso sia economie di scala, sia internazionalizzazione di esternalità tecnologiche, mentre sovente l’outsourcing ha spesso portato i servizi scorporati nel labirinto poco efficiente della regolazione di competenza di enti locali.
Il processo è descritto con cura nel Rapporto su ricerca, innovazione e andamento tecnologico in Germania, pubblicato l’autunno scorso dal Politecnico di Monaco di Baviera. In breve, come confermato da un lavoro appena pubblicato dalla Fondazione Adenauer e dalla Fondazione Fare Futuro, un aspestto dell’“economia sociale di mercato” lo avevamo anche noi (l’integrazione tra manifatturiero e servizi), ma vi abbiamo rinunciato mentre la Repubblica Federale Tedesca lo ha intensificato.
Altro elemento importante: le medie imprese. Prevale la meccanica, che genera il 46% dei ricavi complessivi del comparto; circa il 43% del fatturato proviene da quelle che operano nella fascia alta e medio-alta della tecnologia, contro il 30% in Italia e il 27% in Spagna; soprattutto hanno ampliato gradualmente le loro dimensioni, tramite fusioni e acquisizioni, nell’ultimo quarto di secolo per fare fronte a vincoli di liquidità e difficoltà di crescita del capitale umano (due caratteristiche di aziende troppo piccole). Da noi le imprese restano lillipuziane pure a ragione di incentivi perversi (sulle dimensioni aziendali) provenienti dalla legislazione lavoristica.
In breve, la Germania di Angela Merkel ha lo stesso dilemma della Germania di Bismarck: è così grande nell’Ue e, a maggior ragione nell’Eurozona, che un suo starnuto causa la polmonite ai vicini; non è abbastanza grande da potersi prendere cura dei problemi di tutti (specialmente di quelli che avendo razzolato come cicale sono carichi di debiti e hanno difficoltà a onorarli).
© Riproduzione Riservata.
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Il "War Requiem" e l'inutile strage Il Sussidiario 18 maggio
BENJAMIN BRITTEN/ Il "War Requiem" e l'inutile strage
Giuseppe Pennisi
mercoledì 18 maggio 2011
Semyon Bichkov (Ansa)
Approfondisci
VERDI/ Tre ottimi motivi per gustarsi la passione rivoluzionaria dell'Ernani a Bologna
PAGELLE/ Quei bei voti dell'Ocse che bocciano l'Italia
C’è una differenza tra “pacificatori” e “pacifisti”? Credo di sì, soprattutto in quanto il termine “pacifista” è spesso stato utilizzato a senso unico - ossia con il significato che implicava una scelta di schieramento politico avversaria a quella dell’Occidenrte. Ricordiamo che fu proprio Giuseppe Stalin a inventarsi “i partigiani della pace” e che sono stati chiamati “pacifisti” coloro che, ad esempio, alla metà degli Anni Cinquanta erano ben lieti che la Corea del Nord, allora industrializzata e ricca di risorse idrauliche e minerali, si mangiasse con un boccone solo la Corea del Sud. Se al termine “pacifista” è stata data, per decenni, una connotazione differente da quella che si dà al termine “pacificatore”, Benjamin Britten deve essere considerato l’uno o l’altro? E’ una domanda che va posta all’indomani dell’esecuzione all’Accademia di Santa Cecilia con il magnifico “War Requiem” di Benjamin Britten , concertato con precisione e passione da Semyon Bichkov.
Britten aveva lasciato la Gran Bretagna alla volta del Canada e degli Stati Uniti. Aveva 25 anni, un’età in cui sarebbe potuto essere richiamato in guerra in caso di conflitto; e le ostilità sarebbero scoppiate solo quattro mesi più tardi. Era una fuga per “pacifismo”? O c’erano anche altre ragioni? Senza dubbio, Britten non era a suo agio in un’Europa dove stava per iniziare quella che sarebbe stata la seconda guerra mondiale. E’ un lavoro “pacificatore” Per Britten, la guerra è l’ “inutile strage” lamentata da Benedetto XV; per questo motivo termina con un duetto delicatissimo tra i due belligeranti che si sono uccisi a vicenda, senza sapere il perché, e anelano solamente a dormire mentre il coro di fanciulli invoca il “requiescant in pace”.
L’esecuzione è stata di altissimo livello. Bichkov, al pari di Antonio Pappano, ha chiaramente una preferenza per l’opera e ha trattato il lavoro come un vasto oratorio drammatico sin dalla disposizione stessa dell’organico: il coro di voci bianche degli angeli (supportato da un organo) in alto (quasi nascosto dall’ultimo ordine di galleria), la grande orchestra, il doppio coro (la comunità dei fedeli) e il soprano (protagonisti della Messa in latino) dispiegati sul palcoscenico, e il piccolo ensemble da camera (principalmente percussioni) con il tenore e il baritono quasi in trincea accanto al concertatore. Oltre a un effetto musicali stereofonico ed a più livelli, ciò comporta anche un grande effetto scenico. L’orchestra e i cori (anche quello di bambini) hanno mostrato tutte le loro qualità e capacità. Bichkov è, però, meno sanguigno, più delicato di Pappano che anni fa proprio con il “War Requiem” di Britten inaugurò una stagione dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Tra i solisti si distingue Andrew Staples, un bari-tenore dal timbro molto simile a quello di Peter Pears. Marina Poplavskaya dà un taglio quasi straussiano o wagneriano al suo ruolo. Bravo come sempre Dietrich Henschel.
© Riproduzione Riservata.
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Giuseppe Pennisi
mercoledì 18 maggio 2011
Semyon Bichkov (Ansa)
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VERDI/ Tre ottimi motivi per gustarsi la passione rivoluzionaria dell'Ernani a Bologna
PAGELLE/ Quei bei voti dell'Ocse che bocciano l'Italia
C’è una differenza tra “pacificatori” e “pacifisti”? Credo di sì, soprattutto in quanto il termine “pacifista” è spesso stato utilizzato a senso unico - ossia con il significato che implicava una scelta di schieramento politico avversaria a quella dell’Occidenrte. Ricordiamo che fu proprio Giuseppe Stalin a inventarsi “i partigiani della pace” e che sono stati chiamati “pacifisti” coloro che, ad esempio, alla metà degli Anni Cinquanta erano ben lieti che la Corea del Nord, allora industrializzata e ricca di risorse idrauliche e minerali, si mangiasse con un boccone solo la Corea del Sud. Se al termine “pacifista” è stata data, per decenni, una connotazione differente da quella che si dà al termine “pacificatore”, Benjamin Britten deve essere considerato l’uno o l’altro? E’ una domanda che va posta all’indomani dell’esecuzione all’Accademia di Santa Cecilia con il magnifico “War Requiem” di Benjamin Britten , concertato con precisione e passione da Semyon Bichkov.
Britten aveva lasciato la Gran Bretagna alla volta del Canada e degli Stati Uniti. Aveva 25 anni, un’età in cui sarebbe potuto essere richiamato in guerra in caso di conflitto; e le ostilità sarebbero scoppiate solo quattro mesi più tardi. Era una fuga per “pacifismo”? O c’erano anche altre ragioni? Senza dubbio, Britten non era a suo agio in un’Europa dove stava per iniziare quella che sarebbe stata la seconda guerra mondiale. E’ un lavoro “pacificatore” Per Britten, la guerra è l’ “inutile strage” lamentata da Benedetto XV; per questo motivo termina con un duetto delicatissimo tra i due belligeranti che si sono uccisi a vicenda, senza sapere il perché, e anelano solamente a dormire mentre il coro di fanciulli invoca il “requiescant in pace”.
L’esecuzione è stata di altissimo livello. Bichkov, al pari di Antonio Pappano, ha chiaramente una preferenza per l’opera e ha trattato il lavoro come un vasto oratorio drammatico sin dalla disposizione stessa dell’organico: il coro di voci bianche degli angeli (supportato da un organo) in alto (quasi nascosto dall’ultimo ordine di galleria), la grande orchestra, il doppio coro (la comunità dei fedeli) e il soprano (protagonisti della Messa in latino) dispiegati sul palcoscenico, e il piccolo ensemble da camera (principalmente percussioni) con il tenore e il baritono quasi in trincea accanto al concertatore. Oltre a un effetto musicali stereofonico ed a più livelli, ciò comporta anche un grande effetto scenico. L’orchestra e i cori (anche quello di bambini) hanno mostrato tutte le loro qualità e capacità. Bichkov è, però, meno sanguigno, più delicato di Pappano che anni fa proprio con il “War Requiem” di Britten inaugurò una stagione dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Tra i solisti si distingue Andrew Staples, un bari-tenore dal timbro molto simile a quello di Peter Pears. Marina Poplavskaya dà un taglio quasi straussiano o wagneriano al suo ruolo. Bravo come sempre Dietrich Henschel.
© Riproduzione Riservata.
