lunedì 7 marzo 2011

Britten il compositore “dimenticato” perché scomodo Il Velino 7 marzo

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CLT - Opera, Britten il compositore “dimenticato” perché scomodo
Milano, 7 mar (Il Velino) - Il bell’allestimento di “Death in Venice”, un vero e proprio addio alla vita, ultima opera di Benjamin Britten è in scena alla Scala sino al 19 marzo. Si tratta di una coproduzione con la l’English national opera (Eno), dove ha debuttato nel 2009, e con il Teatro La Monnaie di Bruxelles. È uno spettacolo che merita un viaggio a Milano, perché rappresenta senza dubbio il meglio che si è visto finora in questa stagione nei teatri d’opera italiani. Occorre tuttavia chiedersi perché, nonostante un certo interesse per il compositore nel 2006 (trentennale dalla morte), “Death in Venice” e altri fondamentali lavori di Britten, uno dei tre maggiori grandi autori del teatro in musica del “Novecento storico”, abbiamo avuto una circolazione limitata in Italia. Sotto il profilo personale, Britten era molto legato all’Italia, ma è stato poco eseguito nel nostro Paese per anni. La sola eccezione è Roma, grazie principalmente ai programmi di musica contemporanea dell’orchestra della Rai prima che venisse abolita. In questi ultimi due lustri, c’è stata una ripresa dell’interesse e dei teatri e, quel che più conta, del pubblico. “The turn of the screw” è stato allestito a Torino, Roma, Cagliari e Parma; “Peter Grimes” a Firenze, a Milano, Reggio Emilia e Ferrara; “Billy Budd” a Venezia, Torino e Genova; “ Death in Venice” e “The rape of Lucretia” a Genova, Firenze e Venezia; “A mid-summer night’s dream” a Roma, Napoli, Milano e nel circuito toscano di Città Lirica; “Albert Herring” nel circuito emiliano e a Cosenza; gli apologhi sacri sono stati messi in scena a Spoleto; il “Saint Nicholas” a Bari e a Montepulciano; “The little sweep” a Palermo, Rovigo e Modena. Si sono anche avute varie esecuzioni del “War requiem”.

Il bell’allestimento di “Death in Venice”, un vero e proprio addio alla vita, ultima opera di Benjamin Britten è in scena alla Scala sino al 19 marzo. Si tratta di una coproduzione con la l’English national opera (Eno), dove ha debuttato nel 2009, e con il Teatro La Monnaie di Bruxelles. È uno spettacolo che merita un viaggio a Milano, perché rappresenta senza dubbio il meglio che si è visto finora in questa stagione nei teatri d’opera italiani. Occorre tuttavia chiedersi perché, nonostante un certo interesse per il compositore nel 2006 (trentennale dalla morte), “Death in Venice” e altri fondamentali lavori di Britten, uno dei tre maggiori grandi autori del teatro in musica del “Novecento storico”, abbiamo avuto una circolazione limitata in Italia. Sotto il profilo personale, Britten era molto legato all’Italia, ma è stato poco eseguito nel nostro Paese per anni. La sola eccezione è Roma, grazie principalmente ai programmi di musica contemporanea dell’orchestra della Rai prima che venisse abolita. In questi ultimi due lustri, c’è stata una ripresa dell’interesse e dei teatri e, quel che più conta, del pubblico. “The turn of the screw” è stato allestito a Torino, Roma, Cagliari e Parma; “Peter Grimes” a Firenze, a Milano, Reggio Emilia e Ferrara; “Billy Budd” a Venezia, Torino e Genova; “ Death in Venice” e “The rape of Lucretia” a Genova, Firenze e Venezia; “A mid-summer night’s dream” a Roma, Napoli, Milano e nel circuito toscano di Città Lirica; “Albert Herring” nel circuito emiliano e a Cosenza; gli apologhi sacri sono stati messi in scena a Spoleto; il “Saint Nicholas” a Bari e a Montepulciano; “The little sweep” a Palermo, Rovigo e Modena. Si sono anche avute varie esecuzioni del “War requiem”.

