Le Borse, le quotazioni del dollaro Usa ed anche quelle del petrolio hanno salutato con un tonfo la conclusione dell’assemblea annuale del Fondo monetario internazionale (Fmi) e della Banca mondiale (Bm). In effetti, dopo i cambiamenti al vertice delle due istituzioni, e soprattutto in seguito ad una lunga preparazione del G7 del 19 ottobre, le aspettative erano numerose. In particolare, si pensava che dagli incontri di Washington si sarebbe aperta la strada a un riassetto dei tassi di cambio (in pratica rivalutazione della moneta della Cina), e, quindi, a un rilancio del negoziato multilaterale per la liberalizzazione degli scambi, nonché ovviamente alla soluzione di problemi più immediati ed all’impostazione della riforma delle istituzioni finanziarie internazionali (Fmi in primo luogo).
Come ci si attendeva, il comunicato finale del G7 ha ripetuto un appello alla Cina perché modifichi la propria politica di aggancio dello yuan al dollaro Usa; la Cina non fa parte del G7, ma la delegazione cinese (unitamente a quelle di un certo numero di Paesi asiatici e medio-orientali, nonché a quella della Norvegia – tutti caratterizzati da forti riserve valutarie) è invitata ad una cena offerta (subito dopo la riunione dei “grandi”) dal Tesoro Usa. E’ a quella tavola che si sarebbe fatta l’intesa sul riassetto dei cambi. Si era vagheggiato di un nuovo “accordo del Plaza” (con riferimento a quello raggiunto il 22 settembre 1985 per i riequilibrio dei cambi dollaro-marco-yen). Due elementi avrebbero dovuto frenare tali entusiasmi: le gelide note del Tesoro britannico secondo cui il G7 e lo Fmi avrebbero dovuro concentrarsi sulle problematiche immediate dei mercati e sui temi strutturali di lungo periodo senza sfiorare argomenti relativi ai tassi di cambio; il 17simo Congresso Nationale del Partito in corso a Pechino. Ed, in effetti, si è ottenuto dalla delegazione cinese a Washington unicamente un vago impegno a riesaminare la propria politica di cambio (e di gestione delle riserve).
Per quanto inevitabilmente intrecciato con le problematiche dei cambi, al centro della riunione c’era la stabilità dei mercati finanziari (dopo le tensioni di questa estate). Gli “sherpas” avevano predisposto, nelle riunioni tecniche preparatorie, una vasta gamma di ipotesi mirate ad assicurare una maggiore trasparenza, una più attenta gestione del rischio (specialmente rispetto a prodotti finanziari complessi), un’intesa su come trattare la finanza strutturata nella contabilità aziendale, eventuali controlli e verifiche sulle società di rating (e sulla qualità del loro lavoro), una più efficace supervisione delle finanziarie che trattano prodotti innovativi. Il menu è ampio: su ciascuno di questi capitoli, gli “sherpas” avevano meticolosamente delineato le posizioni dei “grandi”. Tutte si scontravano, però, con un ostacolo: come attuare misure pur considerate urgenti se non si raggiunge, prioritariamente, un accordo sul futuro del Fmi (che dovrebbe dare ad esse corpo specifico e realizzazione).
I lavori sulla riforma del Fmi sono estremamente complessi in quanto riguardano non soltanto i compiti istituzionali dello Fmi e la sua “filosofia economica” ma la rappresentatività dei suoi organi di governo e di gestione (fortemente sbilanciati a favore dei Paesi del G7 mentre gran parte della finanza e dell’economia mondiale è ora delle mani di nuovi “entranti”, Cina, India, Brasile, Opec). Come scritto sull’Occidentale del 2 ottobre, l’Italia potrebbe rimetterci le penne (ossia il seggio al Fmi). In questo campo, comunque, qualcosa si è ottenuto: una revisione del 10% delle quote (e dei diritti di voto) da mettere a punto a livello tecnico nei prossimi mesi con la speranza che la trattativa sarà completata per la primavera prossima quando si riunirà di nuovo l’organo di governo del Fmi , che, ricordiamolo, è presieduto dal Ministro dell’Economia e delle Finanze italiano, Tommaso Padoa-Schioppa. Il quale in questa sua funzione internazionale riesce a pesare più di quanto non faccia in Italia.
Per approfondimenti
Fogel R. W. Capitalism and Democracy in 2040: Forecasts and Speculations NBER Working Paper No. W13184
Obstfeld M., Taylor A. Global Capital Markets: Integration, Crisis and Growth Cambridge University Press, Londra 2004
Pelanda C. La Grande Alleanza: l’integrazione globale delle democrazie Franco Angeli, 2007
sabato 27 ottobre 2007
venerdì 26 ottobre 2007
OTTIMISTI O PESSIMISTI? MEGLIO ULTRACONTRARIAN
Venti anni dopo la crisi dell’azionario del 1987 giova ricordare l’analisi svolta da Richard Bernstein di Merrill Lynch, il quale aveva sottolineato che la strategia vincente dopo il crollo del 17 ottobre era stata quella “ultracontrarian” che si focalizza su obbligazioni di alta qualità, settori difensivi (e poco volatili), azioni di imprese ad alta capitalizzazione ed alti dividendi. Una strategia che potrebbe tornare di attualità.
Dopo la breve battuta d’arresto immediatamente dopo l’assemblea annuale del Fondo Monetario e della Banca Mondiale gli indici di Borsa hanno ripreso a crescere sub tutte le principali piazze. La stampa francese sottolinea che l’ascesa delle quotazioni (a Parigi, Francoforte e Londra) rispecchia una certa incredulità degli operatori rispetto alle meste previsioni della Commissione Europea e dell’Ocse: l’economia reale avrebbe prospettive a breve e medio termini migliori di quanto affermano i loro modelli econometrici. Analogamente, un tema ricorrente nei titoli nelle newsletter americane è che “l’ottimismo supera la paura” (che il rallentamento degli ultimi mesi scivoli in una recessione all’inizio del 2008). In Asia l’atmosfera è addirittura euforica. Ciò comporta dilemmi per il Comitato per le Operazione sul Mercato Aperto della Federal Reserve che si riunisce il 30-31 ottobre e deve decidere, dopo il ribasso di 50 punti di base (portandolo a 4,75%) del tasso di riferimento – negli Usa è l’interbancario- deciso il 18 settembre, mantenerlo invariato o se ritoccarlo ulteriormente. In quale direzione.
Una lettura attenta del verbale del Comitato, diramato il 9 ottobre, mostra che la decisione (di ridurre il tasso di riferimento) , anche se alla fine unanime, è stata raggiunta dopo una vivace discussione. In altri termini, non tutti i componenti dell’organo di governo Usa erano convinti dalle analisi del servizio studi della Fed (secondo cui gli Usa starebbe rasentando la recessione). La Borsa-rappresenterebbe la più eloquente smentita degli umori non certo ottimisti degli econometrici della Fed, a ragione dei record toccati non solo da indici dei mercati nazionali ma anche da quelli globali come il Msci e soprattutto il Msci dedicato ai mercati emergenti. Inoltre la diffusione di quello che in gergo viene chiamato il “reflation trade” (acquisto di titoli di mercati emergenti, di azioni cicliche, di derivati con forti componenti di materie prime) indicherebbe che gli operatori si aspettano un’economia internazionale (ed americana) con il vento in poppa.
Avrebbe verosimilmente una delusione se gli econometrici della Fed avessero ragione ed il rallentamento dell’economia Usa si accentuasse nei prossimi mesi. Chi vincerebbe in questo scenario? La stessa Merrill Lynch parla delle delle plusvalenze che si possono portano a casa quando si è pessimisti. In ogni caso, uno scenario in cui mantenersi sulla bassa volatilità potrebbe essere premiante
Dopo la breve battuta d’arresto immediatamente dopo l’assemblea annuale del Fondo Monetario e della Banca Mondiale gli indici di Borsa hanno ripreso a crescere sub tutte le principali piazze. La stampa francese sottolinea che l’ascesa delle quotazioni (a Parigi, Francoforte e Londra) rispecchia una certa incredulità degli operatori rispetto alle meste previsioni della Commissione Europea e dell’Ocse: l’economia reale avrebbe prospettive a breve e medio termini migliori di quanto affermano i loro modelli econometrici. Analogamente, un tema ricorrente nei titoli nelle newsletter americane è che “l’ottimismo supera la paura” (che il rallentamento degli ultimi mesi scivoli in una recessione all’inizio del 2008). In Asia l’atmosfera è addirittura euforica. Ciò comporta dilemmi per il Comitato per le Operazione sul Mercato Aperto della Federal Reserve che si riunisce il 30-31 ottobre e deve decidere, dopo il ribasso di 50 punti di base (portandolo a 4,75%) del tasso di riferimento – negli Usa è l’interbancario- deciso il 18 settembre, mantenerlo invariato o se ritoccarlo ulteriormente. In quale direzione.
Una lettura attenta del verbale del Comitato, diramato il 9 ottobre, mostra che la decisione (di ridurre il tasso di riferimento) , anche se alla fine unanime, è stata raggiunta dopo una vivace discussione. In altri termini, non tutti i componenti dell’organo di governo Usa erano convinti dalle analisi del servizio studi della Fed (secondo cui gli Usa starebbe rasentando la recessione). La Borsa-rappresenterebbe la più eloquente smentita degli umori non certo ottimisti degli econometrici della Fed, a ragione dei record toccati non solo da indici dei mercati nazionali ma anche da quelli globali come il Msci e soprattutto il Msci dedicato ai mercati emergenti. Inoltre la diffusione di quello che in gergo viene chiamato il “reflation trade” (acquisto di titoli di mercati emergenti, di azioni cicliche, di derivati con forti componenti di materie prime) indicherebbe che gli operatori si aspettano un’economia internazionale (ed americana) con il vento in poppa.
Avrebbe verosimilmente una delusione se gli econometrici della Fed avessero ragione ed il rallentamento dell’economia Usa si accentuasse nei prossimi mesi. Chi vincerebbe in questo scenario? La stessa Merrill Lynch parla delle delle plusvalenze che si possono portano a casa quando si è pessimisti. In ogni caso, uno scenario in cui mantenersi sulla bassa volatilità potrebbe essere premiante
Perché Prodi è caduto sulla Scuola di pubblica amministrazione da l'Occidentale
La sinistra ancora (per ora) al Governo dovrebbe rileggere un libro “cult” del riformismo mondiale: “Come far passare le riforme” di Albert Hirschmann (ed. italiana Il Mulino, Bologna 1990; ed. originale americanaa Twentieth Centtury Fund, New York, 1963). Il saggio, datato (ma ancora attuale) traccia un percorso secondo il quale la “la valutazione condivisa” è il filo di Arianna per fare non solo approvare le riforme ma soprattutto per attuarle e farle essere efficienti, efficaci e durature. Altrimenti, c’è il rischio di cadere nell’effimero, e di innescare contraccolpi, irrigidimenti dell’esistente, ed il ripristino del passato sotto nuove forme e guise.
Hirschmann, cresciuto e laureato a Trieste e cognato di Altiero Spinelli, anche se da decenni tra gli Usa (di cui è cittadino) e l’America Latina, avverte che il vero riformismo è morigerato, frugale: quando si cerca di fare una scorpacciata (anche per fini nobili) si innescano contraccolpi che diventano durissimi se, a torto o ragione, gli scopi non sono giudicati tanto nobili, ma personalistici. Alcuni anni fa, con P.L. Scandizzo dell’Università di Roma Tor Vergata, ho rimesso mano all’approccio riformista di Hirschmann, aggiornando la strumentazione tecnica ed arricchendolo di “casi di studio”, ma giungendo a conclusioni analoghe.
Al catalogo si aggiunge un nuovo “caso di studio” su cui tutti, ma Prodi & Co. in primo luogo, dovrebbero meditare. Circa un fa, proprio mentre le Poste emettevano un francobollo per celebrare i 50 anni dall’istituzione della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione (Sspa), venivano introdotti, di soppiatto con un emendamento dell’ultim’ora, alcuni commi (580-586) della legge finanziaria in fase di approvazione con i quali si sopprimeva l’istituto “a far data dal 31 marzo 2007” , scadenza spostata al 15 giugno nella conversione in legge del decreto legge “Mille proroghe” (e di fatto diventata “sine die” tramite un altro marchingegno giuridico). Sarebbe nata un’Agenzia per la formazione di cui avrebbero fatto parte anche l’Istituto diplomatico, la Scuola superiore di economia e finanza e la Scuola superiore del ministero dell’Interno (tali Scuole, tuttavia, avrebbero mantenuto la loro autonomia amministrativa). L’Agenzia, dotata di personalità ed autonomia giuridica, avrebbe avuto tre compiti: a) accreditamento, in un apposito albo, di istituti pubblici e privati per la formazione di personale (a tutti i livelli della Pa) - tale formazione verrebbe svolta in seguito a gare; b) ricerca, sviluppo e sperimentazione in materia di formazione ed ammodernamento della Pa; c) reclutamento e formazione dei dirigenti della Pa. Un regolamento governativo, tale da potere anche modificare leggi pre-esistenti (tranne quella che lo contempla), avrebbe dovuto disciplinare il tutto.