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Il San Carlo si riscatta co I Vespri Avvenire 17 maggio
IL SAN CARLO SI RISCATTA COI VESPRI
Giuseppe Pennisi
Al termine di una “stagione” con pochi titoli e poche alzate di sipario (ne è stata annunciata una nuova molto densa) , Les Vêpres Siciliennes rappresenta il segno della vera svolta che sta effettuando il San Carlo di Napoli dopo anni di difficoltà. Il debutto è stato il 15 maggio e si replica sino al 24 In primo luogo, è una coraggiosa “prima esecuzione” italiana del “grand opéra” che debuttò a Parigi nel giugno 1853. Ed è quale lo volle Verdi. Non si possono considerare tali né le varie versioni de I Vespri Siciliani (perché mal tradotte in italiano e tagliate di gran parte del terzo atto) né la stessa edizione in francese proposta a Roma nel 1997 che travisava lo spirito del lavoro dandogli un inopinabile taglio risorgimentale (per un opera commissionata dal Teatro Imperiale di Napoleone III ad un prezzo di favola). In secondo luogo, viene ri-utilizzato un felice impianto scenico-registico (Joël-Frigerio-Squarciapino) in cui con pochi elementi si rievoca la Sicilia medioevale-bizantina; a costi contenuti, quindi, uno spettacolo da colossal hollywoodiano. In terzo luogo, la produzione mette l’accento su quello che il nucleo essenziale del lavoro - il complicato rapporto tra padre e figlio (tema dominante della poetica verdiana)- in un contesto in cui la brama di vendetta distrugge l’accordo di pace raggiunto grazie alla Provvidenza; in questo quadro, Giovanni da Procida (spesso rappresentato come un mazziniano) diventa, come inteso da Verdi, il personaggio negativo che innesca la catastrofe proprio mentre si era alle soglie del lieto fine.
Sotto il profilo musicale, la concertazione di Gianluigi Gelmetti (che dirige senza spartito) raggiunge un buon equilibrio tra i momenti dove prevale l’azione (in cui accentua i ritmi) e quelli più riflessivi (dove dilata i tempi). L’orchestra del San Carlo ha compiuto notevoli progressi , specialmente nei gruppi degli ottoni e dei fiati. Tra le voci, spicca il trio dei protagonisti maschili, Gregory Kunde, Dario Solari e Orlin Anastassov, mentre il piccolo volume di Alexandrina Pendatchanska ne disperde la delicata emissione nella grande sala del San Carlo.
Giuseppe Pennisi
Al termine di una “stagione” con pochi titoli e poche alzate di sipario (ne è stata annunciata una nuova molto densa) , Les Vêpres Siciliennes rappresenta il segno della vera svolta che sta effettuando il San Carlo di Napoli dopo anni di difficoltà. Il debutto è stato il 15 maggio e si replica sino al 24 In primo luogo, è una coraggiosa “prima esecuzione” italiana del “grand opéra” che debuttò a Parigi nel giugno 1853. Ed è quale lo volle Verdi. Non si possono considerare tali né le varie versioni de I Vespri Siciliani (perché mal tradotte in italiano e tagliate di gran parte del terzo atto) né la stessa edizione in francese proposta a Roma nel 1997 che travisava lo spirito del lavoro dandogli un inopinabile taglio risorgimentale (per un opera commissionata dal Teatro Imperiale di Napoleone III ad un prezzo di favola). In secondo luogo, viene ri-utilizzato un felice impianto scenico-registico (Joël-Frigerio-Squarciapino) in cui con pochi elementi si rievoca la Sicilia medioevale-bizantina; a costi contenuti, quindi, uno spettacolo da colossal hollywoodiano. In terzo luogo, la produzione mette l’accento su quello che il nucleo essenziale del lavoro - il complicato rapporto tra padre e figlio (tema dominante della poetica verdiana)- in un contesto in cui la brama di vendetta distrugge l’accordo di pace raggiunto grazie alla Provvidenza; in questo quadro, Giovanni da Procida (spesso rappresentato come un mazziniano) diventa, come inteso da Verdi, il personaggio negativo che innesca la catastrofe proprio mentre si era alle soglie del lieto fine.
Sotto il profilo musicale, la concertazione di Gianluigi Gelmetti (che dirige senza spartito) raggiunge un buon equilibrio tra i momenti dove prevale l’azione (in cui accentua i ritmi) e quelli più riflessivi (dove dilata i tempi). L’orchestra del San Carlo ha compiuto notevoli progressi , specialmente nei gruppi degli ottoni e dei fiati. Tra le voci, spicca il trio dei protagonisti maschili, Gregory Kunde, Dario Solari e Orlin Anastassov, mentre il piccolo volume di Alexandrina Pendatchanska ne disperde la delicata emissione nella grande sala del San Carlo.
AL FONDO CANDIDATURE “EMERGENTI” Avvenire 17 maggio
AL FONDO CANDIDATURE “EMERGENTI”
Giuseppe Pennisi
Alla diciannovesima strada di Washington dove ha sede, il Fondo monetario internazionale (Fmi) , nel caos successivo all’arresto del Managing Director (la carica più importante dell’istituzione) Domique Strauss-Kahn (DSK nell’acronimo coniato in Francia quando era potentissimo Ministro dell’Economia e delle Finanze, c’è un’unica certezza: l’Europa perderà una carica che tiene dal 1944 in base ad un accordo informale (ma cogentissimo ed osservatissimo) stretto alla conferenza di Bretton Woods. Allora la delegazione americana e quella europea conclusero un patto (formalizzato in una lettera tra i capi delegazioni): il Presidente della Banca Mondiale sarebbe stato un cittadino degli Usa e il Managing Director del Fmi uno dell’Europa occidentale. All’epoca c’erano ragioni valide. Il nodo centrale del primo nucleo del Gruppo Banca Mondiale (che oggi comprende 5 differenti istituzioni ma allora era composto unicamente dalla Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo) sarebbe stato quello di reperire sul mercato capitali per la ricostruzione del Vecchio Continente e del Giappone. L’unica piazza esistente per fornirli era, allora, Wall Street, che avrebbe avuto fiducia soprattutto in un americano. Di contro, il tema principale all’ordine del giorno in Europa era il ritorno alla convertibilità; soltanto un europeo autorevole avrebbe potuto fare da apripista.
Da allora molta acqua è passata sotto le acque del Potomac , il fiume che traversa Washington. Gli Stati membri del Fmi , e della Banca mondiale, non sono più una quarantina come nel 1944 ma circa 190. I rapporti di forza tra aree geografiche sono cambiati. In particolare, il gruppo BRICs (Brasile, Russia, India, Cina) chiede da anni con insistenza di avere uno dei seggi più alti , o al Fmi o alla Banca mondiale (in pratica, quello che si libera prima). In effetti da anni è in atto un graduale riassetto delle “quote” (ossia partecipazione nel capitale) e voti. L’Europa detiene, tuttora, il 30% dei voti negli organi decisionali Fmi e cinque nei 24 seggi del Consiglio d’Amministrazione (CdA) che ha compiti esecutivi e si riunisce mediamente tre volte la settimana. L’Europa avrebbe probabilmente avuto la probabilità di continuare ad essere, per così dire, “l’azionista di riferimento” del Fmi (con il 30% dei voti lo si può ampiamente essere) se le ambizioni nazionali (specialmente di Francia, Germania e Gran Bretagna) fossero state disposte a fare un passo indietro e si fosse creato un seggio (a rotazione) per l’Unione Europea o per l’eurozona. Oppure se si fossero attuate procedure minimali di coordinamento tra gli europei del CdA del Fondo. Spesso assumono posizioni divergenti: ad esempio, per anni alcuni hanno sostenuto l’esigenza di interventi per ridurre drasticamente il peso del debito estero sugli Stati più poveri mentre altri hanno argomentato che in tal modo si sarebbe incoraggiato chi ha razzolato male a razzolare ancora peggio. In aggiunta, avviene spesso che il rappresentante di uno Stato europeo, o di un gruppo di Stati europei, al CdA del Fmi prenda una posizione differente (su problemi simili) da quelli del suo connazionale alla Banca mondiale (la cui sede è dall’altra parte della strada).
Quali che siano gli esiti giudiziari della vicenda che coinvolge DSK, appare certo che il suo vice, l’americano, John Lipski terrà la reggenza per un periodo limitato. Gli europei stanno tentando di coordinarsi per mantenere la poltrona. Pochi scommettono che ce la faranno anche a ragione delle indicazioni di differenze di fondo che stanno mostrando nel Vecchio Continenti su temi come debito sovrano, immigrazione, libertà di circolazione e via discorrendo.
Un anno fa, Avvenire aveva riferito la voce insistente di un patto che il Presidente Usa Obama avrebbe concluso con i BRICs: operarsi perché la guida del Fondo o della Banca vada all’ex Presidente del Brasile, Luiz Inácio Lula da Silva. L’ora pare sia scoccata.