L’elenco non è esaustivo ma indicativo del successo, pur se tardivo, del teatro in musica di Britten. Il pubblico non è mai mancato e gli “esauriti” sono la prova più concreta dell’apprezzamento. D’altro canto, basta pensare che la sua ultima opera, “A death in Venice”, aveva avuto nel solo 1973 ben 15 differenti allestimenti (tra cui Aldenburgh, dove Britten risiedeva, Venezia, Edimburgo, Bruxelles e Londra) e l’anno seguente era approdata con enorme successo al Metropolitan di New York. Il suo stile musicale eclettico non rifiuta mai la scrittura tonale ed è accattivante anche per chi non ha dimestichezza con le convenzioni della musica del Novecento: pur continuando nella grande tradizione britannica iniziata con Purcell, fa propria la tecnica di Berg di adottare la forma di un tema su cui costruire ciascuna scena inserendo molteplici variazioni e intercalando le varie scene con intermezzi indipendenti che servano da elementi di unificazione musicale e drammatica. Altro aspetto fondante è la capacità di ottenere il massimo colore e calore orchestrale con il minimo di organico (unicamente 13 elementi ad esempio in “The turn of the screw” e una versione a organico ridotto per “Billy Budd” pur concepito, inizialmente, come un grand opéra). Anche in “Death in Venice” l’organico è stringato, con un’eccezione: le percussioni che caratterizzano il mondo di Tadzio, il giovano polacco la cui avvenenza turba il protagonista, l’anziano scrittore Aschenbach.

Grande attenzione, poi, alle voci. Pur nel rispetto delle convenzioni, riscopre il controtenore e lo accompagna (in “A midsummer night’s dream”) in duetti estatici con un soprano di coloratura. Oppure, in “Billy Budd”, utilizza 17 voci maschili (cinque tenori, otto baritoni, un baritono basso e tre bassi) e nessuna voce femminile, affidando la vocalità chiara a un quartetto di adolescenti e dieci fanciulli che non cantano ma chiacchierano sullo sfondo. In “The turn of the screw”, invece, le voci sono quasi esclusivamente femminili (tre soprani e due voci bianche) con cui contrasta un bari-tenore in grado, però, di scendere di ottave sino a giungere a una vocalità da basso. Naturalmente, il metodo di organizzazione cambia quando si tratta di musica concepita per essere eseguita in chiesa (Britten era cattolico praticante), in cui il pubblico viene considerato non in veste di spettatore ma di compartecipe all’azione liturgica; quindi, alcune parti erano pensate perché fossero eseguite dall’intera congregazione. Britten si poneva infatti incessantemente il problema di come far vivere il teatro in musica e dare a esso un pubblico, in un’epoca densa di tante altre sollecitazioni (dal cinema, alla tv, alla riduzione dei tempi e dei costi dei trasporti e, quindi, all’aumento del turismo). Per questa ragione, già nel 1946 riapre il Festival di Glyndebourne nel Sussex, ora diventato il più esclusivo dei festival musicali, tanto che non accetta sovvenzioni pubbliche e la lista di attesa per diventarne soci è di 20 anni.

Nel 1947 Britten crea l’English opera group, una compagnia itinerante che con pochi mezzi potesse portare la lirica in città anche minori della Gran Bretagna e che ebbe gran successo pure in Svizzera e Olanda. Sempre per questo motivo, pur considerato “compositore di Corte”, si trasferisce con il suo compagno di vita, il tenore Peter Pears, e il suo librettista preferito, il poeta Eric Crozier, nella piccola Aldeburgh, nel Suffolck, dove quasi tutte le sue opere vengono pensate per la “Jubilee Hall”: 300 posti e senza una vera buca d’orchestra, sino a quando non venne ampliata in occasione della prima di “A midsummer night’s dream” nel 1960. A fronte di una certa avanguardia atonale e dodecafonica che aveva trovato il proprio fortilizio a Darmstadt, che espandeva l’organico anche al di là di quanto previsto da Mahler e che componeva su testi di impronta marxista, Britten era “scomodo” per vari motivi: mostrava che si poteva innovare, sino a costruire nuove esperienze foniche, e avere successo pur lavorando con mezzi ridotti e scrivendo partiture che avevano il favore del pubblico; traeva ispirazione da una vasta gamma di fonti (dalla Bibbia alle leggende popolari Usa, al teatro nô nipponico, alla letteratura inglese, alla storia romana, alla narrativa di Maupassant e di Mann), nessuna delle quali di stampo marxista ma molte di origine religiosa oppure rilette in chiave cristiana ove non apertamente cattolica.