Nessuna analisi (tanto meno “condivisa”) era alla base del cambiamento. Le malelingue dicono che veniva fatto per accontentare qualcuno non entrato in Parlamento e desideroso di una posizione importante - quale la gestione di 200 milioni di euro l’anno da affidare ad enti ed imprese del costituendo albo. Nessuna indicazioni su risparmi od aggravi di spesa pubblica. Le prime analisi (effettuate dalla Ragioneria Generale dello Stato) avrebbe evidenziato un forte aggravio di spesa pubblica (proprio in una fase in cui si cerca, invece, di fare economia).
Una bozza di regolamento è stata predisposta da una Commissione; quando nel giugno scorso è stata esaminata in pre-Consiglio dei Ministri è stata - affermano le note di riunione - ricusata da tutti i presenti (non solo dai ministeri degli Affari Esteri, dell’Interno e dell’Economia che avrebbero dovuto dare il concerto), quindi, ritirata e mai inviata né al Cdm né al Consiglio di Stato, il cui parere è obbligatorio. Ancora una volta, la critica principale è stata la mancanza di analisi ed il timore di dare vita ad un carrozzone mangia soldi. A mero titolo di raffronto, è stato ricordato che quando nel lontano 1981 l’allora ministro del Bilancio e della Programmazione Economica, Giorgio La Malfa, pensò di riordinare il piccolo dicastero (una micro-struttura rispetto all’insieme della formazione pubblica) commissionò, a gratis, un’analisi di fattibilità, dei costi e dei benefici alla Mc Kinsey - una delle maggiori società di consulenza in materia.
Viene allora nominata una nuova Commissione; il suo rapporto resta riservato ma pare esprima seri dubbi sull’idea di fondo. A quelli finanziari si aggiunge il nodo di chi formulerà i programmi di formazione e ne coordinerà, monitorerà e valuterà l’attuazione. Adesso, anche in base alla prassi di analoghi istituti stranieri, ciò è il compito di una trentina di “docenti stabili” (in effetti con incarichi normalmente a due anni) provenienti dalle università, dalla magistratura e dalla alta dirigenza pubblica, un “melting pot” originale con professionalità complementari. Sino al 1997, il corpo docente “stabile” è stato scelto con procedure di evidenza pubblica in cui i selezionatori hanno sempre avuto cura anche di equilibrare differenti sensibilità di visione politico-sociale. L’intenzione era invece di sostituirli con “esperti” con incarichi a breve termine e con una visione prevalentemente di parte; in tal modo la dirigenza pubblica verrebbe condizionata da chiunque vinca le elezioni ed abbia responsabilità di governo - ciò avrebbe dovuto preoccupare non solo l’opposizione ma anche la traballante maggioranza. Nelle discussioni sulla costituenda Agenzia è stato proposto che il Presidente, in analogia con quanto previsto per cariche analoghe, abbia il gradimento di due terzi delle pertinenti commissioni parlamentari. Naturalmente, chi aspirava alla poltronissima non era affatto d’accordo con questa ipotesi.
In questo bailamme, per sbloccare la situazione, il 19 ottobre un senatore Ds è riuscito a fare approvare, in seno alla Commissione Bilancio del Senato in sede referente, un emendamento al disegno di legge di ratifica del decreto legge fiscale secondo il quale la Sspa, l’Istituto diplomatico, la Scuola superiore di economia e finanza e la Scuola superiore del ministero dell’Interno sarebbe state assorbite dall’Agenzia (con le loro risorse umane, materiali e finanziarie). Se avesse letto Hirschmann, non avrebbe tentato il colpo di mano (e si sarebbe dedicato invece ad un serio studio di fattibilità del costituendo ente, carrozzone o meno che sia). Il risultato è stata una levata di scusi anti-Governo di quasi tutta la dirigenza pubblica che ha sobillato contro l’emendamento i principali ministri interessati. Sabato e domenica, Palazzo Chigi ha tentato un “lodo”. Constatatane l’impossibilità, il sottosegretario Mario Lettieri, che rappresentava il Governo, ha rimesso all’aula la decisione. Con i risultati che sappiamo. Il prossimo passo sarà inevitabilmente l’abrogazione dei comma 580-586 della finanziaria dell’anno scorso. Tra l’altro, è interesse della sinistra (visti il probabile avvicinarsi di nuove elezioni) che la dirigenza pubblica non sia compatta contro chi considera responsabile del caos causato dai comma in questione nel settore della formazione pubblica negli ultimi mesi. A maggior ragione (dato il probabile esito delle elezioni) è interesse dalla sinistra che la dirigenza pubblica non venga formata da “esperti” di parte (verosimilmente avversi a Prodi & Co.)
Hirschmann, cresciuto e laureato a Trieste e cognato di Altiero Spinelli, anche se da decenni tra gli Usa (di cui è cittadino) e l’America Latina, avverte che il vero riformismo è morigerato, frugale: quando si cerca di fare una scorpacciata (anche per fini nobili) si innescano contraccolpi che diventano durissimi se, a torto o ragione, gli scopi non sono giudicati tanto nobili, ma personalistici. Alcuni anni fa, con P.L. Scandizzo dell’Università di Roma Tor Vergata, ho rimesso mano all’approccio riformista di Hirschmann, aggiornando la strumentazione tecnica ed arricchendolo di “casi di studio”, ma giungendo a conclusioni analoghe.
Al catalogo si aggiunge un nuovo “caso di studio” su cui tutti, ma Prodi & Co. in primo luogo, dovrebbero meditare. Circa un fa, proprio mentre le Poste emettevano un francobollo per celebrare i 50 anni dall’istituzione della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione (Sspa), venivano introdotti, di soppiatto con un emendamento dell’ultim’ora, alcuni commi (580-586) della legge finanziaria in fase di approvazione con i quali si sopprimeva l’istituto “a far data dal 31 marzo 2007” , scadenza spostata al 15 giugno nella conversione in legge del decreto legge “Mille proroghe” (e di fatto diventata “sine die” tramite un altro marchingegno giuridico). Sarebbe nata un’Agenzia per la formazione di cui avrebbero fatto parte anche l’Istituto diplomatico, la Scuola superiore di economia e finanza e la Scuola superiore del ministero dell’Interno (tali Scuole, tuttavia, avrebbero mantenuto la loro autonomia amministrativa). L’Agenzia, dotata di personalità ed autonomia giuridica, avrebbe avuto tre compiti: a) accreditamento, in un apposito albo, di istituti pubblici e privati per la formazione di personale (a tutti i livelli della Pa) - tale formazione verrebbe svolta in seguito a gare; b) ricerca, sviluppo e sperimentazione in materia di formazione ed ammodernamento della Pa; c) reclutamento e formazione dei dirigenti della Pa. Un regolamento governativo, tale da potere anche modificare leggi pre-esistenti (tranne quella che lo contempla), avrebbe dovuto disciplinare il tutto.
Nessuna analisi (tanto meno “condivisa”) era alla base del cambiamento. Le malelingue dicono che veniva fatto per accontentare qualcuno non entrato in Parlamento e desideroso di una posizione importante - quale la gestione di 200 milioni di euro l’anno da affidare ad enti ed imprese del costituendo albo. Nessuna indicazioni su risparmi od aggravi di spesa pubblica. Le prime analisi (effettuate dalla Ragioneria Generale dello Stato) avrebbe evidenziato un forte aggravio di spesa pubblica (proprio in una fase in cui si cerca, invece, di fare economia).
Una bozza di regolamento è stata predisposta da una Commissione; quando nel giugno scorso è stata esaminata in pre-Consiglio dei Ministri è stata - affermano le note di riunione - ricusata da tutti i presenti (non solo dai ministeri degli Affari Esteri, dell’Interno e dell’Economia che avrebbero dovuto dare il concerto), quindi, ritirata e mai inviata né al Cdm né al Consiglio di Stato, il cui parere è obbligatorio. Ancora una volta, la critica principale è stata la mancanza di analisi ed il timore di dare vita ad un carrozzone mangia soldi. A mero titolo di raffronto, è stato ricordato che quando nel lontano 1981 l’allora ministro del Bilancio e della Programmazione Economica, Giorgio La Malfa, pensò di riordinare il piccolo dicastero (una micro-struttura rispetto all’insieme della formazione pubblica) commissionò, a gratis, un’analisi di fattibilità, dei costi e dei benefici alla Mc Kinsey - una delle maggiori società di consulenza in materia.
Viene allora nominata una nuova Commissione; il suo rapporto resta riservato ma pare esprima seri dubbi sull’idea di fondo. A quelli finanziari si aggiunge il nodo di chi formulerà i programmi di formazione e ne coordinerà, monitorerà e valuterà l’attuazione. Adesso, anche in base alla prassi di analoghi istituti stranieri, ciò è il compito di una trentina di “docenti stabili” (in effetti con incarichi normalmente a due anni) provenienti dalle università, dalla magistratura e dalla alta dirigenza pubblica, un “melting pot” originale con professionalità complementari. Sino al 1997, il corpo docente “stabile” è stato scelto con procedure di evidenza pubblica in cui i selezionatori hanno sempre avuto cura anche di equilibrare differenti sensibilità di visione politico-sociale. L’intenzione era invece di sostituirli con “esperti” con incarichi a breve termine e con una visione prevalentemente di parte; in tal modo la dirigenza pubblica verrebbe condizionata da chiunque vinca le elezioni ed abbia responsabilità di governo - ciò avrebbe dovuto preoccupare non solo l’opposizione ma anche la traballante maggioranza. Nelle discussioni sulla costituenda Agenzia è stato proposto che il Presidente, in analogia con quanto previsto per cariche analoghe, abbia il gradimento di due terzi delle pertinenti commissioni parlamentari. Naturalmente, chi aspirava alla poltronissima non era affatto d’accordo con questa ipotesi.
In questo bailamme, per sbloccare la situazione, il 19 ottobre un senatore Ds è riuscito a fare approvare, in seno alla Commissione Bilancio del Senato in sede referente, un emendamento al disegno di legge di ratifica del decreto legge fiscale secondo il quale la Sspa, l’Istituto diplomatico, la Scuola superiore di economia e finanza e la Scuola superiore del ministero dell’Interno sarebbe state assorbite dall’Agenzia (con le loro risorse umane, materiali e finanziarie). Se avesse letto Hirschmann, non avrebbe tentato il colpo di mano (e si sarebbe dedicato invece ad un serio studio di fattibilità del costituendo ente, carrozzone o meno che sia). Il risultato è stata una levata di scusi anti-Governo di quasi tutta la dirigenza pubblica che ha sobillato contro l’emendamento i principali ministri interessati. Sabato e domenica, Palazzo Chigi ha tentato un “lodo”. Constatatane l’impossibilità, il sottosegretario Mario Lettieri, che rappresentava il Governo, ha rimesso all’aula la decisione. Con i risultati che sappiamo. Il prossimo passo sarà inevitabilmente l’abrogazione dei comma 580-586 della finanziaria dell’anno scorso. Tra l’altro, è interesse della sinistra (visti il probabile avvicinarsi di nuove elezioni) che la dirigenza pubblica non sia compatta contro chi considera responsabile del caos causato dai comma in questione nel settore della formazione pubblica negli ultimi mesi. A maggior ragione (dato il probabile esito delle elezioni) è interesse dalla sinistra che la dirigenza pubblica non venga formata da “esperti” di parte (verosimilmente avversi a Prodi & Co.)
lunedì 22 ottobre 2007
ADDIO ALLE PENSIONI DI DINI, E PANTALONE PAGA
Il 88 ottobre, mentre all’Isae (ente di ricerca controllato dal Ministero dell’Economia e delle Finanze) si teneva il convegno internazionale annuale di “monitoraggio” sulla politica economica italiana, veniva inviato in Parlamento il disegno di legge, ddl, sullo stato sociale modificato in seguito alle ultime trattative con i sindacati. L’aspetto saliente è un non tanto lungo addio a quella riforma Dini che nel 1995 introdusse, molto gradualmente, il metodo contributivo per il calcolo delle spettanze previdenziali.