Giuseppe Pennisi
Alla diciannovesima strada di Washington dove ha sede, il Fondo monetario internazionale (Fmi) , nel caos successivo all’arresto del Managing Director (la carica più importante dell’istituzione) Domique Strauss-Kahn (DSK nell’acronimo coniato in Francia quando era potentissimo Ministro dell’Economia e delle Finanze, c’è un’unica certezza: l’Europa perderà una carica che tiene dal 1944 in base ad un accordo informale (ma cogentissimo ed osservatissimo) stretto alla conferenza di Bretton Woods. Allora la delegazione americana e quella europea conclusero un patto (formalizzato in una lettera tra i capi delegazioni): il Presidente della Banca Mondiale sarebbe stato un cittadino degli Usa e il Managing Director del Fmi uno dell’Europa occidentale. All’epoca c’erano ragioni valide. Il nodo centrale del primo nucleo del Gruppo Banca Mondiale (che oggi comprende 5 differenti istituzioni ma allora era composto unicamente dalla Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo) sarebbe stato quello di reperire sul mercato capitali per la ricostruzione del Vecchio Continente e del Giappone. L’unica piazza esistente per fornirli era, allora, Wall Street, che avrebbe avuto fiducia soprattutto in un americano. Di contro, il tema principale all’ordine del giorno in Europa era il ritorno alla convertibilità; soltanto un europeo autorevole avrebbe potuto fare da apripista.
Da allora molta acqua è passata sotto le acque del Potomac , il fiume che traversa Washington. Gli Stati membri del Fmi , e della Banca mondiale, non sono più una quarantina come nel 1944 ma circa 190. I rapporti di forza tra aree geografiche sono cambiati. In particolare, il gruppo BRICs (Brasile, Russia, India, Cina) chiede da anni con insistenza di avere uno dei seggi più alti , o al Fmi o alla Banca mondiale (in pratica, quello che si libera prima). In effetti da anni è in atto un graduale riassetto delle “quote” (ossia partecipazione nel capitale) e voti. L’Europa detiene, tuttora, il 30% dei voti negli organi decisionali Fmi e cinque nei 24 seggi del Consiglio d’Amministrazione (CdA) che ha compiti esecutivi e si riunisce mediamente tre volte la settimana. L’Europa avrebbe probabilmente avuto la probabilità di continuare ad essere, per così dire, “l’azionista di riferimento” del Fmi (con il 30% dei voti lo si può ampiamente essere) se le ambizioni nazionali (specialmente di Francia, Germania e Gran Bretagna) fossero state disposte a fare un passo indietro e si fosse creato un seggio (a rotazione) per l’Unione Europea o per l’eurozona. Oppure se si fossero attuate procedure minimali di coordinamento tra gli europei del CdA del Fondo. Spesso assumono posizioni divergenti: ad esempio, per anni alcuni hanno sostenuto l’esigenza di interventi per ridurre drasticamente il peso del debito estero sugli Stati più poveri mentre altri hanno argomentato che in tal modo si sarebbe incoraggiato chi ha razzolato male a razzolare ancora peggio. In aggiunta, avviene spesso che il rappresentante di uno Stato europeo, o di un gruppo di Stati europei, al CdA del Fmi prenda una posizione differente (su problemi simili) da quelli del suo connazionale alla Banca mondiale (la cui sede è dall’altra parte della strada).
Quali che siano gli esiti giudiziari della vicenda che coinvolge DSK, appare certo che il suo vice, l’americano, John Lipski terrà la reggenza per un periodo limitato. Gli europei stanno tentando di coordinarsi per mantenere la poltrona. Pochi scommettono che ce la faranno anche a ragione delle indicazioni di differenze di fondo che stanno mostrando nel Vecchio Continenti su temi come debito sovrano, immigrazione, libertà di circolazione e via discorrendo.
Un anno fa, Avvenire aveva riferito la voce insistente di un patto che il Presidente Usa Obama avrebbe concluso con i BRICs: operarsi perché la guida del Fondo o della Banca vada all’ex Presidente del Brasile, Luiz Inácio Lula da Silva. L’ora pare sia scoccata.
lunedì 16 maggio 2011
E' LA FELICITA' L'ALTRA LEVA NASCOSTA PER LO SVILUPPO in La Gazzetta Finanziaria de Il Foglio 16 maggio
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AND THE PAPER IS...
E' LA FELICITA' L'ALTRA LEVA NASCOSTA PER LO SVILUPPO
L'"economia della felicità" è uscita dalle torri eburnee degli economisti-filosofi alla ricerca di alternative o integrazioni alla contabilità economica nazionale. In Italia, è stata appena insediata una commissione Cnel-Istat per definire indicatori quantitativi con cui arricchire quelli del prodotto interno lordo e del reddito nazionale. Altrove sono in corso indagini quantitative puntuali.
Nell'ultimo numero dell'autorevole rivista Kyklos (Vol.64, N.2, pp.178-192, 2011), Chait Guven, della Deakin University, si chiede se una popolazione "felice" sia anche "migliore" sotto il profilo della partecipazione alla costruzione della ricchezza di una nazione. Utilizza l'analisi statistica socio-economica sulle interpretazioni di cosa è benessere condotta da anni in Germania su un campione di 15.000 persone. La conclusione è che chi è "felice" contribuisce più degli altri a quel "capitale sociale" considerato dalla nuova economia del benessere come la principale leva per lo sviluppo. Non solo, l'ottimismo risulta, statisticamente, essere il nesso tra felicità dei singoli e dotazione di capitale sociale della collettività. I risultati sono "robusti" e tengono conto della stima del livello iniziale di capitale sociale, un campione a random, varie misure di capitale sociale e stime di derivazione alternative. Quindi, guademus! (Giuseppe Pennisi)
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AND THE PAPER IS...
E' LA FELICITA' L'ALTRA LEVA NASCOSTA PER LO SVILUPPO
L'"economia della felicità" è uscita dalle torri eburnee degli economisti-filosofi alla ricerca di alternative o integrazioni alla contabilità economica nazionale. In Italia, è stata appena insediata una commissione Cnel-Istat per definire indicatori quantitativi con cui arricchire quelli del prodotto interno lordo e del reddito nazionale. Altrove sono in corso indagini quantitative puntuali.
Nell'ultimo numero dell'autorevole rivista Kyklos (Vol.64, N.2, pp.178-192, 2011), Chait Guven, della Deakin University, si chiede se una popolazione "felice" sia anche "migliore" sotto il profilo della partecipazione alla costruzione della ricchezza di una nazione. Utilizza l'analisi statistica socio-economica sulle interpretazioni di cosa è benessere condotta da anni in Germania su un campione di 15.000 persone. La conclusione è che chi è "felice" contribuisce più degli altri a quel "capitale sociale" considerato dalla nuova economia del benessere come la principale leva per lo sviluppo. Non solo, l'ottimismo risulta, statisticamente, essere il nesso tra felicità dei singoli e dotazione di capitale sociale della collettività. I risultati sono "robusti" e tengono conto della stima del livello iniziale di capitale sociale, un campione a random, varie misure di capitale sociale e stime di derivazione alternative. Quindi, guademus! (Giuseppe Pennisi)
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sabato 14 maggio 2011
NELLA NUOVA “TRAGEDIA GRECA” NON RESTA CHE RISTRUTTURARE IL DEBITO Avvenire 15 maggio
Giuseppe Pennisi
Siamo arrivati alle ultime scene di una vera e propria tragedia che riguarda non soltanto la Grecia ma tutti noi. Siamo , infatti, di fronte a due alternative che paiono estreme ma malauguratamente sono realistiche.
Nella prima ipotesi, il Governo di Atene cercherà di attuare puntualmente la nuove richieste formulate dalla Banca centrale europea (Bce) e dal “club di Londra” (il principale gruppo di creditori privati, operante dal 1976, come interfaccia di debitori “sovrani” in difficoltà).Ne risulterà, probabilmente, il caos politico e sociale: i programmi prevedono un saldo primario attivo del 6% del Pil per almeno i prossimi dieci anni, ossia una forte riduzione dei servizi reali alla collettività e dei salari per una generazione. In un Mediterraneo già in fiamme, l’incendio potrebbe estendersi.
Nella seconda, nonostante le assicurazioni verbali, il Governo opterà per un’improvvisa insolvenza di vaste proporzioni: un’insolvenza mascherata è già nei fatti visto che sul mercato secondario chi compra titoli greci a medio termine attirato da tassi d’interesse del 16% (rispetto al 3,3% di quelli tedeschi) ottiene uno sconto almeno del 30%. Un’insolvenza improvvisa di vaste proporzioni farebbe temere mosse analoghe da parte di Spagna e Portogallo. Anche ove la Grecia non uscisse formalmente dall’eurozona , l’unione monetaria soffrirebbe una perdita di credibilità. L’intero disegno d’integrazione europea sarebbe a repentaglio. Tanto più che avverrebbe quasi all’indomani della sospensione unilaterale ( da parte di alcuni Paesi) del trattato di Schengen sulla libertà di circolazione delle persone.