Era anche “scomodo” perché, pur riconosciuto come compositore di Corte (anche l’opera “Gloriana”, composta per il Covent Garden in occasione dell’incoronazione di Elisabetta II è forse uno dei suoi lavori meno riusciti), si teneva lontano dal mercato delle sovvenzioni pubbliche: si vantava di riuscire a mandare avanti il Festival di Aldeburgh in gran parte con la biglietteria e i diritti d’autore per i suoi lavori, che avevano grande successo non solo nel mondo anglosassone ma anche in Estremo Oriente, dove trasse ispirazione per “Curlew river”, “The prince of Pagodas” e “Songs from the Chinese”. Era, infine, scomodo perché, in una Gran Bretagna dove l’omosessualità era tanto praticata che vigevano leggi pesanti contro chi la metteva in opera, era un “gay” discretissimo: dall’età di 23 anni alla morte divise la propria vita con Peter Pears, senza mai dare adito a scandalo e, forse, avendo un rapporto casto. Ce n’è abbastanza per essere, per certa intelligentsia, “scomodo” ancora adesso. Ed è scomodo “Death in Venice” perché, nell’efficace regia di Deborah Warner, le belle scene di Tom Pye, negli accurati costumi di Clohe Obolenski, nelle luci di Jean Kalman, nella dilatata e struggente direzione musicale di Edward Gardner e negli ottimi interpreti (su tutti spicca John Graham-Hall che la sera della “prima” ha avuto vere e proprie ovazioni) non pone l’accento sull’attrazione omoerotica. Come faceva invece il film di Luchino Visconti, tratto dalla medesima novella di Thomas Mann. Con una fedeltà rigorosa allo spirito dello scrittore tedesco, il tema centrale del lavoro è il rimorso per ciò che non si è fatto durante l’esistenza terrena, il rimpianto della giovinezza e della bellezza perduta, l’angoscia per cosa si troverà dopo la traghettata con Caronte. In una Venezia il cui centro città è sciroccoso e maleodorante, nuvoloso e afoso, mentre al Lido risplende un sole abbagliante.

L’elenco non è esaustivo ma indicativo del successo, pur se tardivo, del teatro in musica di Britten. Il pubblico non è mai mancato e gli “esauriti” sono la prova più concreta dell’apprezzamento. D’altro canto, basta pensare che la sua ultima opera, “A death in Venice”, aveva avuto nel solo 1973 ben 15 differenti allestimenti (tra cui Aldenburgh, dove Britten risiedeva, Venezia, Edimburgo, Bruxelles e Londra) e l’anno seguente era approdata con enorme successo al Metropolitan di New York. Il suo stile musicale eclettico non rifiuta mai la scrittura tonale ed è accattivante anche per chi non ha dimestichezza con le convenzioni della musica del Novecento: pur continuando nella grande tradizione britannica iniziata con Purcell, fa propria la tecnica di Berg di adottare la forma di un tema su cui costruire ciascuna scena inserendo molteplici variazioni e intercalando le varie scene con intermezzi indipendenti che servano da elementi di unificazione musicale e drammatica. Altro aspetto fondante è la capacità di ottenere il massimo colore e calore orchestrale con il minimo di organico (unicamente 13 elementi ad esempio in “The turn of the screw” e una versione a organico ridotto per “Billy Budd” pur concepito, inizialmente, come un grand opéra). Anche in “Death in Venice” l’organico è stringato, con un’eccezione: le percussioni che caratterizzano il mondo di Tadzio, il giovano polacco la cui avvenenza turba il protagonista, l’anziano scrittore Aschenbach.

Grande attenzione, poi, alle voci. Pur nel rispetto delle convenzioni, riscopre il controtenore e lo accompagna (in “A midsummer night’s dream”) in duetti estatici con un soprano di coloratura. Oppure, in “Billy Budd”, utilizza 17 voci maschili (cinque tenori, otto baritoni, un baritono basso e tre bassi) e nessuna voce femminile, affidando la vocalità chiara a un quartetto di adolescenti e dieci fanciulli che non cantano ma chiacchierano sullo sfondo. In “The turn of the screw”, invece, le voci sono quasi esclusivamente femminili (tre soprani e due voci bianche) con cui contrasta un bari-tenore in grado, però, di scendere di ottave sino a giungere a una vocalità da basso. Naturalmente, il metodo di organizzazione cambia quando si tratta di musica concepita per essere eseguita in chiesa (Britten era cattolico praticante), in cui il pubblico viene considerato non in veste di spettatore ma di compartecipe all’azione liturgica; quindi, alcune parti erano pensate perché fossero eseguite dall’intera congregazione. Britten si poneva infatti incessantemente il problema di come far vivere il teatro in musica e dare a esso un pubblico, in un’epoca densa di tante altre sollecitazioni (dal cinema, alla tv, alla riduzione dei tempi e dei costi dei trasporti e, quindi, all’aumento del turismo). Per questa ragione, già nel 1946 riapre il Festival di Glyndebourne nel Sussex, ora diventato il più esclusivo dei festival musicali, tanto che non accetta sovvenzioni pubbliche e la lista di attesa per diventarne soci è di 20 anni.