Il pensionamento della riforma del 1995 viene effettuato con due strumenti tecnici: a) l’introduzione di una soglia pari al 60% dell’ultima retribuzione (non è chiaro se per tutte le fasce di reddito o soltanto per quelle a reddito medio-basso) da garantire integrando con la mano pubblica l’assegno previdenziale di vecchiaia calcolato con il metodo contributivo e b) l’ampliamento dei lavori da considerare usuranti per avere titolo a pensioni di anzianità. In effetti, definire una soglia alle pensioni di vecchiaia (analoga all’”integrazione al minino” vigente nel passato) non rappresenta di per sè la rinuncia alle basi del sistema contributivo. La stessa riforma Dini prevede un “assegno sociale” per gli anziani privi di altri redditi e le cui pensioni portino all’indigenza. La monumentale rassegna (700 pagine a stampa fitta) della venticinquina di sistemi contributivi attualmente in vigore fatta da Robert Holzmann e Edward Palmer mostra che tali soglie esistono un po’ dovunque. Una soglia del 60% implica però un tasso di sostituzione (tra ultimo stipendio e pensione) molto superiore a quello mediamente in vigore in molti Paesi europei – in Gran Bretagna, Francia e Germania si va dal 25 al 50%. Tale tasso non potrà mai essere finanziato (come prevedeva “a regime” la riforma Dini) con il montante dei contributi (anche solo figurativi) accumulati. Quindi, si dovrà fare ricorso sempre più a Pantalone (a ragione dell’andamento demografico), mandando definitivamente a riposo il sistema contributivo allestito da Dini & Co.
Ove ciò non bastasse, il contributivo viene fatto a pezzi dall’allargamento delle causali per pensioni di anzianità tramite una molto più ampia definizioni di lavori usuranti. Tutto ciò pone oneri sempre più pesanti sulle generazioni future e rende l’intero sistema di sicurezza sociale più fragile e più esposto ai venti del processo di integrazione economica internazionale (lo sostiene la International Social Security Review, nel cui consiglio scientifico siedono sindacalisti di rango). Il Fmi ha già arricciato il naso per il “bye, bye Lambertow”. I monitori riuniti nel bel villino di Piazza Indipendenza (sede dell’Isae) hanno un borbottato un pò. Ma ormai la decisione è preso: il vitello da immolare alla Santa Alleanze dell’Unione è la “Lambertow’s reform”. Il Senatore ed i suoi fedeli sono davvero pronti a fare tale fine?
Il pensionamento della riforma del 1995 viene effettuato con due strumenti tecnici: a) l’introduzione di una soglia pari al 60% dell’ultima retribuzione (non è chiaro se per tutte le fasce di reddito o soltanto per quelle a reddito medio-basso) da garantire integrando con la mano pubblica l’assegno previdenziale di vecchiaia calcolato con il metodo contributivo e b) l’ampliamento dei lavori da considerare usuranti per avere titolo a pensioni di anzianità. In effetti, definire una soglia alle pensioni di vecchiaia (analoga all’”integrazione al minino” vigente nel passato) non rappresenta di per sè la rinuncia alle basi del sistema contributivo. La stessa riforma Dini prevede un “assegno sociale” per gli anziani privi di altri redditi e le cui pensioni portino all’indigenza. La monumentale rassegna (700 pagine a stampa fitta) della venticinquina di sistemi contributivi attualmente in vigore fatta da Robert Holzmann e Edward Palmer mostra che tali soglie esistono un po’ dovunque. Una soglia del 60% implica però un tasso di sostituzione (tra ultimo stipendio e pensione) molto superiore a quello mediamente in vigore in molti Paesi europei – in Gran Bretagna, Francia e Germania si va dal 25 al 50%. Tale tasso non potrà mai essere finanziato (come prevedeva “a regime” la riforma Dini) con il montante dei contributi (anche solo figurativi) accumulati. Quindi, si dovrà fare ricorso sempre più a Pantalone (a ragione dell’andamento demografico), mandando definitivamente a riposo il sistema contributivo allestito da Dini & Co.
Ove ciò non bastasse, il contributivo viene fatto a pezzi dall’allargamento delle causali per pensioni di anzianità tramite una molto più ampia definizioni di lavori usuranti. Tutto ciò pone oneri sempre più pesanti sulle generazioni future e rende l’intero sistema di sicurezza sociale più fragile e più esposto ai venti del processo di integrazione economica internazionale (lo sostiene la International Social Security Review, nel cui consiglio scientifico siedono sindacalisti di rango). Il Fmi ha già arricciato il naso per il “bye, bye Lambertow”. I monitori riuniti nel bel villino di Piazza Indipendenza (sede dell’Isae) hanno un borbottato un pò. Ma ormai la decisione è preso: il vitello da immolare alla Santa Alleanze dell’Unione è la “Lambertow’s reform”. Il Senatore ed i suoi fedeli sono davvero pronti a fare tale fine?
sabato 20 ottobre 2007
QUELLE MELODIE CHE INNALZANO LO SPIRITO,IL DOMENICALE DEL 20 OTTOBRE
Per Platone, la musica è la più alta delle filosofie. Ad introduzione de “La notte dell’Epifania”, William Shakespeare afferma: “se la musica è cibo dell’amore, continua a suonare”. E’ quale amore è più forte di quello per l’Alto e , quindi, per il proprio prossimo? Il 16 aprile scorso al termine del concerto per il suo 80simo compleanno, Papa Benedetto XVI ha detto:“Sono convinto che la musica sia il linguaggio universale della bellezza, capace di unire tra loro gli uomini di buona volontà su tutta le terra e di portarli ad alzare lo sguardo verso l’Alto ed ad aprirsi al Bene ed al Bello assoluti, che hanno la loro ultima sorgente in Dio stesso”.
Queste parole di un Papa tedesco e teologo ricordano che in Germania anche nell’epoca dell’ateismo di Stato nei Länder orientali, l’educazione musicale è sempre stata tenuta in grande considerazione, verosimilmente in quanto (unico) nesso con l’Alto. Nella seconda metà degli Anni 70, ero in un’Etiopia dilaniata da guerre civili, siccità e carestie. A Gondar, vi era un solo alberghetto, spartano, in collina. A ragione dell’altitudine e della fievole lampadina, alle 22 dormivo. Alle 5 del mattino andai a sgranchirmi le gambe, scendendo verso il villaggio. Il silenzio venne rotto da un coro da una grotta trasformata in Chiesa rupestre- una monodia a più voci, prevalentemente bassi ma in cui i monaci più giovani avevano un registro simile a quello dei controtenori. Il testo e la partitura erano su un lungo rotolo in pergamena. Nel poverissimo insanguinato “Impero” (dove l’aspettativa di vita alla nascita si aggirava sui 35 anni), cantando le loro preci mattutine, con strumenti a percussione ed a fiato, i monaci, tramite la musica, viaggiavano dal Bene al Bello verso l’Alto. La composizione aveva molto in comune con l’antico Exsultet di Avezzano, forse la prima partitura rimastaci (risale all’XIX secolo), ascoltata a fine aprile a Roma a Santa Maria Maggiore. Un repertorio solo per pochi fidelizzati? Niente affatto. Nel 2004, l’associazione di musica contemporanea “Nuova Consonanza” ha dedicato alla “musica dello spirito”, il suo festival annuale. L’estate scorsa tre festival italiani hanno consentito di effettuare un viaggio dal tempo dei canti di Gondar e dell’Exsultet sino alla più sfrenata contemporaneità quale l’opera-video (con orchestra, solisti, mimi e live electronics) di Adriano Guarnieri, “Pietra di Diaspro”.
C’è un nesso tra la monodia rupestre dei monaci etiopi, l’Exsultet di Avezzano e le espressioni più moderne di musica spirituale quali quelle che impiegano il declamato ed il live electronics? Si può tentare una risposta grazie a due grandi manifestazioni, a Roma (il VI festival internazionale di musica e arte sacra dal 10 al 13 ottobre nelle quattro Basiliche vaticane) ed Pisa ( il VII festival internazionale di musica sacra Anima Mundi , dal 13 settembre al 20 ottobre). In ambedue si sono avvicendate grandi orchestre (Wiener Philarmoniker, Amsterdam Baroque Orchestra and Choir, Symphonisches Orchestre der Humbold-Universität, Royal Philarmonic Orchestra, Orchestra della Radio di Colonia, Concerto Italiano, Cappella Musicale della Cattedrale di Pisa) e grandi solisti con programmi articolati dal primo Seicento, al Barocco, al Romanticismo, al Novecento Storico (principalmente Britten) ed alla contemporaneità (la Missa Solemnis di Wolfgang Seifen in onore di Benedetto XVI), permettendo ancora un viaggio nei secoli.
Un anello importante per raccordare l’antico con la contemporaneità è un periodo spesso dimenticato (in quanto travolto dal barocco e dal romanticismo): la musica ambrosiana dei decenni successivi al Concilio di Trento, uno stile in parte imposto dal Cardinal Carlo Borromeo che richiese di applicare con rigore i precetti musicali del Concilio (che vietavano abbellimenti, soprattutto vocali, in quanto le preghiere vanno eseguite in modo chiaro e nella giusta velocità) La musica ambrosiana divenne monofonica, ed asciutta, imperniata sul falsobordone in cui il cantus firmus veniva accompagnato con voci parallele ad intervalli consonanti. Non distante dal declamato di Britten (si pensi alla cantata Saint Nicholas) e dalle espressioni con cui si apre questo XXI secolo. A Roma la si è ascoltata nel concerto “Nova Metamorfosi” de Le Poème Harmonique guidato da Vincent Dumestre. Quando i milanesi rivalorizzeranno questa loro significativa esperienza?
Queste parole di un Papa tedesco e teologo ricordano che in Germania anche nell’epoca dell’ateismo di Stato nei Länder orientali, l’educazione musicale è sempre stata tenuta in grande considerazione, verosimilmente in quanto (unico) nesso con l’Alto. Nella seconda metà degli Anni 70, ero in un’Etiopia dilaniata da guerre civili, siccità e carestie. A Gondar, vi era un solo alberghetto, spartano, in collina. A ragione dell’altitudine e della fievole lampadina, alle 22 dormivo. Alle 5 del mattino andai a sgranchirmi le gambe, scendendo verso il villaggio. Il silenzio venne rotto da un coro da una grotta trasformata in Chiesa rupestre- una monodia a più voci, prevalentemente bassi ma in cui i monaci più giovani avevano un registro simile a quello dei controtenori. Il testo e la partitura erano su un lungo rotolo in pergamena. Nel poverissimo insanguinato “Impero” (dove l’aspettativa di vita alla nascita si aggirava sui 35 anni), cantando le loro preci mattutine, con strumenti a percussione ed a fiato, i monaci, tramite la musica, viaggiavano dal Bene al Bello verso l’Alto. La composizione aveva molto in comune con l’antico Exsultet di Avezzano, forse la prima partitura rimastaci (risale all’XIX secolo), ascoltata a fine aprile a Roma a Santa Maria Maggiore. Un repertorio solo per pochi fidelizzati? Niente affatto. Nel 2004, l’associazione di musica contemporanea “Nuova Consonanza” ha dedicato alla “musica dello spirito”, il suo festival annuale. L’estate scorsa tre festival italiani hanno consentito di effettuare un viaggio dal tempo dei canti di Gondar e dell’Exsultet sino alla più sfrenata contemporaneità quale l’opera-video (con orchestra, solisti, mimi e live electronics) di Adriano Guarnieri, “Pietra di Diaspro”.
C’è un nesso tra la monodia rupestre dei monaci etiopi, l’Exsultet di Avezzano e le espressioni più moderne di musica spirituale quali quelle che impiegano il declamato ed il live electronics? Si può tentare una risposta grazie a due grandi manifestazioni, a Roma (il VI festival internazionale di musica e arte sacra dal 10 al 13 ottobre nelle quattro Basiliche vaticane) ed Pisa ( il VII festival internazionale di musica sacra Anima Mundi , dal 13 settembre al 20 ottobre). In ambedue si sono avvicendate grandi orchestre (Wiener Philarmoniker, Amsterdam Baroque Orchestra and Choir, Symphonisches Orchestre der Humbold-Universität, Royal Philarmonic Orchestra, Orchestra della Radio di Colonia, Concerto Italiano, Cappella Musicale della Cattedrale di Pisa) e grandi solisti con programmi articolati dal primo Seicento, al Barocco, al Romanticismo, al Novecento Storico (principalmente Britten) ed alla contemporaneità (la Missa Solemnis di Wolfgang Seifen in onore di Benedetto XVI), permettendo ancora un viaggio nei secoli.