Siamo, quindi, tra l’incudine ed il martello. Le tragedie greche si concludono o con la catarsi o con il deus ex-machina in grado di sciogliere i nodi più difficili.
La catarsi è da evitare. La modellistica econometrica suggerisce che l’uscita sostanziale dall’euro costerebbe alla Grecia, nell’immediato, almeno 5 punti di Pil in aggiunta ai 6,5 che probabilmente perderà nel 2011 ed ai 6 già perduti nel 2008-2009 – una contrazione, di oltre il 20% del reddito nazionale. Ove, la recessione continuasse dopo il 2012, prima di riprendere a crescere, il reddito nazionale subirebbe una riduzione del 40% rispetto al livello del 2007. Anche nell’ipotesi che, con qualche marchingegno si riesca a salvare formalmente l’eurozona, il resto d’Europa non potrebbe non subire un effetto di trascinamento.
Il des ex machina potrebbe essere una ristrutturazione ben concertata del debito greco, coinvolgendo il “club di Londra” nel suo allestimento e nel monitoraggio della sua attuazione. Prendendo ad esempio casi di successo, si dovrebbero allungare le scadenze del debito (abbassandone, quindi, il valore attuale) e rendere meno pesanti le condizioni di politica economica interna. Converrebbe anche alle banche creditrici che subirebbero perdite meno pesanti di quelle di un’insolvenza non programmata ed il conseguente caos nei mercati. Converrebbe ai contribuenti tedeschi, restii a mostrare clemenza nei confronti di chi si è fatto la fama di razzolare male. Converrebbe alla stessa Bce (l’istituzione più ostile ad una ristrutturazione: Trichet ed il suo direttorio non si rendono conto di essere in un gioco ad ultimatum . In cui, come in quello di Don Giovanni e del Commendatore (nelle varie versioni del mito), ambedue finiscono all’inferno.
Siamo arrivati alle ultime scene di una vera e propria tragedia che riguarda non soltanto la Grecia ma tutti noi. Siamo , infatti, di fronte a due alternative che paiono estreme ma malauguratamente sono realistiche.
Nella prima ipotesi, il Governo di Atene cercherà di attuare puntualmente la nuove richieste formulate dalla Banca centrale europea (Bce) e dal “club di Londra” (il principale gruppo di creditori privati, operante dal 1976, come interfaccia di debitori “sovrani” in difficoltà).Ne risulterà, probabilmente, il caos politico e sociale: i programmi prevedono un saldo primario attivo del 6% del Pil per almeno i prossimi dieci anni, ossia una forte riduzione dei servizi reali alla collettività e dei salari per una generazione. In un Mediterraneo già in fiamme, l’incendio potrebbe estendersi.
Nella seconda, nonostante le assicurazioni verbali, il Governo opterà per un’improvvisa insolvenza di vaste proporzioni: un’insolvenza mascherata è già nei fatti visto che sul mercato secondario chi compra titoli greci a medio termine attirato da tassi d’interesse del 16% (rispetto al 3,3% di quelli tedeschi) ottiene uno sconto almeno del 30%. Un’insolvenza improvvisa di vaste proporzioni farebbe temere mosse analoghe da parte di Spagna e Portogallo. Anche ove la Grecia non uscisse formalmente dall’eurozona , l’unione monetaria soffrirebbe una perdita di credibilità. L’intero disegno d’integrazione europea sarebbe a repentaglio. Tanto più che avverrebbe quasi all’indomani della sospensione unilaterale ( da parte di alcuni Paesi) del trattato di Schengen sulla libertà di circolazione delle persone.
Siamo, quindi, tra l’incudine ed il martello. Le tragedie greche si concludono o con la catarsi o con il deus ex-machina in grado di sciogliere i nodi più difficili.
La catarsi è da evitare. La modellistica econometrica suggerisce che l’uscita sostanziale dall’euro costerebbe alla Grecia, nell’immediato, almeno 5 punti di Pil in aggiunta ai 6,5 che probabilmente perderà nel 2011 ed ai 6 già perduti nel 2008-2009 – una contrazione, di oltre il 20% del reddito nazionale. Ove, la recessione continuasse dopo il 2012, prima di riprendere a crescere, il reddito nazionale subirebbe una riduzione del 40% rispetto al livello del 2007. Anche nell’ipotesi che, con qualche marchingegno si riesca a salvare formalmente l’eurozona, il resto d’Europa non potrebbe non subire un effetto di trascinamento.
Il des ex machina potrebbe essere una ristrutturazione ben concertata del debito greco, coinvolgendo il “club di Londra” nel suo allestimento e nel monitoraggio della sua attuazione. Prendendo ad esempio casi di successo, si dovrebbero allungare le scadenze del debito (abbassandone, quindi, il valore attuale) e rendere meno pesanti le condizioni di politica economica interna. Converrebbe anche alle banche creditrici che subirebbero perdite meno pesanti di quelle di un’insolvenza non programmata ed il conseguente caos nei mercati. Converrebbe ai contribuenti tedeschi, restii a mostrare clemenza nei confronti di chi si è fatto la fama di razzolare male. Converrebbe alla stessa Bce (l’istituzione più ostile ad una ristrutturazione: Trichet ed il suo direttorio non si rendono conto di essere in un gioco ad ultimatum . In cui, come in quello di Don Giovanni e del Commendatore (nelle varie versioni del mito), ambedue finiscono all’inferno.
venerdì 13 maggio 2011
DAL COVENTO A WAGNER NOTE PER L’ANIMA Avvenire 14 maggio
DAL COVENTO A WAGNER NOTE PER L’ANIMA
Giuseppe Pennisi
La manifestazione musicale più lunga e più giovane (cantanti, strumentisti ed anche alcuni autori sono in generale sulla trentina) dell’estate inizia il 19 maggio con quattro giorni d’immersione completa in un Convento appollaiato sulle montagne della Garfagnana, E’ la quarta edizione di un evento straordinario – nel senso etimologico di “fuori dall’ordinario” ( tra la cinquantina circa di festival estivi in Italia). Non solamente perché dedicata interamente alla musica dello spirito (ossia a carattere religioso) ma anche in quanto dopo l’antipasto nel Convento dell’Angelo dei Padri Passionisti ( nei pressi di Lucca), il festival offre opere (Tannhauser, Parsifal e i Maestri Cantori), unitamente a concerti sinfonici in Tirolo, in un teatro per oltre mille posti (costruito inizialmente per sacre rappresentazioni) per quasi tutto il mese di luglio e termina a Dolbacco nelle ultime due settimane di settembre con la musica più intensa di Mahler (“Il Canto della Terra e la Nona Sinfonia) ed una rara esecuzione del requiem di Haydn in memoria di Horatio Nelson (l’eroe della battaglia di Trafalgar).
L’80% del finanziamento viene da privati (banche, casse di risparmio, una casa discografica austriaca – la Col-legno, sponsor vari, e biglietteria). La manifestazione è animata dal direttore d’orchestra Gustav Kun, noto in Italia dato che è stato direttore artistico, tra l’altro , all’Opera di Roma, al San Carlo di Napoli ed allo Sferisterio di Macerata. Nel Convento, Kuhn ha creato, d’intesa con i Padri Passionisti; un’accademia musicale per giovani musicisti ( per i dettagli, www.montegral.com). L’anteprima in Garfagnana coniuga musica contemporanea (Ligeti, Fedele, Deraco), con “novecento storico” (Faber, Messiaen , Puccini, Catalani), nonché con Bach e Beethoven. Si guarda sempre all’Alto. Ogni giorno si segue questo programma : aperitivo nella terrazza del Convento, con vista mozzafiato sulla Garfagnana, passeggiata (con accompagnamento d’organo) verso la Chiesa (dove hanno luogo i concerti veri e propri), cena nel chiostro e late night music (spesso la contemporaneità). La domenica mattina la celebrazione dell’Eucarestia è accompagnata dalla edizione integrale e filologica (ossia con l’accompagnamento di solo due pianoforti) della Petite Messe Solennelle di Rossini.
