Giulio Cesare in Egitto
Politica e sesso raccontati da Händel
Il mistero del successo del teatro barocco, specialmente quello britannico, è tutt’ora irrisolto. Composto da opere di durata lunghissima e poca azione scenica, attirava pubblico e si finanziava con gli incassi in teatri per lo più privati – a differenza di quanto avveniva nel Continente, dove i teatri erano in gran parte “reali” o “ducali”e godevano lauto sostegno pubblico. In più si parlava nei “recitativi” e si cantava in italiano, non in inglese; l’esecuzione di partiture come quella di “Giulio Cesare in Egitto” di Georg Friedrich Händel (che si può gustare in alcuni “teatri di tradizione” italiani in un allestimento che andrà in Germania e Polonia) dura circa duecentocinquanta minuti; le vicende, spesso complicatissime, venivano raccontate dai cantanti piuttosto che rappresentate sul palcoscenico.
Le leggende dicono che nei palchetti, tra un’aria e l’altra, si complottasse, si mangiasse, si bevesse e, tirate le tendine, si fornicasse (spesso in quattro o in sei). Ciò, senza dubbio, avveniva, ma basterebbe recarsi a vedere il “Giulio Cesare d’Egitto” nell’edizione musicalmente curatissima (anche se scorciata a poco più di tre ore) di Ottavio Dantone e dell’Accademia Bizantina per constatare, se si conosce un po’ di storia dell’epoca, quanto in realtà ci sia dietro. Le vicende nel 48 a.C. nella lontana Alessandria erano la metafora di due conflitti, uno musicale e uno politico, strettamente connessi e che allora appassionavano Londra.
Il musicale è presto riassunto: a Händel veniva contrapposto un suo allievo, Giovanni Bononcini (i cui lavori sono ora dimenticati), non solo per motivi musicali e generazionali (Händel, all’epoca, sfiorava i quarant’anni) ma per ragioni politiche. Dopo una complicata vicenda di successione, il principe Elettore di Sassonia, Georg Ludwig von Hannover, aveva assunto la corona di san Giacomo con il titolo di Giorgio I e con lui i “liberali” Whig erano tornati al governo, dopo un lungo periodo di astinenza. Giorgio I era sì protestante e luterano – per questo motivo aveva avuto il trono britannico – ma non un puritano. Aveva sposato la propria cugina prima, Sofia Doretea di Celle, che gli aveva portato una ricca dote, assicurato il controllo di gran parte dei territori germanici del parentado e dato una prole, ma Giorgio non era insensibile all’eros femminile. Gestiva un piccolo harem tra Londra e Amburgo e aveva anche un’amante ufficiale, Melusina von der Schulenburg (da cui ebbe due figlie). Sofia non gradiva, si face anche lei un amante stabile e ottenne un divorzio lautamente compensato. Il principe di Galles, Giorgio Augusto, si schierò con la madre e trovò supporto nei Tories e negli ultra conservatori Giacobiti (così chiamati perché appartenenti al movimento politico che si proponevano la restaurazione del casato degli Stuart ed erano fedeli alla chiesa monofisita di Siria fondata da Giacomo Baradeo nel VI Secolo (quelli sì più puritani delle “beghine” delle Fiandre). I Whigs era händeliani e i Tories (e i Giacobiti) bononciniani. Con "Giulio Cesare in Egitto" Händel sconfisse definitivamente l’ex pupillo diventato arrogantuccio.
Questa attualità politica (di allora, ma forse anche di tempi più recenti) si metteva in scena utilizzando, per di più, un libretto non nuovo (già messo in musica 45 anni prima dall’ormai dimenticato Antonio Sartorio) ma rielaborato da Nicola Francesco Haym e reso incandescente dalla musica, per l’epoca molto innovativa, di Händel (le arie calzano la psicologia dei personaggi non solo come sfoggio di bravura, il recitativo secco scivola in un declamato quasi novecentesco, la scena della seduzione impiega una doppia orchestra e ha una carica erotica che non si sentiva dai tempi di Monteverdi e di Cavalli e si sarebbe dovuto attendere la fine dell’ottocento per trovarne di eguali). Il pubblico seguiva con passione una vicenda in cui Giorgio I in realtà rappresentava il cinquantaquattrenne Giulio Cesare, la ninfetta Cleopatra era Melusina von der Schulenburg, la lamentosa Cornelia, il gay Sesto, la Regina deposta, l’inconcludente Principe di Galles, l’intrigante Achilla e il perbenista (ma un po’ “zozzone”) Tolomeo erano i Tories e i Giacobiti.
Il “Giulio Cesare in Egitto” prodotto dai teatri di Ferrara, Modena e Ravenna andrà a Brema, al Festival händeliano di Halle e all’opera nazionale di Poznam in Polonia – tutti teatri per orecchi fini che non accettano sconti. Dantone e l’Accademia bizantina scorciano l’opera a poco più di tre ore di musica, utilizzano (nei limiti del possibile) strumenti d’epoca ed hanno voci (Sonia Prina, Maria Grazia Schiavo, Riccardo Novaro, José Maria Lo Monaco, Paolo Lopez, Filippo Mineccia) tale da reggere bene il confronto con le accademie barocche tedesche e britanniche. La regia di Alessio Pizzech parte da un’idea buona (portare la vicenda alle guerre coloniali di fine Ottocento-inizio Novecento) ma si perde per strada nel grand guignol della seconda parte. In America (dove non molto tempo fa, un presidente ebbe piaceri e noie di eros nello Studio ovale della Casa Bianca), Peter Sellars ebbe il coraggio di attualizzare la vicenda ai giorni nostri in una produzione messa in scena a Boston, Bruxelles, alcuni festival e pure filmata per le sale e la tv.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Giuseppe Pennisi
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