Un anello importante per raccordare l’antico con la contemporaneità è un periodo spesso dimenticato (in quanto travolto dal barocco e dal romanticismo): la musica ambrosiana dei decenni successivi al Concilio di Trento, uno stile in parte imposto dal Cardinal Carlo Borromeo che richiese di applicare con rigore i precetti musicali del Concilio (che vietavano abbellimenti, soprattutto vocali, in quanto le preghiere vanno eseguite in modo chiaro e nella giusta velocità) La musica ambrosiana divenne monofonica, ed asciutta, imperniata sul falsobordone in cui il cantus firmus veniva accompagnato con voci parallele ad intervalli consonanti. Non distante dal declamato di Britten (si pensi alla cantata Saint Nicholas) e dalle espressioni con cui si apre questo XXI secolo. A Roma la si è ascoltata nel concerto “Nova Metamorfosi” de Le Poème Harmonique guidato da Vincent Dumestre. Quando i milanesi rivalorizzeranno questa loro significativa esperienza?
MARINI MEDITA SU COME CAMBIARE LA POLITICA
Ormai saldo in sella alla seconda carica dello Stato, Franco Marini è lontano dalla politica politicante e vuole concludere la propria carriera dando un contributo alto alla riforma della Politica con la “P” maiuscola. Non lo sfiorano più di tanto i pamphlet su casta o caste, ma, con il supporto del servizio studi del Senato, sta affrontando letture molte serie . In primo luogo, un’analisi delle Università di California a Berkeley, della Università Brown a Rhodes Island e della Northwestern University di Chicago (“Political Dynasties" “Dinastie politiche”, NBER Working Paper No. W13122) gli sottolinea come il fenomeno non sia soltanto italiano: ricostruendo la composizione del Congresso Usa dalla sua creazione nel 1789 si ricava che anche nel Paese considerato modello di democrazia sin dai tempi di Tocqueville esistono “dinastie” , più pervicaci dunque delle caste, nei seggi più alti del Legislativo e dell’Esecutivo. In secondo luogo, uno studio di Bruno Frey (il liberal-liberista per eccellenza dell’Università di Zurigo) –“ Overprotected Politicians" (“Politici iperprotetti)” Zurich IEER Working Paper No. 321- lo convince che l’antipolitica è alimentata dall’eccessiva protezione di cui godono i politici. Frey modellizza i costi dell’omicidio di un politico utilizzando tecniche aggiornate di analisi economica: differiscono significativamente a seconda che il punto di vista sia pubblico o privato. Il politico attribuisce un costo molto elevato (ove non infinito) alla propria sopravvivenza, mentre il costo sociale è, in effetti, molto più basso perché i politici sono sostituibili (con le elezioni). Di converso, il costo privato per la sicurezza dei politici è basso per i politici medesimi ma elevatissimo per la collettività (soprattutto se si tiene conto dei fastidi che impone ai cittadini). Benché svizzero, Frey è stato consigliere ascoltato di vari Ministri dell’Interno italiani ; quindi, il suo ultimo saggio merita di essere meditato. Ed integrato da letture sulla valutazione dell’incertezza, disponibili nella Biblioteca del Senato, ora ricche anche di contributi di autori italiani.
Una riforma della Politica – si chiede Marini – potrà contribuire a risolvere il problema centrale dell’Italia – quello della crescita? Una risposta è in dotto lavoro di Philippe Aghion, Alberto Alesina, Francesco Trebbi “Democracy, Technology, and Growth" (Democrazia, tecnologia e crescita) NBER Working Paper No. W13180. Lo studio contiene una parte teorica sugli effetti positive della democrazia , e della Buona Politica; sulla crescita della produttività in vari settori principalmente in quanto grimaldello per l’apertura dei mercati e per la competizione. La seconda parte è una dimostrazione empirica del modello.
Tuttavia un saggio – di Lorenz Blume, Jens Mueller, Stefan Voigt, e Carlsten Wolf (“The Economic Effects of Constitutions”, “Gli effetti economici delle Costituzioni” CESifo Working Paper Series No. 2017) – gli ricorda quali devono essere i contenuti della riforma: sulla base di un’analisi comparata di 116 Paesi, lo studio che i sistemi presidenziali (o semi-presidenziali) e meccanismi elettorali maggioritari facilitano sulla Buona Politica, specialmente se la mano dei partiti si tiene lontana dalla scelta dei candidati nei vari collegi. In caso contrario – avverte Massimo Bordignon della Cattolica nello studio “Exit and Voice: Yardstick versus Fiscal Competition across
Governments" (“Uscita e voce: misure per la competizione fiscale tra Governi -CESifo Working Paper Series No. 2069) c’è il rischio di una vera e propria secessione – di fatto anche ove se non di diritto.
Marini torna, pensoso, alle sue cure a Palazzo Madama.
Ex Libris
Una riforma della Politica – si chiede Marini – potrà contribuire a risolvere il problema centrale dell’Italia – quello della crescita? Una risposta è in dotto lavoro di Philippe Aghion, Alberto Alesina, Francesco Trebbi “Democracy, Technology, and Growth" (Democrazia, tecnologia e crescita) NBER Working Paper No. W13180. Lo studio contiene una parte teorica sugli effetti positive della democrazia , e della Buona Politica; sulla crescita della produttività in vari settori principalmente in quanto grimaldello per l’apertura dei mercati e per la competizione. La seconda parte è una dimostrazione empirica del modello.
Tuttavia un saggio – di Lorenz Blume, Jens Mueller, Stefan Voigt, e Carlsten Wolf (“The Economic Effects of Constitutions”, “Gli effetti economici delle Costituzioni” CESifo Working Paper Series No. 2017) – gli ricorda quali devono essere i contenuti della riforma: sulla base di un’analisi comparata di 116 Paesi, lo studio che i sistemi presidenziali (o semi-presidenziali) e meccanismi elettorali maggioritari facilitano sulla Buona Politica, specialmente se la mano dei partiti si tiene lontana dalla scelta dei candidati nei vari collegi. In caso contrario – avverte Massimo Bordignon della Cattolica nello studio “Exit and Voice: Yardstick versus Fiscal Competition across
Governments" (“Uscita e voce: misure per la competizione fiscale tra Governi -CESifo Working Paper Series No. 2069) c’è il rischio di una vera e propria secessione – di fatto anche ove se non di diritto.
Marini torna, pensoso, alle sue cure a Palazzo Madama.
Ex Libris
venerdì 19 ottobre 2007
Al G7 di Washington l'Italia è spaccata in due da l'Occidentale del 19 ottobre
Article content:
Le mura dei Ministeri – si dice – hanno orecchie e bocche. Parlano pure. Data la materia di cui trattano quelle del Palazzone umbertino di Via Venti Settembre (oggi sede del Ministero dell’Economia e delle Finanze) bisbigliano e mormorano (a bassa voce). Nei giorni in cui il loro titolare Tommaso Padoa-Schioppa (TPS, per gli amici e per la stampa) faceva le valigie per andare al G7 in programma a Washington il 19 ottobre (alla vigilia dell’Assemblea Annuale del Fondo monetario internazionale, Fmi, e della Banca mondiale, Bm) bisbigliavano e mormoravano di antichi dissapori. Circa un quarto di secolo fa, l’allora professorino Mario Draghi, nella veste di consigliere economico dei Ministri Beniamino Andreatta (prima) e Giovanni Goria (poi), batteva su una Olivetti meccanica appunti di fuoco anti- Bankitalia (i cui numeri avrebbero posto in difficoltà quello che allora era il Ministero del Tesoro). Gli appunti erano spesso conditi da conversazioni telefoniche animate (chiamiamole così!) le cui eco arrivavano, traversando le mura, nei lunghi (e tristi) corridoi, di cui l’ala che allora ospitava il Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica era stata da poco ri-imbiancata (intervento provvidenziale del Prof. Paolo Savona, durante il suo mandato nella veste di Segretario Generale alla Programmazione).
A Via Nazionale , l’interlocutore degli scambi non proprio di amorosi sensi era spesso un TPS, appena rientrato da un periodo in servizio alla Commissione Europea di Bruxelles.
Per le mormoranti mura di Via Venti Settembre, le parti si sono invertite – chi era nel Palazzone umbertino adesso è a Via Nazionale e viceversa – ma la conversazione animata iniziata un quarto di secolo fa continua. Un pò come “Il duello” del racconto di Richard Matheson immortalato nel film di Steven Spielberg del lontano 1971. Una puntata si è appena avuta la settimana scorsa, Mario Draghi, ora non più “professorino” ma Governatore della Banca d’Italia, ha fatto un po’ a pezzi, in Parlamento, il disegno di legge finanziaria – e la Relazione previsionale e programmatica , Rpp- presentati da TPS, non più reduce dalle brume di Bruxelles negli uffici ai piani alti di Via Nazionale ma Ministro dell’Economia e delle Finanze. Come ama ricordare VVV (Viceministro Vincenzo Visco), TPS non è un politico ma un tecnico. Ha, quindi, ignorato il precetto secondo cui in politica alle provocazioni non si risponde. Ha replicato con una nota stizzita dei suoi uffici.
Non entriamo nel merito della polemica: su L’Occidentale del primo ottobre abbiamo documentato che i conti non tornano e quantificato in prima approssimazione il buco annunciato. Le cifre di Bankitalia (elaborate con una strumentazione molto più raffinata della nostra) non si distanziano da quelle pubblicate poco più di due settimane fa sul nostro “orientamento quotidiano”. Nello scambio di idee (per così dire) la sostanza è meno importante della forma: nelle cancellerie economiche internazionali (che seguono da presso ciò che avviene nel nostro Paese) si è ricevuta l’impressione che non un’Italia ma due , con strategie di finanza pubblica e di politica economica differenti, stiano andando ad un G7 quanto mai complicato. All’ordine del giorno ci sono problemi immediati – quali le conseguenze sui mercati finanziari e sull’economia reale della crisi della finanza strutturata, le regole e le prassi di trasparenza per il settore bancario, la vigilanza su private equità, hedge fund e strumenti analoghi- nonché temi di più lungo periodo – quali il riassetto del Fmi e pure un’eventuale fusione di Fmi e Bm. Di Italia si parlerà poco in quanto all’Ecofin della settimana scorsa il nostro Paese ha avuto quel 18 e quel mezzo sigaro toscano che nessuna commissione di professori di buon cuore rifiuta ad uno studente volenteroso (pur se un po’ discolo). Tuttavia, se la visione di quella che deve essere la strategia di politica economica e di finanza pubblica diverge tanto tra Via Venti Settembre e Via Nazionale da essere giunti a note stizzite, - si chiedono - c’è un’intesa a livello politico-istituzionale sui temi di maggior momento all’ordine del giorno del G7? oppure occorre contare sulla buona volontà dei funzionari delle due istituzioni?
Le mura dei Ministeri – si dice – hanno orecchie e bocche. Parlano pure. Data la materia di cui trattano quelle del Palazzone umbertino di Via Venti Settembre (oggi sede del Ministero dell’Economia e delle Finanze) bisbigliano e mormorano (a bassa voce). Nei giorni in cui il loro titolare Tommaso Padoa-Schioppa (TPS, per gli amici e per la stampa) faceva le valigie per andare al G7 in programma a Washington il 19 ottobre (alla vigilia dell’Assemblea Annuale del Fondo monetario internazionale, Fmi, e della Banca mondiale, Bm) bisbigliavano e mormoravano di antichi dissapori. Circa un quarto di secolo fa, l’allora professorino Mario Draghi, nella veste di consigliere economico dei Ministri Beniamino Andreatta (prima) e Giovanni Goria (poi), batteva su una Olivetti meccanica appunti di fuoco anti- Bankitalia (i cui numeri avrebbero posto in difficoltà quello che allora era il Ministero del Tesoro). Gli appunti erano spesso conditi da conversazioni telefoniche animate (chiamiamole così!) le cui eco arrivavano, traversando le mura, nei lunghi (e tristi) corridoi, di cui l’ala che allora ospitava il Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica era stata da poco ri-imbiancata (intervento provvidenziale del Prof. Paolo Savona, durante il suo mandato nella veste di Segretario Generale alla Programmazione).
A Via Nazionale , l’interlocutore degli scambi non proprio di amorosi sensi era spesso un TPS, appena rientrato da un periodo in servizio alla Commissione Europea di Bruxelles.