All’Accademia vengono soprattutto formati giovani strumentisti e cantanti che successivamente si esibiscono nel Tirolo, a Erl; alcuni di loro sono diventati celebrità in Germania (ad esempio, il toscanissimo Duccio del Monte oggi considerato uno dei più apprezzati interpreti del wagneriano Wotan ne “L’Anello del Nibelungo”). Ad Erl tutta la popolazione della cittadina partecipa al festival; ad esempio, nell’edizione 2010 , i bozzetti per i costumi de “Il Flauto Magico”sono stati scelti tra 400 disegni preparati da bambini delle scuole elementari del Tirolo, tutti invitati (con genitori) all’anteprima. Un modo per portare pubblico nuovo al teatro in musica. Per i dettagli, www.tiroler-festpiele.at. E per quelli della puntata a Dobiacco www.altoadige-festival.it
Giuseppe Pennisi
La manifestazione musicale più lunga e più giovane (cantanti, strumentisti ed anche alcuni autori sono in generale sulla trentina) dell’estate inizia il 19 maggio con quattro giorni d’immersione completa in un Convento appollaiato sulle montagne della Garfagnana, E’ la quarta edizione di un evento straordinario – nel senso etimologico di “fuori dall’ordinario” ( tra la cinquantina circa di festival estivi in Italia). Non solamente perché dedicata interamente alla musica dello spirito (ossia a carattere religioso) ma anche in quanto dopo l’antipasto nel Convento dell’Angelo dei Padri Passionisti ( nei pressi di Lucca), il festival offre opere (Tannhauser, Parsifal e i Maestri Cantori), unitamente a concerti sinfonici in Tirolo, in un teatro per oltre mille posti (costruito inizialmente per sacre rappresentazioni) per quasi tutto il mese di luglio e termina a Dolbacco nelle ultime due settimane di settembre con la musica più intensa di Mahler (“Il Canto della Terra e la Nona Sinfonia) ed una rara esecuzione del requiem di Haydn in memoria di Horatio Nelson (l’eroe della battaglia di Trafalgar).
L’80% del finanziamento viene da privati (banche, casse di risparmio, una casa discografica austriaca – la Col-legno, sponsor vari, e biglietteria). La manifestazione è animata dal direttore d’orchestra Gustav Kun, noto in Italia dato che è stato direttore artistico, tra l’altro , all’Opera di Roma, al San Carlo di Napoli ed allo Sferisterio di Macerata. Nel Convento, Kuhn ha creato, d’intesa con i Padri Passionisti; un’accademia musicale per giovani musicisti ( per i dettagli, www.montegral.com). L’anteprima in Garfagnana coniuga musica contemporanea (Ligeti, Fedele, Deraco), con “novecento storico” (Faber, Messiaen , Puccini, Catalani), nonché con Bach e Beethoven. Si guarda sempre all’Alto. Ogni giorno si segue questo programma : aperitivo nella terrazza del Convento, con vista mozzafiato sulla Garfagnana, passeggiata (con accompagnamento d’organo) verso la Chiesa (dove hanno luogo i concerti veri e propri), cena nel chiostro e late night music (spesso la contemporaneità). La domenica mattina la celebrazione dell’Eucarestia è accompagnata dalla edizione integrale e filologica (ossia con l’accompagnamento di solo due pianoforti) della Petite Messe Solennelle di Rossini.
All’Accademia vengono soprattutto formati giovani strumentisti e cantanti che successivamente si esibiscono nel Tirolo, a Erl; alcuni di loro sono diventati celebrità in Germania (ad esempio, il toscanissimo Duccio del Monte oggi considerato uno dei più apprezzati interpreti del wagneriano Wotan ne “L’Anello del Nibelungo”). Ad Erl tutta la popolazione della cittadina partecipa al festival; ad esempio, nell’edizione 2010 , i bozzetti per i costumi de “Il Flauto Magico”sono stati scelti tra 400 disegni preparati da bambini delle scuole elementari del Tirolo, tutti invitati (con genitori) all’anteprima. Un modo per portare pubblico nuovo al teatro in musica. Per i dettagli, www.tiroler-festpiele.at. E per quelli della puntata a Dobiacco www.altoadige-festival.it
Ernani in scena a Bologna senza patina risorgimentale Milano Finanza 14 maggio
Ernani in scena a Bologna senza patina risorgimentale
di Giuseppe Pennisi
Quinta opera del catalogo verdiano, commissionata nel 1843 per la cifra da capogiro di 12.000 lire austriache dagli austro-ungarici che governavano Venezia, Ernani (in scena al Comunale di Bologna fino al 19 maggio) sfata il mito di Verdi patriota e unitario. Il protagonista è un secessionista che aspira all'indipendenza della sua regione dalla Spagna e dall'Impero Romano d'Occidente.
Tanto un «grande di Spagna» Don Ruy quanto Carlo V vogliono Elvira di cui è innamorato Ernani. Questa è la miccia per la tragedia finale.
Francesco Zito che ha curato scene e costumi e Beppe De Tomasi alla regia non cedono alla fin troppo ovvia lusinga di dare una patina risorgimentale alla vicenda. La inquadrano nel 1520 in scene dipinte con profonde prospettive. Il direttore Roberto Polastri (che alla Prima ha sostituito Bruno Bartoletti ammalato) mostra come Ernani anticipi il «dramma in musica» e la concertazione fa comprendere ciascuna parola di un libretto complicato che ha una sua coerenza nello sviluppo psicologico dei personaggi, in particolare di Don Ruy e Carlo V. Svettano Dimitra Theodossiou e il giovane Rudy Park in duetti d'amore, mentre appare un po' affaticato Ferruccio Furlanetto, che resta eccellente nelle tonalità gravi. Degno di nota Marco Di Felice nel ruolo di un Carlo V tormentato dalla decisione di ascendere al trono. Il coro, guidato da Lorenzo Fratini, infiamma con Si ridesti il Leon di Castiglia più che con l'arcinoto Va Pensiero. (riproduzione riservata)
di Giuseppe Pennisi
Quinta opera del catalogo verdiano, commissionata nel 1843 per la cifra da capogiro di 12.000 lire austriache dagli austro-ungarici che governavano Venezia, Ernani (in scena al Comunale di Bologna fino al 19 maggio) sfata il mito di Verdi patriota e unitario. Il protagonista è un secessionista che aspira all'indipendenza della sua regione dalla Spagna e dall'Impero Romano d'Occidente.
Tanto un «grande di Spagna» Don Ruy quanto Carlo V vogliono Elvira di cui è innamorato Ernani. Questa è la miccia per la tragedia finale.
Francesco Zito che ha curato scene e costumi e Beppe De Tomasi alla regia non cedono alla fin troppo ovvia lusinga di dare una patina risorgimentale alla vicenda. La inquadrano nel 1520 in scene dipinte con profonde prospettive. Il direttore Roberto Polastri (che alla Prima ha sostituito Bruno Bartoletti ammalato) mostra come Ernani anticipi il «dramma in musica» e la concertazione fa comprendere ciascuna parola di un libretto complicato che ha una sua coerenza nello sviluppo psicologico dei personaggi, in particolare di Don Ruy e Carlo V. Svettano Dimitra Theodossiou e il giovane Rudy Park in duetti d'amore, mentre appare un po' affaticato Ferruccio Furlanetto, che resta eccellente nelle tonalità gravi. Degno di nota Marco Di Felice nel ruolo di un Carlo V tormentato dalla decisione di ascendere al trono. Il coro, guidato da Lorenzo Fratini, infiamma con Si ridesti il Leon di Castiglia più che con l'arcinoto Va Pensiero. (riproduzione riservata)
Tre ottimi motivi per gustarsi la passione rivoluzionaria dell'Ernani a Bologna , Il Sussidiario 13 maggio
VERDI/ Tre ottimi motivi per gustarsi la passione rivoluzionaria dell'Ernani a Bologna
Giuseppe Pennisi
venerdì 13 maggio 2011
L'Ernani di Verdi al Teatro Comunale di Bologna
Approfondisci
MAHLER/ Quel filo ideale che lega la Quarta alla Decima sinfonia... di G. Pennisi
THE GREEK PASSION/ Quella "musica dello spirito" tornata al Teatro Massimo di Palermo, di G. Pennisi
Ernani, quinta opera del catalogo verdiano, nella messa in scena a Bologna sino al 19 maggio, merita di essere vista e ascoltata per tre differenti aspetti.
Sotto il profilo della gestione di una fondazione lirica, l’allestimento creato inizialmente per Palermo nel 1999 e basato su un impianto solo in apparenza tradizionale (le belle scene e i magnifici costumi sono affidati a un artista di razza, Francesco Zito) regge ancora benissimo anche in quanto la regia di Beppe Di Tomasi pone l’accento non sulla grandiosità (ad esempio la scena dell’Incoronazione di Carlo V ad Aquisgrana), ma sullo sviluppo psicologico dei personaggi (come intese Verdi) e cura, quindi, molto la recitazione. Ciò prova che con una buona politica di co-produzione e di scambi di allestimenti i costi degli spettacoli possono essere contenuti (calmierando pure quelli dei biglietti).