Nel 1947 Britten crea l’English opera group, una compagnia itinerante che con pochi mezzi potesse portare la lirica in città anche minori della Gran Bretagna e che ebbe gran successo pure in Svizzera e Olanda. Sempre per questo motivo, pur considerato “compositore di Corte”, si trasferisce con il suo compagno di vita, il tenore Peter Pears, e il suo librettista preferito, il poeta Eric Crozier, nella piccola Aldeburgh, nel Suffolck, dove quasi tutte le sue opere vengono pensate per la “Jubilee Hall”: 300 posti e senza una vera buca d’orchestra, sino a quando non venne ampliata in occasione della prima di “A midsummer night’s dream” nel 1960. A fronte di una certa avanguardia atonale e dodecafonica che aveva trovato il proprio fortilizio a Darmstadt, che espandeva l’organico anche al di là di quanto previsto da Mahler e che componeva su testi di impronta marxista, Britten era “scomodo” per vari motivi: mostrava che si poteva innovare, sino a costruire nuove esperienze foniche, e avere successo pur lavorando con mezzi ridotti e scrivendo partiture che avevano il favore del pubblico; traeva ispirazione da una vasta gamma di fonti (dalla Bibbia alle leggende popolari Usa, al teatro nô nipponico, alla letteratura inglese, alla storia romana, alla narrativa di Maupassant e di Mann), nessuna delle quali di stampo marxista ma molte di origine religiosa oppure rilette in chiave cristiana ove non apertamente cattolica.

Era anche “scomodo” perché, pur riconosciuto come compositore di Corte (anche l’opera “Gloriana”, composta per il Covent Garden in occasione dell’incoronazione di Elisabetta II è forse uno dei suoi lavori meno riusciti), si teneva lontano dal mercato delle sovvenzioni pubbliche: si vantava di riuscire a mandare avanti il Festival di Aldeburgh in gran parte con la biglietteria e i diritti d’autore per i suoi lavori, che avevano grande successo non solo nel mondo anglosassone ma anche in Estremo Oriente, dove trasse ispirazione per “Curlew river”, “The prince of Pagodas” e “Songs from the Chinese”. Era, infine, scomodo perché, in una Gran Bretagna dove l’omosessualità era tanto praticata che vigevano leggi pesanti contro chi la metteva in opera, era un “gay” discretissimo: dall’età di 23 anni alla morte divise la propria vita con Peter Pears, senza mai dare adito a scandalo e, forse, avendo un rapporto casto. Ce n’è abbastanza per essere, per certa intelligentsia, “scomodo” ancora adesso. Ed è scomodo “Death in Venice” perché, nell’efficace regia di Deborah Warner, le belle scene di Tom Pye, negli accurati costumi di Clohe Obolenski, nelle luci di Jean Kalman, nella dilatata e struggente direzione musicale di Edward Gardner e negli ottimi interpreti (su tutti spicca John Graham-Hall che la sera della “prima” ha avuto vere e proprie ovazioni) non pone l’accento sull’attrazione omoerotica. Come faceva invece il film di Luchino Visconti, tratto dalla medesima novella di Thomas Mann. Con una fedeltà rigorosa allo spirito dello scrittore tedesco, il tema centrale del lavoro è il rimorso per ciò che non si è fatto durante l’esistenza terrena, il rimpianto della giovinezza e della bellezza perduta, l’angoscia per cosa si troverà dopo la traghettata con Caronte. In una Venezia il cui centro città è sciroccoso e maleodorante, nuvoloso e afoso, mentre al Lido risplende un sole abbagliante.
7 mar 2011 13:29
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