Per le mormoranti mura di Via Venti Settembre, le parti si sono invertite – chi era nel Palazzone umbertino adesso è a Via Nazionale e viceversa – ma la conversazione animata iniziata un quarto di secolo fa continua. Un pò come “Il duello” del racconto di Richard Matheson immortalato nel film di Steven Spielberg del lontano 1971. Una puntata si è appena avuta la settimana scorsa, Mario Draghi, ora non più “professorino” ma Governatore della Banca d’Italia, ha fatto un po’ a pezzi, in Parlamento, il disegno di legge finanziaria – e la Relazione previsionale e programmatica , Rpp- presentati da TPS, non più reduce dalle brume di Bruxelles negli uffici ai piani alti di Via Nazionale ma Ministro dell’Economia e delle Finanze. Come ama ricordare VVV (Viceministro Vincenzo Visco), TPS non è un politico ma un tecnico. Ha, quindi, ignorato il precetto secondo cui in politica alle provocazioni non si risponde. Ha replicato con una nota stizzita dei suoi uffici.
Non entriamo nel merito della polemica: su L’Occidentale del primo ottobre abbiamo documentato che i conti non tornano e quantificato in prima approssimazione il buco annunciato. Le cifre di Bankitalia (elaborate con una strumentazione molto più raffinata della nostra) non si distanziano da quelle pubblicate poco più di due settimane fa sul nostro “orientamento quotidiano”. Nello scambio di idee (per così dire) la sostanza è meno importante della forma: nelle cancellerie economiche internazionali (che seguono da presso ciò che avviene nel nostro Paese) si è ricevuta l’impressione che non un’Italia ma due , con strategie di finanza pubblica e di politica economica differenti, stiano andando ad un G7 quanto mai complicato. All’ordine del giorno ci sono problemi immediati – quali le conseguenze sui mercati finanziari e sull’economia reale della crisi della finanza strutturata, le regole e le prassi di trasparenza per il settore bancario, la vigilanza su private equità, hedge fund e strumenti analoghi- nonché temi di più lungo periodo – quali il riassetto del Fmi e pure un’eventuale fusione di Fmi e Bm. Di Italia si parlerà poco in quanto all’Ecofin della settimana scorsa il nostro Paese ha avuto quel 18 e quel mezzo sigaro toscano che nessuna commissione di professori di buon cuore rifiuta ad uno studente volenteroso (pur se un po’ discolo). Tuttavia, se la visione di quella che deve essere la strategia di politica economica e di finanza pubblica diverge tanto tra Via Venti Settembre e Via Nazionale da essere giunti a note stizzite, - si chiedono - c’è un’intesa a livello politico-istituzionale sui temi di maggior momento all’ordine del giorno del G7? oppure occorre contare sulla buona volontà dei funzionari delle due istituzioni?
mercoledì 17 ottobre 2007
LA BORSA RUSSA CAMBIA MA E' SEMPRE OPACA
Negli ultimi 12 mesi, l’indice dell’azionario della Federazione Russa (il Ris) è aumentato dell’11,5% (se espresso in dollari) e del 5,7% (se denominato, invece, in rubli). Nello stesso periodo il Morgan Stanley International è cresciuto del 15% e quello per i mercati emergenti del 39%. L’incremento relativamente contenuto – non dimentichiamo che dalla primavera è in corso una fase di turbolenza, secondo alcuni ancora non terminata- vuol dire che il mercato dei capitali russo è diventato “normale” e tale, quindi, da diventare una piazza interessante per investimenti in portafoglio? E’ tema di particolare interesse per l’Italia anche a ragione di una possibile intese Aeroflot-Alitalia. La Federazione Russia è pienamente consapevole che gas e petrolio sono risorse che si esauriranno. Si sta preparando a nuove sfide in due settori: spazio e tecnologia. Per ambedue un partner europeo come Alitalia potrebbe rappresentare la porta per entrare nel più vasto mercato europeo. Ma senza un mercato dei capitali considerato “normale”, la partnership industrial-tecnologica non sarebbe sufficiente.
Alcuni mesi fa, la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers) ha pubblicato un rapporto molto rassicurante (dandosi anche pacche sulle spalle per i risultati che proprio grazie al suo lavoro sarebbero stati ottenuti): a) il mercato si è ampliato anche a ragione dell’emissione di obbligazioni internazionali in rubli (la stessa Bers ha emesso oltre 20 milioni di eurobond in rubli); b) l’architettura istituzionale si è rafforzata con una serie di passaggi che hanno portato alla normativa del 2003 sul mercato azionario con cui si permette agli operatori stranieri di collocare titoli sul mercato finanziario russo;c ) la creazione del Moscow Prime Offered Rates (MosPrime) , l’equivalente russo del Libor.
Meno incoraggiante (anzi inquietante) il rapporto al Centro Russo per lo Sviluppo del Mercato dei Capitali curato da un gruppo di università (Cambridge nel Regno Unito, Edindurgo, Seul, Texas, Vienna) nonché da alcuni dei maggiori uffici legali russi specializzati in diritto societario. Il documento circola già in russo ma sarà disponibile in inglese tra alcuni mesi. Abbiamo avuto accesso ad un’ampia sintesi ed ai primi due capitoli (gli altri riguardano principalmente la funzione di consiglieri indipendenti, la differenza tra s.p.a. ad azionariato diffuso e quelle basato su noccioli dure ed alcuni aspetti di diritto del lavoro nei rapporti tra componenti dei CdA e le imprese da loro guidate).
Da una lettura delle raccomandazioni del rapporto si trae l’impressione che i conflitti di interesse siano pervasivi nel capitalismo ancora in fasce nella Federazione, un capitalismo caratterizzato da imprese piramidali, spesso incastrate tra loro tramite veri e propri labirinti di legami (sovente nei CdA). Quindi, c’è ancora molta strada da fare per giungere a quotate “normali” e, di conseguenza, ad un mercato finanziario “normale”.
In primo luogo, il documento propone modifiche molto vaste alla legge del 2003 sul mercato azionario, principalmente per meglio definire i concetti di “buona fede” e di “conflitto di interesse”. Si raccomanda di stabilire obblighi precisi in materia di trasparenza (ossia di pubblicazione di libri contabili certificati da revisori indipendenti) e di riservatezza (al fine di contenere, ove non impedire, le forme di aggiotaggio “soffiando” informazioni interne). In secondo luogo, le regole in materia di trasparenza e riservatezza dovrebbero essere estese tanto alle controllate quanto alle s.p.a controllanti (incastri molto frequenti, come si è detto, nelle grandi imprese quotate) con particolare riguardo a potenziali conflitti di interesse negli incroci tra i numerosi CdA di s.p.a. controllanti e controllate. D’altro canto, il documento chiede che vengano definiti con maggiore precisione (di quanto non faccia la normativa attuale) i limiti alle responsabilità dei singoli componenti dei CdA per misure adottate da manager e dirigenti; special riguardo ai limiti delle responsabilità dei CdA dovrebbero essere previsti per le imprese in serie difficoltà finanziarie (al fine di facilitarne il riassetto) , sempre che non si rientri nella casistica dei conflitti di interesse. Si suggerisce, infine, una normativa più stringente sui rapporti tra CdA e dirigenza delle s.p.a. in generale e delle banche in particolare al fine di contenere (ed auspicabilmente un giorno impedire) inciuci.
Nessuna novità viene proposta in materia di vigilanza; ciò non vuol dire che i meccanismi attualmente in vigore tramite il Servizio Federale per i Mercati Finanziari siano inossidabili che occorre badare, precedentemente, al sottostante (ossia alla governance delle aziende quotate). Le riforme proposte non solo di poco conto. Vedremo come reagirà il Governo della Federazione.
Alcuni mesi fa, la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers) ha pubblicato un rapporto molto rassicurante (dandosi anche pacche sulle spalle per i risultati che proprio grazie al suo lavoro sarebbero stati ottenuti): a) il mercato si è ampliato anche a ragione dell’emissione di obbligazioni internazionali in rubli (la stessa Bers ha emesso oltre 20 milioni di eurobond in rubli); b) l’architettura istituzionale si è rafforzata con una serie di passaggi che hanno portato alla normativa del 2003 sul mercato azionario con cui si permette agli operatori stranieri di collocare titoli sul mercato finanziario russo;c ) la creazione del Moscow Prime Offered Rates (MosPrime) , l’equivalente russo del Libor.
Meno incoraggiante (anzi inquietante) il rapporto al Centro Russo per lo Sviluppo del Mercato dei Capitali curato da un gruppo di università (Cambridge nel Regno Unito, Edindurgo, Seul, Texas, Vienna) nonché da alcuni dei maggiori uffici legali russi specializzati in diritto societario. Il documento circola già in russo ma sarà disponibile in inglese tra alcuni mesi. Abbiamo avuto accesso ad un’ampia sintesi ed ai primi due capitoli (gli altri riguardano principalmente la funzione di consiglieri indipendenti, la differenza tra s.p.a. ad azionariato diffuso e quelle basato su noccioli dure ed alcuni aspetti di diritto del lavoro nei rapporti tra componenti dei CdA e le imprese da loro guidate).
Da una lettura delle raccomandazioni del rapporto si trae l’impressione che i conflitti di interesse siano pervasivi nel capitalismo ancora in fasce nella Federazione, un capitalismo caratterizzato da imprese piramidali, spesso incastrate tra loro tramite veri e propri labirinti di legami (sovente nei CdA). Quindi, c’è ancora molta strada da fare per giungere a quotate “normali” e, di conseguenza, ad un mercato finanziario “normale”.
In primo luogo, il documento propone modifiche molto vaste alla legge del 2003 sul mercato azionario, principalmente per meglio definire i concetti di “buona fede” e di “conflitto di interesse”. Si raccomanda di stabilire obblighi precisi in materia di trasparenza (ossia di pubblicazione di libri contabili certificati da revisori indipendenti) e di riservatezza (al fine di contenere, ove non impedire, le forme di aggiotaggio “soffiando” informazioni interne). In secondo luogo, le regole in materia di trasparenza e riservatezza dovrebbero essere estese tanto alle controllate quanto alle s.p.a controllanti (incastri molto frequenti, come si è detto, nelle grandi imprese quotate) con particolare riguardo a potenziali conflitti di interesse negli incroci tra i numerosi CdA di s.p.a. controllanti e controllate. D’altro canto, il documento chiede che vengano definiti con maggiore precisione (di quanto non faccia la normativa attuale) i limiti alle responsabilità dei singoli componenti dei CdA per misure adottate da manager e dirigenti; special riguardo ai limiti delle responsabilità dei CdA dovrebbero essere previsti per le imprese in serie difficoltà finanziarie (al fine di facilitarne il riassetto) , sempre che non si rientri nella casistica dei conflitti di interesse. Si suggerisce, infine, una normativa più stringente sui rapporti tra CdA e dirigenza delle s.p.a. in generale e delle banche in particolare al fine di contenere (ed auspicabilmente un giorno impedire) inciuci.
Nessuna novità viene proposta in materia di vigilanza; ciò non vuol dire che i meccanismi attualmente in vigore tramite il Servizio Federale per i Mercati Finanziari siano inossidabili che occorre badare, precedentemente, al sottostante (ossia alla governance delle aziende quotate). Le riforme proposte non solo di poco conto. Vedremo come reagirà il Governo della Federazione.
NOVA METAMORFOSI A SANTA MARIA MAGGIORE
VI FESTIVAL INTERNAZIONALE DI MUSICA ED ARTE SACRA
NOVA METAMORF OSI
MUSICA SACRA A MILANO NEL PRIMO SEICENTO
MUSICA DI MONTERVERDI, RUFFO E ANONIMI
Giuseppe Pennisi
Chi ha avuto la ventura ed il piacere di assistere ad una rappresentazione di Palestrina di Hans Pfitzner – in repertorio a Vienna ed a Berlino, oltre che in altri teatri tedeschi, ma una co-produzione con il Covent Garden e l’Opera di Roma, la prima in lustri in Italia annunciata per il Giubileo del 2000 venne all’improvviso cancellata – è a conoscenza del dibattito sulla musica, e sulla musica sacra in generale che avvenne al Concilio di Trento. Nel mondo cattolico, la musica (specialmente nelle sue forme più prossime alla “musa bizzarra ed altera”) era diventata sempre più ricca e sontuosa nei decenni che precedettero la Riforma protestante; ciò aveva, quindi, influenzato pure la musica spirituale, e quella per le funzioni liturgiche (in primo luogo, la Messa).