Sotto il profilo dell’interpretazione storico-politica, Ernani (commissionato al trentenne Verdi da un teatro austro-ungarico, La Fenice, per il compenso da favola di 12.000 lire austriache) dimostra a tutto tondo come sia errata la visione secondo cui il “cigno di Bussetto” fosse un patriota unitario e risorgimentale. Il protagonista, Ernani, è sì un ribelle contro l’ordine costituito, ma aspira alla secessione della sua regione dalla Spagna e dall’Impero; oggi sarebbe un basco o un catalano oppure, in Italia, un leghista duro e puro della prima ora. I suoi inneggiano al “Si ridesti il Leon di Castiglia” per separarsi dal resto della Penisola Iberica e forse dello stesso Sacro Impero Romano d’Occidente ; i loro avversari sono il Grande di Spagna Don Ruy e Carlo V in procinto di diventare Imperatore. Tanto l’uno quanto l’altro vogliono portare sotto le loro lenzuola la donna del bel rivoluzionario separatista. Quanto basta per far scattare la tragedia finale.
Negli stessi anni, un’altra testa calda scriveva opere rivoluzionarie, Richard Wagner che aveva appena messo in scena, a Dresda, Rienzi, ultimo dei tribuni. Non esisteva Internet, Wagner e Verdi non si conoscevano affatto. Il primo militava nelle file di Bakunin (sarebbe approdato su ben altre sponde), il secondo esprimeva la rabbia di chi aveva perso moglie e figli per malattia nel giro di pochi giorni e non era accettato dalla aristocrazia e borghesia dell’epoca per la sua relazione extra-coniugale con Giuseppina Strepponi. Ernani è denso di rabbia contro i Grandi di Spagna e le regole della “buona società” ma, ripeto, l’ambizione del protagonista è di farsi un piccolo regno per conto suo con le sue proprie regole non certo di tifare per l’ancora più bigotto Regno di Sardegna (a Torino non debuttò nessuna delle sua opere).
Sotto il profilo musicale, la direzione dell’ottantacinquenne riscatta l’opera dall’essere stata troppo spesso affidata da routiniers che prediligono il “zum, pa, pa”. Roberto Polastri ha sostituito, alla prima, Bruno Bartoletti, grandissimo interprete della musica del Novecento, ammalato. Polastri comprende meglio di altri come in Ernani i “numeri” o “pezzi chiusa” vengano estesi sino ad includere interi atti - il quarto è dominato da un “terzettone” che dura circa mezz’ora. Bartoletti comprende pure come la scrittura orchestrale (dallo splendido preludio imperniato su due temi) non sia mero supporto al canto, come era sia in Donizetti sia nelle precedenti opere verdiane. Non siamo certo al sinfonismo wagneriano, che contagerà Verdi da Aida in poi, ma l’orchestrazione ha grande rilievo e - aspetto a cui il compositore dava grande importanza - non deve mai coprire le voci al fine di fare comprendere ogni parola del complicato intrigo.
Ernani richiede grandi voci. È la prima prova di un “tenore verdiano” dal timbro chiaro e dall’inflessione morbida pure nei momenti più spinti. La direzione de La Fenice avrebbe voluto che la parte fosse scritta per un contralto (secondo l’uso dell’epoca; si pensi al Romeo belliniano o al Malcolm rossiniano). Verdi la spuntò, insistendo perché il ruolo venisse scritto per un uomo e creando un nuovo tipo di tenore. Rudy Park (corso in sostituzione di Aronica, anche lui ammalato) svetta sin dalla cavatina con coro con cui si apre l’opera e si merita applausi a scena aperta, ma non ha ancora la morbidezza di un vero tenore verdiano; crescerà-
.
La protagonista femminile è un soprano d’agilità - per questo la parte era una delle favorite della Joan Sutherland. Dmitra Theodossiou, ottima nell'emissione e nella coloratura, oltre che nell’interpretazione drammatica, ha ricevuto ovazioni ed è stata coperta di mazzi di fiori al termine della rappresentazione.
Ferruccio Furlanetto è sempre un artista di razza; anche se un po’ affaticato, rende un Don Ruy in tutta la sua drammaticità. Buono il più giovane Marco De Felice, nel ruolo di un Carlo V tormentato dalla decisione di ascendere al trono. Il coro, guidato da Lorenza Fratini infiamma con “Si ridesti il Leon di Castiglia” più dell’arcinoto “Va Pensiero”.
© Riproduzione Riservata.
Giuseppe Pennisi
venerdì 13 maggio 2011
L'Ernani di Verdi al Teatro Comunale di Bologna
Approfondisci
MAHLER/ Quel filo ideale che lega la Quarta alla Decima sinfonia... di G. Pennisi
THE GREEK PASSION/ Quella "musica dello spirito" tornata al Teatro Massimo di Palermo, di G. Pennisi
Ernani, quinta opera del catalogo verdiano, nella messa in scena a Bologna sino al 19 maggio, merita di essere vista e ascoltata per tre differenti aspetti.
Sotto il profilo della gestione di una fondazione lirica, l’allestimento creato inizialmente per Palermo nel 1999 e basato su un impianto solo in apparenza tradizionale (le belle scene e i magnifici costumi sono affidati a un artista di razza, Francesco Zito) regge ancora benissimo anche in quanto la regia di Beppe Di Tomasi pone l’accento non sulla grandiosità (ad esempio la scena dell’Incoronazione di Carlo V ad Aquisgrana), ma sullo sviluppo psicologico dei personaggi (come intese Verdi) e cura, quindi, molto la recitazione. Ciò prova che con una buona politica di co-produzione e di scambi di allestimenti i costi degli spettacoli possono essere contenuti (calmierando pure quelli dei biglietti).
Sotto il profilo dell’interpretazione storico-politica, Ernani (commissionato al trentenne Verdi da un teatro austro-ungarico, La Fenice, per il compenso da favola di 12.000 lire austriache) dimostra a tutto tondo come sia errata la visione secondo cui il “cigno di Bussetto” fosse un patriota unitario e risorgimentale. Il protagonista, Ernani, è sì un ribelle contro l’ordine costituito, ma aspira alla secessione della sua regione dalla Spagna e dall’Impero; oggi sarebbe un basco o un catalano oppure, in Italia, un leghista duro e puro della prima ora. I suoi inneggiano al “Si ridesti il Leon di Castiglia” per separarsi dal resto della Penisola Iberica e forse dello stesso Sacro Impero Romano d’Occidente ; i loro avversari sono il Grande di Spagna Don Ruy e Carlo V in procinto di diventare Imperatore. Tanto l’uno quanto l’altro vogliono portare sotto le loro lenzuola la donna del bel rivoluzionario separatista. Quanto basta per far scattare la tragedia finale.
Negli stessi anni, un’altra testa calda scriveva opere rivoluzionarie, Richard Wagner che aveva appena messo in scena, a Dresda, Rienzi, ultimo dei tribuni. Non esisteva Internet, Wagner e Verdi non si conoscevano affatto. Il primo militava nelle file di Bakunin (sarebbe approdato su ben altre sponde), il secondo esprimeva la rabbia di chi aveva perso moglie e figli per malattia nel giro di pochi giorni e non era accettato dalla aristocrazia e borghesia dell’epoca per la sua relazione extra-coniugale con Giuseppina Strepponi. Ernani è denso di rabbia contro i Grandi di Spagna e le regole della “buona società” ma, ripeto, l’ambizione del protagonista è di farsi un piccolo regno per conto suo con le sue proprie regole non certo di tifare per l’ancora più bigotto Regno di Sardegna (a Torino non debuttò nessuna delle sua opere).
Sotto il profilo musicale, la direzione dell’ottantacinquenne riscatta l’opera dall’essere stata troppo spesso affidata da routiniers che prediligono il “zum, pa, pa”. Roberto Polastri ha sostituito, alla prima, Bruno Bartoletti, grandissimo interprete della musica del Novecento, ammalato. Polastri comprende meglio di altri come in Ernani i “numeri” o “pezzi chiusa” vengano estesi sino ad includere interi atti - il quarto è dominato da un “terzettone” che dura circa mezz’ora. Bartoletti comprende pure come la scrittura orchestrale (dallo splendido preludio imperniato su due temi) non sia mero supporto al canto, come era sia in Donizetti sia nelle precedenti opere verdiane. Non siamo certo al sinfonismo wagneriano, che contagerà Verdi da Aida in poi, ma l’orchestrazione ha grande rilievo e - aspetto a cui il compositore dava grande importanza - non deve mai coprire le voci al fine di fare comprendere ogni parola del complicato intrigo.
Ernani richiede grandi voci. È la prima prova di un “tenore verdiano” dal timbro chiaro e dall’inflessione morbida pure nei momenti più spinti. La direzione de La Fenice avrebbe voluto che la parte fosse scritta per un contralto (secondo l’uso dell’epoca; si pensi al Romeo belliniano o al Malcolm rossiniano). Verdi la spuntò, insistendo perché il ruolo venisse scritto per un uomo e creando un nuovo tipo di tenore. Rudy Park (corso in sostituzione di Aronica, anche lui ammalato) svetta sin dalla cavatina con coro con cui si apre l’opera e si merita applausi a scena aperta, ma non ha ancora la morbidezza di un vero tenore verdiano; crescerà-
.
