sabato 12 marzo 2011

MONETA UNICA : I DUBBI DEI PADRI in Avvenire del 12 marzo

MONETA UNICA : I DUBBI DEI PADRI
Giuseppe Pennisi
L’unione monetaria è nata sulla scia dell’unificazione tedesca. Agli Stati che allora facevano parte degli accordi europei di cambio (giornalisticamente chiamati Sistema monetario euro, Sme) apparve chiaro che alla Germania la propria unificazione aveva la priorità sull’integrazione europea. Erano pronti a dedicare all’obiettivo somme vastissime (nel solo primo anno vennero effettuati trasferimenti ai cinque nuovi Länder pare a quelli effettuati a titolo d’intervento sia ordinario sia straordinario al Mezzogiorno) ed a sterilizzarne gli effetti inflazionistici con una politica monetaria molto severa i cui impatti si sarebbero avvertiti nel resto d’Europa. La proposta iniziale venne dalla Francia, il cui tasso di cambio con il marco era fisso a ragione del “patto del Louvre” del 1987: la creazione dell’unione monetaria avrebbero reso collegiali (nel quadro della Banca centrale europea Bce e dell’Eurogruppo) decisioni che, invece, sarebbe rimaste unicamente nell’ambito della Bundesbank e delle autorità di Berlino. Ora, proprio in Francia (per molti aspetti il cuore dell’euro),si nutrono dubbi sul futuro della moneta unica e si tratteggiano percorsi non per l’uscita di questo o di quello Stato ma per un nuovo assetto complessivo dell’unione monetaria.
Non sono soltanto indagini sociologiche di ricerca sugli indici di fiducia (nell’euro) da parte di campioni dell’opinione pubblica . Sulla scrivania dell’Ing. Trichet , Presidente della Banca centrale europea (Bce) c’è un elaborato del servizio studi dell’istituto (working paper n.1286) finalizzato sull’onda dell’aumento del differenziale dei tassi sulle emissioni decennali nell’eurozona (si va del 3 per cento di quelli tedeschi al’12 percento di quelli greci, al 9 per cento di quelli irlandesi, al 6,8 per cento quelli portoghesi ed attorno al 5 per cento quelli italiani). Lo studio include anche i differenziali (ancora più alti) tra i “corporate bonds” (emissioni societarie) e delinea la “probabilità di una nuova recessione”. L’interrogativo è chiaro: dato che il “salva Stati” può poco o nulla in questa materia, vale la pena insistere? La domanda sarebbe banale se non venisse dal “santuario dell’euro”, dove inoltre è allo studio un aumento dei tassi d’interesse Bce (come dichiarato dallo stesso Vice Presidente dell’Istituto, Lorenzo Bini Smaghi, in un articolo sul “Corriere della Sera”).
Alla vigilia della prossima riunione dell’Eurogruppo (15 marzo), al Ministro dell’Economia francese, Christine Lagarde, è stato consegnato il lavoro n.308 della Banque de France, dal titolo eloquente “To Be or not to Be in a Monetary Union. A Synthesis”. Lo studio, basato su un raffinato modello econometrico costruito all’uopo, conclude che in termini di benessere i benefici di “credibilità aggiuntiva” delle politiche degli Stati aderenti al club superano i costi unicamente se l’inflazione non supera il 2-3 per cento l’anno e se il ciclo economico dei soci è “simmetrico”. Si può ironizzare affermando che non sarebbe stato necessaria un’elaborata costruzione econometrica per giungere a queste conclusioni. Quel che conta è il cambiamento di vento alla Banque da France (uno dei protagonisti della costruzione dell’eurozona). Un cambiamento analogo si avverte negli ultimi lavori dell’OFCE (l’istituto francese d’analisi della congiuntura).
Tuttavia, una secessione unilaterale (come ipotizzato, ad esempio, dall’economista italiano Paolo Savona) ha un costo pesantissimo per chi la fa (sulla base del crollo di unioni monetarie negli Anni Settanta si può stimare sul 4 percento del Pil). Ed è onerosa anche per chi resta (e perde mercati). Attenzione, però, questa stima, basata su secessioni da unioni monetarie alla fine degli Anni Sessanta (la zona della sterlina), negli Anni Settanta (molteplici in Africa ed Asia) e negli Anni Novanta (la dissoluzione di quella dell’Urss) è stata di recente contraddetta da un lavoro del Fondo monetario (il working paper 10/169) sulla “ordinata” e “non costosa” “de-dollarizzazione” del Perù: i costi possono essere contenuti se si segue un percorso a medio termine ben organizzato.
Una strada interessante è tracciata da Leszek Balcerowiz , noto economista dell’Europa centrale, Presidente della Banca nazionale della Polonia dal 2000 al 2007 è ora al Peterson Institute of International Economics di Washington. Balcerowiz è stato un appassionato “euro entusiasta”. In un lavoro completato a fine 2010 (working paper n. 10-18) sostiene che la crisi del debito sovrano nell’eurozona deve “aprire gli occhi”, ossia indurre a “politiche di crescita per abbattere il peso del debito” e a”rendere più flessibili le economie” per meglio affrontare nuove crisi. “Il modello a cui guardare per la stabilità dell’eurozona non è andare verso un unico Stato od una Federazione, ma qualcosa di analogo al , un sistema di Stati sovrani con una moneta unica di fatto ma non di diritto”. Parlando con Balcerowiz, si deduce che potrebbe essere sufficiente un meccanismo europeo alla Bretton Woods od il vecchio Sme rafforzato.

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