In seno alla Riforma c’erano correnti differenti sul ruolo della musica nella nuova Chiesa protestante. Lutero, melomane e compositore dilettante, affermava che “la musica era un dono di Dio non degli uomini” ed insisteva che tutte le Chiese dovessero avere “Kantorei” (scuole di coro). La “sinistra protestante” (da Cromwell agli Ugonotti) la considerava una frivolezza così vicina al peccato da indurli a bruciare la Cattedrale di Orléans e gli organi di quella di Zurigo. Calvino, infine, non solo riconosceva il valore della musica di Chiesa ma la considerava strettamente legata alla preghiera. Da questo dibattito emerse quella che possiamo chiamare la “musica della Riforma” ( ben illustrata in un saggio di Anthony Milner) nelle sue principali scuole: la musica luterana, i salmi ginevrini e salmi polifonici metrici in gran misura adottati dai protestanti del mondo di lingua francese (ben sintetizzati nella storia della musica di Lucien Rebadet). Il tratto comune alle tre scuole era il rifiuto di quella musica sgargiante e ricca di abbellimenti che già nel Rinascimento italiano poneva le basi per il Barocco.
Il Concilio di Trento non poteva non rispondere a questa sfida e integrare la risposta del Cattolicesimo alla Riforma sul piano dottrinale (ed etico) con una risposta a livello musicale. Il dibattito – tema centrale di Palestrina di Hans Pfitzner – portò a raccomandazioni sulla liturgia “più negative che positive” (cito da Milner). In sintesi, nelle Messe celebrate con accompagnamento musicale e con organo, gli elementi profani non si sarebbero dovuti mischiare con quelle religiosi. Il canto non avrebbe dovuto dare “un piacere vuoto all’orecchio” ma avrebbe dovuto far ascoltare, e comprendere, ogni parola del rito alla congregazione. Due Cardinali proposero che “il rumore scandaloso della polifonia” venisse vietato. Venne nominata una Commissione di Studio che esaminò vari tentativi sperimentali di compositori (tra cui Palestrina e Orlando di Lasso. In tal modo, senza non poche pressioni ed intrighi tra le varie fazioni, Palestrina riuscì a salvare il contrappunto con la Missa Papae Pacelli.
Questo contesto, illustrato soltanto in parte nel parte nel programma di sala, è essenziale per comprendere il clima in cui nacque e si sviluppò la musica ambrosiana della seconda metà del Cinquecento e dell’inizio del Seicento con uno stile suo proprio imposto in parte dal Cardinal Carlo Borromeo (Arcivescovo della città) che, dopo una viaggio a Roma, richiese di applicare con rigore i precetti musicali del Concilio (nel resto d’Italia, in particolare a Napoli, venivano attuati in modo piuttosto lasco). La musica ambrosiana, quindi, divenne essenzialmente monofonica, imperniata sul recupero del falsobordone in cui il cantus firmus veniva accompagnato con voci parallele ad intervalli consonanti.
Per dare il clima dell’epoca, il concerto è semi-scenico nel senso che la Basilica è tenuta al buio ed orchestrali e cantanti sono illuminati da ceri, la cui fiamma rende ancora più ricchi i mosaici di Santa Maria Maggiore. Il concerto contiene Salmi (di anonimo) con musica da Messa (nell’ordine, dal Kyrie all’Agnus Dei, come verrebbero presentati in una celebrazione liturgica). I principali autori sono Monteverdi e Vincenzo Ruffo. In effetti, le parti attribuite a Ruffo sono di incerta paternità e – come sappiamo – Monteverdi rappresentava una “bottega” di compositori. La “metamorfosi” della musica è “nova” sotto due punti di vista: da un lato, incorpora (rigorosamente nelle parti vocali) le regole trentine; da un altro, mantiene ed anzi sviluppa la ricchezza strumentale.
Il complesso Le Poème Harmonique guidato da Vincent Dumestre è uno dei pochi al molto specializzati in questo tipo di repertorio. I tenori sono piuttosto “alti”- uno quasi un controtenore.Il basso è profondo. Soprano, mezzo e contralto come da tradizione dell’epoca. Di gran livello gli orchestrali , che lavorano naturalmente su strumenti al più possibile simili a quelli dell’epoca.
L’impressione che ha suscitato l’esecuzione è stata molto forte (forti e sentiti gli applausi) soprattutto per la novità per gran parte del pubblico: una fusione tra il rigore vocale dei cantori e dei solisti della Chiesa riformata e il ricco florilegio (di chiara matrice profana) della scrittura orchestrale. Nova Metamorfosi è stato registrato nel 2004 dalla Alpha 039 ma credo sia acquistabile in Italia soltanto dietro ordinazione.
Infine, una richiesta: che si faccia più spesso musica “ambrosiana” a Milano.
LA LOCANDINA
NOVA METAMORFOSI
MUSICA SACRA A MILANO NEL PRIMO SEICENTO
MUSICA DI MONTERVERDI, RUFFO E ANONIMI
Direzione Musicale e Tiorba: Vincent Dumestre
Ensemble di musica antica Le Poème Harmonique
Viola soprano: Kaori Uemura; Basso di viola: Sylvia Abramowicz, Lucas Guimaraes; Violone: Martin Bauer; Cornetto: Eva Godard; Dulciana: Mèlanie Flahaut; Ceterone: Jean Luc Tamby; Organo Positivo: Fréderic Michel.
Soprano: Cathérine Paduat
Mezzosoprano: Isabelle Druet
Contralto: Bruno Lelevreur
Tenori: Serge Goubiuod, Branislav Rakic, Hughes Primari.
Baritono: Emmanuel Vistorsky.
Basso: Philippe Roche
Roma , Basilica di Santa Maria Maggiore 12 ottobre
NOVA METAMORF OSI
MUSICA SACRA A MILANO NEL PRIMO SEICENTO
MUSICA DI MONTERVERDI, RUFFO E ANONIMI
Giuseppe Pennisi
Chi ha avuto la ventura ed il piacere di assistere ad una rappresentazione di Palestrina di Hans Pfitzner – in repertorio a Vienna ed a Berlino, oltre che in altri teatri tedeschi, ma una co-produzione con il Covent Garden e l’Opera di Roma, la prima in lustri in Italia annunciata per il Giubileo del 2000 venne all’improvviso cancellata – è a conoscenza del dibattito sulla musica, e sulla musica sacra in generale che avvenne al Concilio di Trento. Nel mondo cattolico, la musica (specialmente nelle sue forme più prossime alla “musa bizzarra ed altera”) era diventata sempre più ricca e sontuosa nei decenni che precedettero la Riforma protestante; ciò aveva, quindi, influenzato pure la musica spirituale, e quella per le funzioni liturgiche (in primo luogo, la Messa).
In seno alla Riforma c’erano correnti differenti sul ruolo della musica nella nuova Chiesa protestante. Lutero, melomane e compositore dilettante, affermava che “la musica era un dono di Dio non degli uomini” ed insisteva che tutte le Chiese dovessero avere “Kantorei” (scuole di coro). La “sinistra protestante” (da Cromwell agli Ugonotti) la considerava una frivolezza così vicina al peccato da indurli a bruciare la Cattedrale di Orléans e gli organi di quella di Zurigo. Calvino, infine, non solo riconosceva il valore della musica di Chiesa ma la considerava strettamente legata alla preghiera. Da questo dibattito emerse quella che possiamo chiamare la “musica della Riforma” ( ben illustrata in un saggio di Anthony Milner) nelle sue principali scuole: la musica luterana, i salmi ginevrini e salmi polifonici metrici in gran misura adottati dai protestanti del mondo di lingua francese (ben sintetizzati nella storia della musica di Lucien Rebadet). Il tratto comune alle tre scuole era il rifiuto di quella musica sgargiante e ricca di abbellimenti che già nel Rinascimento italiano poneva le basi per il Barocco.
Il Concilio di Trento non poteva non rispondere a questa sfida e integrare la risposta del Cattolicesimo alla Riforma sul piano dottrinale (ed etico) con una risposta a livello musicale. Il dibattito – tema centrale di Palestrina di Hans Pfitzner – portò a raccomandazioni sulla liturgia “più negative che positive” (cito da Milner). In sintesi, nelle Messe celebrate con accompagnamento musicale e con organo, gli elementi profani non si sarebbero dovuti mischiare con quelle religiosi. Il canto non avrebbe dovuto dare “un piacere vuoto all’orecchio” ma avrebbe dovuto far ascoltare, e comprendere, ogni parola del rito alla congregazione. Due Cardinali proposero che “il rumore scandaloso della polifonia” venisse vietato. Venne nominata una Commissione di Studio che esaminò vari tentativi sperimentali di compositori (tra cui Palestrina e Orlando di Lasso. In tal modo, senza non poche pressioni ed intrighi tra le varie fazioni, Palestrina riuscì a salvare il contrappunto con la Missa Papae Pacelli.
Questo contesto, illustrato soltanto in parte nel parte nel programma di sala, è essenziale per comprendere il clima in cui nacque e si sviluppò la musica ambrosiana della seconda metà del Cinquecento e dell’inizio del Seicento con uno stile suo proprio imposto in parte dal Cardinal Carlo Borromeo (Arcivescovo della città) che, dopo una viaggio a Roma, richiese di applicare con rigore i precetti musicali del Concilio (nel resto d’Italia, in particolare a Napoli, venivano attuati in modo piuttosto lasco). La musica ambrosiana, quindi, divenne essenzialmente monofonica, imperniata sul recupero del falsobordone in cui il cantus firmus veniva accompagnato con voci parallele ad intervalli consonanti.
Per dare il clima dell’epoca, il concerto è semi-scenico nel senso che la Basilica è tenuta al buio ed orchestrali e cantanti sono illuminati da ceri, la cui fiamma rende ancora più ricchi i mosaici di Santa Maria Maggiore. Il concerto contiene Salmi (di anonimo) con musica da Messa (nell’ordine, dal Kyrie all’Agnus Dei, come verrebbero presentati in una celebrazione liturgica). I principali autori sono Monteverdi e Vincenzo Ruffo. In effetti, le parti attribuite a Ruffo sono di incerta paternità e – come sappiamo – Monteverdi rappresentava una “bottega” di compositori. La “metamorfosi” della musica è “nova” sotto due punti di vista: da un lato, incorpora (rigorosamente nelle parti vocali) le regole trentine; da un altro, mantiene ed anzi sviluppa la ricchezza strumentale.
Il complesso Le Poème Harmonique guidato da Vincent Dumestre è uno dei pochi al molto specializzati in questo tipo di repertorio. I tenori sono piuttosto “alti”- uno quasi un controtenore.Il basso è profondo. Soprano, mezzo e contralto come da tradizione dell’epoca. Di gran livello gli orchestrali , che lavorano naturalmente su strumenti al più possibile simili a quelli dell’epoca.
L’impressione che ha suscitato l’esecuzione è stata molto forte (forti e sentiti gli applausi) soprattutto per la novità per gran parte del pubblico: una fusione tra il rigore vocale dei cantori e dei solisti della Chiesa riformata e il ricco florilegio (di chiara matrice profana) della scrittura orchestrale. Nova Metamorfosi è stato registrato nel 2004 dalla Alpha 039 ma credo sia acquistabile in Italia soltanto dietro ordinazione.
Infine, una richiesta: che si faccia più spesso musica “ambrosiana” a Milano.
LA LOCANDINA
NOVA METAMORFOSI
MUSICA SACRA A MILANO NEL PRIMO SEICENTO
MUSICA DI MONTERVERDI, RUFFO E ANONIMI
Direzione Musicale e Tiorba: Vincent Dumestre
Ensemble di musica antica Le Poème Harmonique
Viola soprano: Kaori Uemura; Basso di viola: Sylvia Abramowicz, Lucas Guimaraes; Violone: Martin Bauer; Cornetto: Eva Godard; Dulciana: Mèlanie Flahaut; Ceterone: Jean Luc Tamby; Organo Positivo: Fréderic Michel.
Soprano: Cathérine Paduat
Mezzosoprano: Isabelle Druet
Contralto: Bruno Lelevreur
Tenori: Serge Goubiuod, Branislav Rakic, Hughes Primari.
Baritono: Emmanuel Vistorsky.
Basso: Philippe Roche
Roma , Basilica di Santa Maria Maggiore 12 ottobre
REQUIEM VERDI A SAN PAOLO FUORI LE MURA
VI FESTIVAL INTERNAZIONALE DI MUSICA SACRA
GIUSEPPE VERDI
MESSA DA REQUIEM
WIENER PHILARMONIKER
BASILICA DI SAN PAOLO
11 OTTOBRE 2007
Da sei anni, la Fondazione Pro-Musica ed Arte Sacra , con il supporto di un comitato di sostenitori, organizza ogni autunno quattro grandi concerti nelle Basiliche Romane. Questa stagione due dei quattro concerti sono quasi ai confini con la “musa bizzarra e altera” dell’opera lirica: l’esecuzione della “Messa da Requiem” di Verdi nella Basilica di San Paolo Fuori le Mura e quella (in forma semiscenica) della “Nova Metamorfosi”, su musiche di vari autori del Cinquecento, nella Basilica di Santa Maria Maggiore. La prima è una delle composizione più eseguite al mondo. A titolo indicativo, e citando soltanto eventi recenti e logisticamente vicini, il 10 ottobre , a Parma, la ha diretta Riccardo Muti in occasione del 194simo compleanno del Maestro di Busseto.