La protagonista femminile è un soprano d’agilità - per questo la parte era una delle favorite della Joan Sutherland. Dmitra Theodossiou, ottima nell'emissione e nella coloratura, oltre che nell’interpretazione drammatica, ha ricevuto ovazioni ed è stata coperta di mazzi di fiori al termine della rappresentazione.
Ferruccio Furlanetto è sempre un artista di razza; anche se un po’ affaticato, rende un Don Ruy in tutta la sua drammaticità. Buono il più giovane Marco De Felice, nel ruolo di un Carlo V tormentato dalla decisione di ascendere al trono. Il coro, guidato da Lorenza Fratini infiamma con “Si ridesti il Leon di Castiglia” più dell’arcinoto “Va Pensiero”.
© Riproduzione Riservata.
Ecco la trappola dei salari netti più bassi (In Italia) in busta paga Il Velino 13 maggio
ECO - La trappola dei salari netti più bassi (in Italia) in busta paga
Roma, 13 mag (Il Velino) - Il rapporto Ocse che documenta come siamo nel gruppo di testa dei Paesi caratterizzati da alte tasse sul lavoro e bassi salari netti in busta paga risulta una sorpresa unicamente per coloro che non seguono regolarmente la letteratura economica. Alcuni mesi fa, Giorgio Barba Navaretti dell’Università Statale di Milano e Guido Tabellini dell’Universtà Bocconi hanno pubblicato un’analisi delle “cure urgenti dell’Italia che non sa crescere”. La diagnosi è ineccepibile: tra il 2005 e il 2008 il Pil italiano è cresciuto di otto punti meno della media dell’area dell’euro; nel 2009 è calato (-5 per cento contro - 4,1 per cento) più della media di Eurolandia; le previsioni per il 2010-2011 indicano “che la ripresa italiana non sarà più rapida” della media di quella dei paesi a moneta unica. A queste stime è utile aggiungere (anche se Barba Navaretti e Tabellini non lo fanno) che nel 2006, alla vigilia della crisi economica internazionale, la Banca centrale europea indicava nell’1,3 per cento l’anno il potenziale massimo di crescita dell’economia italiana di lungo periodo, il più basso tra quelli quantizzati per l’area dell’euro. Per i prossimi due anni le previsioni Ocse indicano una crescita del Pil dell’1,2 per cento nel 2011 e dell’1,6 per cento nel 2012, sempre che tutte le misure previste vengano attuate, e decretate, per potenziare lo sviluppo.
La diagnosi di Barba Navaretti e di Tabellini identifica la principale determinante della bassa crescita nell’ormai ventennale rallentamento del tasso di produttività dei fattori (non solo lavoro ma anche capitale). Lo studio Bce va più a fondo: nel senso che identifica nell’andamento demografico (denatalità, invecchiamento della popolazione) una delle cause del deceleramento della produttività. La diagnosi di Barba Navaretti e di Tabellini, tuttavia, è corretta nel puntare a una delle conseguenze: il rallentamento della produttività vuole dire in Italia salari netti in busta paga più bassi che nel resto d’Europa (il divario con la Francia è il 15 per cento, con la Germania il 30 per cento, a parità di qualifica) e, quindi, bassi consumi e bassi investimenti, nonché bassa crescita, mentre solo con un aumento sostenuto del reddito nazionale possiamo smaltire, in un arco di lustri, l’Himalaya del debito pubblico.
Da questa analisi emergono i lineamenti per una terapia: in sostanza, porre la parola fine agli interventi a pioggia e allocare le risorse disponibili su attività altamente produttive. Indicazione ancora una volta ineccepibile, ma incompleta. Gli interventi a pioggia - occorre ricordarlo - non sono unicamente frutto di clientelismo e di incompetenza politica e amministrativa. Negli ultimi dieci anni, una delle determinanti è stata la normativa D’Alema-Amato (dai governi che la hanno proposta) varata frettolosamente prima delle elezioni politiche del 2001 nella speranza di catturare elettori favorevoli al federalismo. L’esito non è stato il federalismo ma lo spolpamento di competenze tra amministrazioni centrali e Regioni (ho avuto modo di studiare in particolare quello del ministero delle Attività produttive). Specialmente, in seguito alle elezioni regionali del 2005, ciò ha portato a una discrasia tra attività dello Stato e quelle delle Regioni in campi “concorrenti” come quelli delle politiche per l’industria, l’agricoltura, l’ambiente e il territorio, rendendole sempre meno coerenti e aggravando le altre determinanti che portavano comunque a interventi a pioggia. L’omogeneità di visione politica tra Stato e Regioni (che caratterizza gran parte dell’Italia e della sua popolazione) dovrebbe essere un antidoto a questa situazione. Deve essere, però, integrato da uniformità di parametri di valutazione e di criteri di selezione degli interventi , da definirsi nell’ambito della Conferenza Stato-Regioni. Nel lungo termine, la cura non sarebbe adeguata se non sostenuta da interventi per la famiglia tali da alterare gli andamenti demografici, un obiettivo che può essere raggiunto solo gradualmente e con provvedimenti incrementali.
(Giuseppe Pennisi) 13 mag 2011 12:11
Roma, 13 mag (Il Velino) - Il rapporto Ocse che documenta come siamo nel gruppo di testa dei Paesi caratterizzati da alte tasse sul lavoro e bassi salari netti in busta paga risulta una sorpresa unicamente per coloro che non seguono regolarmente la letteratura economica. Alcuni mesi fa, Giorgio Barba Navaretti dell’Università Statale di Milano e Guido Tabellini dell’Universtà Bocconi hanno pubblicato un’analisi delle “cure urgenti dell’Italia che non sa crescere”. La diagnosi è ineccepibile: tra il 2005 e il 2008 il Pil italiano è cresciuto di otto punti meno della media dell’area dell’euro; nel 2009 è calato (-5 per cento contro - 4,1 per cento) più della media di Eurolandia; le previsioni per il 2010-2011 indicano “che la ripresa italiana non sarà più rapida” della media di quella dei paesi a moneta unica. A queste stime è utile aggiungere (anche se Barba Navaretti e Tabellini non lo fanno) che nel 2006, alla vigilia della crisi economica internazionale, la Banca centrale europea indicava nell’1,3 per cento l’anno il potenziale massimo di crescita dell’economia italiana di lungo periodo, il più basso tra quelli quantizzati per l’area dell’euro. Per i prossimi due anni le previsioni Ocse indicano una crescita del Pil dell’1,2 per cento nel 2011 e dell’1,6 per cento nel 2012, sempre che tutte le misure previste vengano attuate, e decretate, per potenziare lo sviluppo.
La diagnosi di Barba Navaretti e di Tabellini identifica la principale determinante della bassa crescita nell’ormai ventennale rallentamento del tasso di produttività dei fattori (non solo lavoro ma anche capitale). Lo studio Bce va più a fondo: nel senso che identifica nell’andamento demografico (denatalità, invecchiamento della popolazione) una delle cause del deceleramento della produttività. La diagnosi di Barba Navaretti e di Tabellini, tuttavia, è corretta nel puntare a una delle conseguenze: il rallentamento della produttività vuole dire in Italia salari netti in busta paga più bassi che nel resto d’Europa (il divario con la Francia è il 15 per cento, con la Germania il 30 per cento, a parità di qualifica) e, quindi, bassi consumi e bassi investimenti, nonché bassa crescita, mentre solo con un aumento sostenuto del reddito nazionale possiamo smaltire, in un arco di lustri, l’Himalaya del debito pubblico.
Da questa analisi emergono i lineamenti per una terapia: in sostanza, porre la parola fine agli interventi a pioggia e allocare le risorse disponibili su attività altamente produttive. Indicazione ancora una volta ineccepibile, ma incompleta. Gli interventi a pioggia - occorre ricordarlo - non sono unicamente frutto di clientelismo e di incompetenza politica e amministrativa. Negli ultimi dieci anni, una delle determinanti è stata la normativa D’Alema-Amato (dai governi che la hanno proposta) varata frettolosamente prima delle elezioni politiche del 2001 nella speranza di catturare elettori favorevoli al federalismo. L’esito non è stato il federalismo ma lo spolpamento di competenze tra amministrazioni centrali e Regioni (ho avuto modo di studiare in particolare quello del ministero delle Attività produttive). Specialmente, in seguito alle elezioni regionali del 2005, ciò ha portato a una discrasia tra attività dello Stato e quelle delle Regioni in campi “concorrenti” come quelli delle politiche per l’industria, l’agricoltura, l’ambiente e il territorio, rendendole sempre meno coerenti e aggravando le altre determinanti che portavano comunque a interventi a pioggia. L’omogeneità di visione politica tra Stato e Regioni (che caratterizza gran parte dell’Italia e della sua popolazione) dovrebbe essere un antidoto a questa situazione. Deve essere, però, integrato da uniformità di parametri di valutazione e di criteri di selezione degli interventi , da definirsi nell’ambito della Conferenza Stato-Regioni. Nel lungo termine, la cura non sarebbe adeguata se non sostenuta da interventi per la famiglia tali da alterare gli andamenti demografici, un obiettivo che può essere raggiunto solo gradualmente e con provvedimenti incrementali.