Parafrasando un noto aforisma di un ancor più noto uomo politico italiano, si può dire che ad essere bastian contrari si può, al peggio, commettere un peccato veniale, ma quasi sempre ci si azzecca. Nello specifico, ciò vuol dire non seguire il gregge (tentazione in cui cade anche Claudio Abbado) e non leggere la “Messa da Requiem” come un’opera spirituale o religiosa oppure di tensione di un agnostico che cerca Dio. Grandissimo capolavoro tra i tanti di Verdi è un grande melodramma laico di riflessione sulla morte (e sulla vita): il ventottesimo se lo si aggiunge ai 27 appositamente concepiti per la scena lirica oppure il ventiseiesimo se si li conta in ordine cronologico di composizione e rappresentazione. Come molte figure del Risorgimento (Manzoni, Rosmini e pochi altri rappresentano eccezioni), Verdi era ateo (ed anche un po’ “mangiapreti”) e tale è rimasto per tutta la vita. In un saggio scritto in occasione del Festival romano, Mauro Mariani ricorda le parole di Verdi stesso: “Penso che la vita è la cosa più stupida, peggio inutile”. Non per nulla il suo testamento musicale è la “fuga” con cui termina Falstaff “Tutto il mondo è una burla!”. Atea , ma gioiosamente tale, era la sua compagna di vita Giuseppina Strepponi: “Vi sono delle nature virtuosissime che hanno bisogno di credere in Dio; altre, ugualmente perfette, che sono felici non credendo a niente ed osservando severamente ogni precetto di severità morale”. Dell’ateismo di Verdi sono testimoni non solo i suoi carteggi (disponibili anche in edizioni abbreviate) ma soprattutto le sue opere, specialmente quelle degli anni più prossimi alla “Messa da Requiem”; in “Don Carlos” ed in “Aida” la religione è rappresentata come opprimente e spietata nei confronti di tutti (anche del potere politico) – puro esercizio di potenza da parte del Grande Inquisitore nella prima e della classe dei sacerdoti nella seconda; ne “La forza del destino” (che pur si svolge tra chiostri e conventi), la presenza di Dio è confinata nell’ultima scena dell’edizione approntata per l’Italia – Dio è assente in quella ancora in scena a San Pietroburgo. “La Provvidenza” – ossia il ruolo della Provvidenza nel testo – impedì a Verdi di mettere in musica il romanzo più amato: “I Promessi Sposi” di Alessandro Manzoni, nel cui ricordo compose la “Messa da Requiem”
Furono i tedeschi, ai tempi di Verdi, a sottolineare lo stretto nesso tra il lavoro ed il melodramma: per Hans von Bülow è “un’opera in veste ecclesiastica” – “che solo un genio può avere scritto”, aggiunge Johannes Brahms.
Affermare ed anzi ribadire la natura puramente laica di una “Messa da Requiem”, composto per un’occasione puntuale (onorare un amico fraterno, come Manzoni), non vuole dire sminuirne il valore. E’ un grande capolavoro la cui parte centrale (quel “Dies Irae” articolato come un immesso atto d’opera) evoca la violenza e vastità del suono di una vita intensamente vissuta e la cui conclusione (la dolcissima “Lacrimosa”) è una meditazione sulla fragilità umana di fronte al cosmo. La grandezza, tanto più tragica quanto più immanente, della “Messa de Requiem” appare nelle sue dimensioni se lo si raffronta con i “Quattro Pezzi Sacri” verdiani, tanto eleganti nei loro equilibri da parere quasi artificiali.
La natura melodrammatica è così forte che si avverte anche tra i mosaici d’oro e le colonne di in una delle più belle Basiliche romana, l’immensa San Paolo Fuori le Mura. I Wiener Philarmoker, guidati da Daniele Gatti, hanno dimostrato, pure ad alcuni critici musicali romani dubbiosi di interpretare Verdi, la loro capacità di penetrare nel mistero verdiano più complesso ; l’esecuzione, fedelissima alla partitura (in termini sia di organico sia di lettura dello spartito) ha tenuto il pubblico in grande tensione emotiva per un’ora e mezza sino all’ovazione finale. Da segnalare, in particolare, la delicatezza con cui gli archi hanno accompagnato il duetto con coro “Agnus Dei” ed il diminuendo del “Libera Me”. Pur facendo udire ogni nota, l’orchestra non ha mai coperto i solisti.
Altro grande protagonista il coro dell’Accademia di Santa Cecilia, affidato al quasi ottantenne Norbert Balatsch. In “Messa da Requiem” , il coro ha un ruolo analogo a quello che ha nei melodrammi corali di Verdi – “Don Carlos”, “Aida”, “Forza del Destino”, nonché “Simon Boccanegra”. Violentissimo nel “Dies Irae”. Dolcissimo nel “Lacrimosa” è ingrediente eccezionale dell’esecuzione.
Veniamo ai solisti. Il quartetto iniziale (Kyrie) mostra che Sartori (appena ascoltato a Busseto) può porsi come potenziale erede di Pavarotti (lo definisce già così “Il Sole-24 Ore”, Cedolins (appena ascoltata a Parma) è uno dei soprani verdiani di eccellenza di questa generazione (con potenzialità belliniane come dimostrato dalle sue esperienze con “Norma”), Zajick (meno frequente sulle scene italiane di quanto non lo fosse venti anni fa) conserva intatte le sue qualità (specialmente nelle tonalità gravi), e Furlanetto (appena ascoltato a Salisburgo) è ancora oggi uno dei bassi più articolati a cui il passare degli anni non ha incrinato la duttilità.
LA LOCANDINA
VI FESTIVAL INTERNAZIONALE DI MUSICA SACRA
GIUSEPPE VERDI
MESSA DA REQUIEM
DIREZIONE MUSICALE DANIELE GATTI
WIENER PHILARMONIKER
CORO DELL’ACCADEMIA DI SANTA CECILIA, DIRETTO DA NORBERT BALATSCH
SOLISTI: FIORENZA CEDOLINS, DOLORA ZAJICK, FABIO SARTORI, FERRUCCIO FURLANETTO
BASILICA DI SAN PAOLO
Roma 11 Ottobre 2007
Giuseppe Pennisi
GIUSEPPE VERDI
MESSA DA REQUIEM
WIENER PHILARMONIKER
BASILICA DI SAN PAOLO
11 OTTOBRE 2007
Da sei anni, la Fondazione Pro-Musica ed Arte Sacra , con il supporto di un comitato di sostenitori, organizza ogni autunno quattro grandi concerti nelle Basiliche Romane. Questa stagione due dei quattro concerti sono quasi ai confini con la “musa bizzarra e altera” dell’opera lirica: l’esecuzione della “Messa da Requiem” di Verdi nella Basilica di San Paolo Fuori le Mura e quella (in forma semiscenica) della “Nova Metamorfosi”, su musiche di vari autori del Cinquecento, nella Basilica di Santa Maria Maggiore. La prima è una delle composizione più eseguite al mondo. A titolo indicativo, e citando soltanto eventi recenti e logisticamente vicini, il 10 ottobre , a Parma, la ha diretta Riccardo Muti in occasione del 194simo compleanno del Maestro di Busseto.
Parafrasando un noto aforisma di un ancor più noto uomo politico italiano, si può dire che ad essere bastian contrari si può, al peggio, commettere un peccato veniale, ma quasi sempre ci si azzecca. Nello specifico, ciò vuol dire non seguire il gregge (tentazione in cui cade anche Claudio Abbado) e non leggere la “Messa da Requiem” come un’opera spirituale o religiosa oppure di tensione di un agnostico che cerca Dio. Grandissimo capolavoro tra i tanti di Verdi è un grande melodramma laico di riflessione sulla morte (e sulla vita): il ventottesimo se lo si aggiunge ai 27 appositamente concepiti per la scena lirica oppure il ventiseiesimo se si li conta in ordine cronologico di composizione e rappresentazione. Come molte figure del Risorgimento (Manzoni, Rosmini e pochi altri rappresentano eccezioni), Verdi era ateo (ed anche un po’ “mangiapreti”) e tale è rimasto per tutta la vita. In un saggio scritto in occasione del Festival romano, Mauro Mariani ricorda le parole di Verdi stesso: “Penso che la vita è la cosa più stupida, peggio inutile”. Non per nulla il suo testamento musicale è la “fuga” con cui termina Falstaff “Tutto il mondo è una burla!”. Atea , ma gioiosamente tale, era la sua compagna di vita Giuseppina Strepponi: “Vi sono delle nature virtuosissime che hanno bisogno di credere in Dio; altre, ugualmente perfette, che sono felici non credendo a niente ed osservando severamente ogni precetto di severità morale”. Dell’ateismo di Verdi sono testimoni non solo i suoi carteggi (disponibili anche in edizioni abbreviate) ma soprattutto le sue opere, specialmente quelle degli anni più prossimi alla “Messa da Requiem”; in “Don Carlos” ed in “Aida” la religione è rappresentata come opprimente e spietata nei confronti di tutti (anche del potere politico) – puro esercizio di potenza da parte del Grande Inquisitore nella prima e della classe dei sacerdoti nella seconda; ne “La forza del destino” (che pur si svolge tra chiostri e conventi), la presenza di Dio è confinata nell’ultima scena dell’edizione approntata per l’Italia – Dio è assente in quella ancora in scena a San Pietroburgo. “La Provvidenza” – ossia il ruolo della Provvidenza nel testo – impedì a Verdi di mettere in musica il romanzo più amato: “I Promessi Sposi” di Alessandro Manzoni, nel cui ricordo compose la “Messa da Requiem”
Furono i tedeschi, ai tempi di Verdi, a sottolineare lo stretto nesso tra il lavoro ed il melodramma: per Hans von Bülow è “un’opera in veste ecclesiastica” – “che solo un genio può avere scritto”, aggiunge Johannes Brahms.
Affermare ed anzi ribadire la natura puramente laica di una “Messa da Requiem”, composto per un’occasione puntuale (onorare un amico fraterno, come Manzoni), non vuole dire sminuirne il valore. E’ un grande capolavoro la cui parte centrale (quel “Dies Irae” articolato come un immesso atto d’opera) evoca la violenza e vastità del suono di una vita intensamente vissuta e la cui conclusione (la dolcissima “Lacrimosa”) è una meditazione sulla fragilità umana di fronte al cosmo. La grandezza, tanto più tragica quanto più immanente, della “Messa de Requiem” appare nelle sue dimensioni se lo si raffronta con i “Quattro Pezzi Sacri” verdiani, tanto eleganti nei loro equilibri da parere quasi artificiali.
La natura melodrammatica è così forte che si avverte anche tra i mosaici d’oro e le colonne di in una delle più belle Basiliche romana, l’immensa San Paolo Fuori le Mura. I Wiener Philarmoker, guidati da Daniele Gatti, hanno dimostrato, pure ad alcuni critici musicali romani dubbiosi di interpretare Verdi, la loro capacità di penetrare nel mistero verdiano più complesso ; l’esecuzione, fedelissima alla partitura (in termini sia di organico sia di lettura dello spartito) ha tenuto il pubblico in grande tensione emotiva per un’ora e mezza sino all’ovazione finale. Da segnalare, in particolare, la delicatezza con cui gli archi hanno accompagnato il duetto con coro “Agnus Dei” ed il diminuendo del “Libera Me”. Pur facendo udire ogni nota, l’orchestra non ha mai coperto i solisti.
Altro grande protagonista il coro dell’Accademia di Santa Cecilia, affidato al quasi ottantenne Norbert Balatsch. In “Messa da Requiem” , il coro ha un ruolo analogo a quello che ha nei melodrammi corali di Verdi – “Don Carlos”, “Aida”, “Forza del Destino”, nonché “Simon Boccanegra”. Violentissimo nel “Dies Irae”. Dolcissimo nel “Lacrimosa” è ingrediente eccezionale dell’esecuzione.
Veniamo ai solisti. Il quartetto iniziale (Kyrie) mostra che Sartori (appena ascoltato a Busseto) può porsi come potenziale erede di Pavarotti (lo definisce già così “Il Sole-24 Ore”, Cedolins (appena ascoltata a Parma) è uno dei soprani verdiani di eccellenza di questa generazione (con potenzialità belliniane come dimostrato dalle sue esperienze con “Norma”), Zajick (meno frequente sulle scene italiane di quanto non lo fosse venti anni fa) conserva intatte le sue qualità (specialmente nelle tonalità gravi), e Furlanetto (appena ascoltato a Salisburgo) è ancora oggi uno dei bassi più articolati a cui il passare degli anni non ha incrinato la duttilità.