(Giuseppe Pennisi) 13 mag 2011 12:11
Ecco la trappola dei salari netti più bassi (In Italia) in busta paga Il Velino 13 maggio
ECO - La trappola dei salari netti più bassi (in Italia) in busta paga
Roma, 13 mag (Il Velino) - Il rapporto Ocse che documenta come siamo nel gruppo di testa dei Paesi caratterizzati da alte tasse sul lavoro e bassi salari netti in busta paga risulta una sorpresa unicamente per coloro che non seguono regolarmente la letteratura economica. Alcuni mesi fa, Giorgio Barba Navaretti dell’Università Statale di Milano e Guido Tabellini dell’Universtà Bocconi hanno pubblicato un’analisi delle “cure urgenti dell’Italia che non sa crescere”. La diagnosi è ineccepibile: tra il 2005 e il 2008 il Pil italiano è cresciuto di otto punti meno della media dell’area dell’euro; nel 2009 è calato (-5 per cento contro - 4,1 per cento) più della media di Eurolandia; le previsioni per il 2010-2011 indicano “che la ripresa italiana non sarà più rapida” della media di quella dei paesi a moneta unica. A queste stime è utile aggiungere (anche se Barba Navaretti e Tabellini non lo fanno) che nel 2006, alla vigilia della crisi economica internazionale, la Banca centrale europea indicava nell’1,3 per cento l’anno il potenziale massimo di crescita dell’economia italiana di lungo periodo, il più basso tra quelli quantizzati per l’area dell’euro. Per i prossimi due anni le previsioni Ocse indicano una crescita del Pil dell’1,2 per cento nel 2011 e dell’1,6 per cento nel 2012, sempre che tutte le misure previste vengano attuate, e decretate, per potenziare lo sviluppo.
La diagnosi di Barba Navaretti e di Tabellini identifica la principale determinante della bassa crescita nell’ormai ventennale rallentamento del tasso di produttività dei fattori (non solo lavoro ma anche capitale). Lo studio Bce va più a fondo: nel senso che identifica nell’andamento demografico (denatalità, invecchiamento della popolazione) una delle cause del deceleramento della produttività. La diagnosi di Barba Navaretti e di Tabellini, tuttavia, è corretta nel puntare a una delle conseguenze: il rallentamento della produttività vuole dire in Italia salari netti in busta paga più bassi che nel resto d’Europa (il divario con la Francia è il 15 per cento, con la Germania il 30 per cento, a parità di qualifica) e, quindi, bassi consumi e bassi investimenti, nonché bassa crescita, mentre solo con un aumento sostenuto del reddito nazionale possiamo smaltire, in un arco di lustri, l’Himalaya del debito pubblico.
Da questa analisi emergono i lineamenti per una terapia: in sostanza, porre la parola fine agli interventi a pioggia e allocare le risorse disponibili su attività altamente produttive. Indicazione ancora una volta ineccepibile, ma incompleta. Gli interventi a pioggia - occorre ricordarlo - non sono unicamente frutto di clientelismo e di incompetenza politica e amministrativa. Negli ultimi dieci anni, una delle determinanti è stata la normativa D’Alema-Amato (dai governi che la hanno proposta) varata frettolosamente prima delle elezioni politiche del 2001 nella speranza di catturare elettori favorevoli al federalismo. L’esito non è stato il federalismo ma lo spolpamento di competenze tra amministrazioni centrali e Regioni (ho avuto modo di studiare in particolare quello del ministero delle Attività produttive). Specialmente, in seguito alle elezioni regionali del 2005, ciò ha portato a una discrasia tra attività dello Stato e quelle delle Regioni in campi “concorrenti” come quelli delle politiche per l’industria, l’agricoltura, l’ambiente e il territorio, rendendole sempre meno coerenti e aggravando le altre determinanti che portavano comunque a interventi a pioggia. L’omogeneità di visione politica tra Stato e Regioni (che caratterizza gran parte dell’Italia e della sua popolazione) dovrebbe essere un antidoto a questa situazione. Deve essere, però, integrato da uniformità di parametri di valutazione e di criteri di selezione degli interventi , da definirsi nell’ambito della Conferenza Stato-Regioni. Nel lungo termine, la cura non sarebbe adeguata se non sostenuta da interventi per la famiglia tali da alterare gli andamenti demografici, un obiettivo che può essere raggiunto solo gradualmente e con provvedimenti incrementali.
(Giuseppe Pennisi) 13 mag 2011 12:11
Roma, 13 mag (Il Velino) - Il rapporto Ocse che documenta come siamo nel gruppo di testa dei Paesi caratterizzati da alte tasse sul lavoro e bassi salari netti in busta paga risulta una sorpresa unicamente per coloro che non seguono regolarmente la letteratura economica. Alcuni mesi fa, Giorgio Barba Navaretti dell’Università Statale di Milano e Guido Tabellini dell’Universtà Bocconi hanno pubblicato un’analisi delle “cure urgenti dell’Italia che non sa crescere”. La diagnosi è ineccepibile: tra il 2005 e il 2008 il Pil italiano è cresciuto di otto punti meno della media dell’area dell’euro; nel 2009 è calato (-5 per cento contro - 4,1 per cento) più della media di Eurolandia; le previsioni per il 2010-2011 indicano “che la ripresa italiana non sarà più rapida” della media di quella dei paesi a moneta unica. A queste stime è utile aggiungere (anche se Barba Navaretti e Tabellini non lo fanno) che nel 2006, alla vigilia della crisi economica internazionale, la Banca centrale europea indicava nell’1,3 per cento l’anno il potenziale massimo di crescita dell’economia italiana di lungo periodo, il più basso tra quelli quantizzati per l’area dell’euro. Per i prossimi due anni le previsioni Ocse indicano una crescita del Pil dell’1,2 per cento nel 2011 e dell’1,6 per cento nel 2012, sempre che tutte le misure previste vengano attuate, e decretate, per potenziare lo sviluppo.
La diagnosi di Barba Navaretti e di Tabellini identifica la principale determinante della bassa crescita nell’ormai ventennale rallentamento del tasso di produttività dei fattori (non solo lavoro ma anche capitale). Lo studio Bce va più a fondo: nel senso che identifica nell’andamento demografico (denatalità, invecchiamento della popolazione) una delle cause del deceleramento della produttività. La diagnosi di Barba Navaretti e di Tabellini, tuttavia, è corretta nel puntare a una delle conseguenze: il rallentamento della produttività vuole dire in Italia salari netti in busta paga più bassi che nel resto d’Europa (il divario con la Francia è il 15 per cento, con la Germania il 30 per cento, a parità di qualifica) e, quindi, bassi consumi e bassi investimenti, nonché bassa crescita, mentre solo con un aumento sostenuto del reddito nazionale possiamo smaltire, in un arco di lustri, l’Himalaya del debito pubblico.
Da questa analisi emergono i lineamenti per una terapia: in sostanza, porre la parola fine agli interventi a pioggia e allocare le risorse disponibili su attività altamente produttive. Indicazione ancora una volta ineccepibile, ma incompleta. Gli interventi a pioggia - occorre ricordarlo - non sono unicamente frutto di clientelismo e di incompetenza politica e amministrativa. Negli ultimi dieci anni, una delle determinanti è stata la normativa D’Alema-Amato (dai governi che la hanno proposta) varata frettolosamente prima delle elezioni politiche del 2001 nella speranza di catturare elettori favorevoli al federalismo. L’esito non è stato il federalismo ma lo spolpamento di competenze tra amministrazioni centrali e Regioni (ho avuto modo di studiare in particolare quello del ministero delle Attività produttive). Specialmente, in seguito alle elezioni regionali del 2005, ciò ha portato a una discrasia tra attività dello Stato e quelle delle Regioni in campi “concorrenti” come quelli delle politiche per l’industria, l’agricoltura, l’ambiente e il territorio, rendendole sempre meno coerenti e aggravando le altre determinanti che portavano comunque a interventi a pioggia. L’omogeneità di visione politica tra Stato e Regioni (che caratterizza gran parte dell’Italia e della sua popolazione) dovrebbe essere un antidoto a questa situazione. Deve essere, però, integrato da uniformità di parametri di valutazione e di criteri di selezione degli interventi , da definirsi nell’ambito della Conferenza Stato-Regioni. Nel lungo termine, la cura non sarebbe adeguata se non sostenuta da interventi per la famiglia tali da alterare gli andamenti demografici, un obiettivo che può essere raggiunto solo gradualmente e con provvedimenti incrementali.
(Giuseppe Pennisi) 13 mag 2011 12:11
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