LA LOCANDINA
VI FESTIVAL INTERNAZIONALE DI MUSICA SACRA
GIUSEPPE VERDI
MESSA DA REQUIEM
DIREZIONE MUSICALE DANIELE GATTI
WIENER PHILARMONIKER
CORO DELL’ACCADEMIA DI SANTA CECILIA, DIRETTO DA NORBERT BALATSCH
SOLISTI: FIORENZA CEDOLINS, DOLORA ZAJICK, FABIO SARTORI, FERRUCCIO FURLANETTO
BASILICA DI SAN PAOLO
Roma 11 Ottobre 2007
Giuseppe Pennisi
martedì 16 ottobre 2007
UN NOBEL PER L’ECONOMIA PREZIOSO PER POLITICI E GIORNALISTI
Il Premio Nobel per l’Economia verrà conferito a tre economisti americani, Leonard Hurwich (di origine russa e con 90 anni compiuti) della Università del Minnesota, Roger B. Meyerson della Università di Chicago e Eric Maskin della Università di Princeton. L’area di interesse comune dei loro studi è l’allestimento di meccanismi tali da ridurre le asimmetrie informative che maggiormente inficiano il funzionamento del mercato. Già nel 2001 l’Accademia delle Scienze Svedese aveva conferito il Nobel a tre economisti (George Akerlof, Michael Spence e Joseph Stiglitz) il cui lavoro di analisi è stato principalmente in materia di economia dell’informazione.
Sfogliando i servizi giornalistici pubblicati il 16 ottobre sul Nobel (anche su stampa qualificata) si ha l’impressione che i tre “laureati” questo ottobre (ed i tre “laureati” nel 2001) abbiamo elaborato teorie complicate, condite di molta matematica avanzata ma prive di rilevanza pratica.
Quanto di più errato! L’economia dell’informazione è la disciplina di cui maggiormente si dovrebbero abbeverare i politici ed i giornalisti in quanto concerne il loro lavoro, anzi la loro vita, di ogni giorno. Purtroppo, come sottolineiamo in questo “orientamento quotidiano”, è poco studiata nelle università italiane dove gli insegnamenti, specialmente quelli di politica economica, sono ancora dominati dalla macro-economia di stampo neo-keynesiano.
Perché politici e giornalisti (oltre a molte altre categorie) dovrebbero andare alla fontana dell’economia dell’informazione per meglio plasmare i loro comportamenti? E cosa si è fatto e si fa in Italia in materia?.
In primo luogo, l’economia dell’informazione analizza le imperfezioni di tutti i mercati (da quello delle cipolle e dei fagiolini a quello dei voti in una contesa elettorale) derivanti dalle “asimmetrie” informative. Un soggetto ha più informazioni di un altro oppure uno stock di conoscenze differente da quello di un altro: la stessa “news” (per utilizzare il gergo giornalistico) viene percepita o compresa in modo differente. Sovente politiche e misure economiche dirette a certi obiettivi, ne raggiungo altri o perché il politico fraintende il tecnico (e viceversa) oppure perché gli intenti del politico (sovente mediati dalla stampa) vengono fraintesi da altri politici e dall’opinione pubblica. Naturalmente, il fenomeno non riguarda soltanto o prevalentemente i politici ma tutti i mercati: alcune delle prime analisi empiriche riguardavano i mercati del lavoro e dell’istruzione e vennero fatte dall’Institute of Development Studies dell’Università di Nairobi all’inizio degli Anni 70 (vi fui associato a ragione dell’incarico che allora avevo in Banca mondiale). Dato, però, che questo “orientamento quotidiano” è seguito molto da politici e da giornalisti, si è fatta un’esemplificazione che riguarda specialmente i mercati di loro pertinenza.
In effetti mentre già una ventina di anni fa Enrico Saltari, ora all’Università di Roma La Sapienza, ha pubblicato una pregevole (ma ormai introvabile in commercio) antologia di saggi di economia dell’informazione (introducendola di fatto in Italia), gli studi empirici effettuati nel nostro Paese riguardano specialmente gli effetti e gli impatti dell’informazione giornalistica su alcune variabile economiche: quelli di Tivegna e Chiofi studiano le news ed i tassi di cambio e quelli pubblicati dalla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione (si possono ottenere , al costo delle spese postali, richiedendoli a relistituzionali@sspa.rupa.it) analizzano l’informazione giornalistica in materia di previdenza e le sue conseguenze sui flussi di pensionamento di anzianità e gli effetti delle news sui prezzi nella delicata fase della transizione dalla lira all’euro. L’approccio è strettamente quantitativo e impiega ovviamente alta matematica applicata (costruendo per la bisogna appositi modelli econometrici). Interessante la conclusione dello studio su informazione giornalistica , transizione all’euro e prezzi: una comunicazione pubblica meglio tarata (da parte di tutti gli interessati – dai politici, ai loro portavoce, ai giornalisti) avrebbe contenuto l’”ansia inflazionistica” su alcune categorie di merci e servizi (ed i suoi effetti sui prezzi). Veniamo, quindi, proprio ai meccanismi per ridurre asimmetrie informative. Ed al Nobel 2007.
Riferiment
De Filippi G. Maiolo S. Marzano A., Pennisi G. Savastano S. Scandizzo P.L, Zecchini S. I media, l’economia e la pubblica amministrazione Sspa Editrice 2005
Choi D., De Filippi G., Pennisi G. La net economy nella pubblica amministrazione 2004 : news e mercato del lavoro Sspa Editrice 2003
Saltari E. Informazione e teoria economica Il Mulino 1990.
Tivegna M, Chiofi P. News e tassi di cambio Il Mulino 2000
Sfogliando i servizi giornalistici pubblicati il 16 ottobre sul Nobel (anche su stampa qualificata) si ha l’impressione che i tre “laureati” questo ottobre (ed i tre “laureati” nel 2001) abbiamo elaborato teorie complicate, condite di molta matematica avanzata ma prive di rilevanza pratica.
Quanto di più errato! L’economia dell’informazione è la disciplina di cui maggiormente si dovrebbero abbeverare i politici ed i giornalisti in quanto concerne il loro lavoro, anzi la loro vita, di ogni giorno. Purtroppo, come sottolineiamo in questo “orientamento quotidiano”, è poco studiata nelle università italiane dove gli insegnamenti, specialmente quelli di politica economica, sono ancora dominati dalla macro-economia di stampo neo-keynesiano.
Perché politici e giornalisti (oltre a molte altre categorie) dovrebbero andare alla fontana dell’economia dell’informazione per meglio plasmare i loro comportamenti? E cosa si è fatto e si fa in Italia in materia?.
In primo luogo, l’economia dell’informazione analizza le imperfezioni di tutti i mercati (da quello delle cipolle e dei fagiolini a quello dei voti in una contesa elettorale) derivanti dalle “asimmetrie” informative. Un soggetto ha più informazioni di un altro oppure uno stock di conoscenze differente da quello di un altro: la stessa “news” (per utilizzare il gergo giornalistico) viene percepita o compresa in modo differente. Sovente politiche e misure economiche dirette a certi obiettivi, ne raggiungo altri o perché il politico fraintende il tecnico (e viceversa) oppure perché gli intenti del politico (sovente mediati dalla stampa) vengono fraintesi da altri politici e dall’opinione pubblica. Naturalmente, il fenomeno non riguarda soltanto o prevalentemente i politici ma tutti i mercati: alcune delle prime analisi empiriche riguardavano i mercati del lavoro e dell’istruzione e vennero fatte dall’Institute of Development Studies dell’Università di Nairobi all’inizio degli Anni 70 (vi fui associato a ragione dell’incarico che allora avevo in Banca mondiale). Dato, però, che questo “orientamento quotidiano” è seguito molto da politici e da giornalisti, si è fatta un’esemplificazione che riguarda specialmente i mercati di loro pertinenza.
In effetti mentre già una ventina di anni fa Enrico Saltari, ora all’Università di Roma La Sapienza, ha pubblicato una pregevole (ma ormai introvabile in commercio) antologia di saggi di economia dell’informazione (introducendola di fatto in Italia), gli studi empirici effettuati nel nostro Paese riguardano specialmente gli effetti e gli impatti dell’informazione giornalistica su alcune variabile economiche: quelli di Tivegna e Chiofi studiano le news ed i tassi di cambio e quelli pubblicati dalla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione (si possono ottenere , al costo delle spese postali, richiedendoli a relistituzionali@sspa.rupa.it) analizzano l’informazione giornalistica in materia di previdenza e le sue conseguenze sui flussi di pensionamento di anzianità e gli effetti delle news sui prezzi nella delicata fase della transizione dalla lira all’euro. L’approccio è strettamente quantitativo e impiega ovviamente alta matematica applicata (costruendo per la bisogna appositi modelli econometrici). Interessante la conclusione dello studio su informazione giornalistica , transizione all’euro e prezzi: una comunicazione pubblica meglio tarata (da parte di tutti gli interessati – dai politici, ai loro portavoce, ai giornalisti) avrebbe contenuto l’”ansia inflazionistica” su alcune categorie di merci e servizi (ed i suoi effetti sui prezzi). Veniamo, quindi, proprio ai meccanismi per ridurre asimmetrie informative. Ed al Nobel 2007.
Riferiment
De Filippi G. Maiolo S. Marzano A., Pennisi G. Savastano S. Scandizzo P.L, Zecchini S. I media, l’economia e la pubblica amministrazione Sspa Editrice 2005
Choi D., De Filippi G., Pennisi G. La net economy nella pubblica amministrazione 2004 : news e mercato del lavoro Sspa Editrice 2003
Saltari E. Informazione e teoria economica Il Mulino 1990.
Tivegna M, Chiofi P. News e tassi di cambio Il Mulino 2000
lunedì 15 ottobre 2007
PADOA SCHIOPPA SULLA BRACE DEL NUOVO INCARICO
Il Ministro dell’Economia e delle Finanze Tommaso Padoa-Schioppa ha assunto un nuovo importante incarico: la Presidenza dell’organo di governo del Fondo monetario internazionale (Fmi). Nei prossimi 12 mesi, avrà le mani occupatissime da due impegni seri e difficili: a) pilotare la riforma dello Fmi e b) facilitare quello che viene chiamato “il ritorno a mercati normali”. Sono interconnessi in quanto il riassetto delle “quote” e, quindi, dei diritti di voto al Fmi può essere fatto più agevolmente in tempi di piazze internazionali tranquille. Gli indici delle Borse e le decisioni della Bce e della Old Lady (la Banca centrale britannica) in materia di tassi d’interesse paiono indicare che il sereno è tornato, ma vecchie volpi di Wall Street, come Gretchen Morgestern, sostengono che la strada è ancora lunga poiché “le cattive notizie usano arrivare in ritardo”.
TPS ha sulla sua scrivania un lavoro condotto della Banca d’Italia in collaborazione con la Banca per i Regolamenti Internazionali e la Banca centrale svizzera The Recent Behaviour of Financial Market Volatility . Lo studio sottolinea che la forte volatilità dei mercati negli ultimi tre-quattro mesi è avvenuta dopo una fase di grande tranquillità. La bassa volatilità degli anni scorsi sarebbe l’esito dell’innovazione finanziaria e dei titoli strutturati che hanno scatenato le tensioni iniziate in estate. Una nuova fase di alta volatilità sarebbe in arrivo a ragione di un nodo di fondo : gli Usa devono attirare 800 miliardi di dollari l’anno per finanziare le partite correnti della propria bilancia dei pagamenti. A tal fine è sorto un complicato mercato di derivati di cui i subprime (e i Cdo che hanno inondato le piazze mondiali) sono soltanto un piccolo elemento. Le operazione spericolate non sono frutto dei comportamenti delle famiglie americane - un’analisi recente della Banca d’Italia a dirci che le famiglie Usa tendono ad investire in attività prive di rischio, anche se ciò comporta una rinuncia di rendimenti pari allo 0,7-3,3 della spesa complessiva delle famiglie in beni e servizi non durevoli – ma dell’esigenza di colmare il buco dei conti Usa con l’estero. Tanti auguri a TPS sbrogliare questa matassa!
Come possiamo aiutare noi TPS che ci aiuta tanto da volerci fare ammirare la bellezza di tasse ed imposte? Ho una proposta: regaliamogli tutti un disco di “Pensa alla Patria!”, la grande aria di Isabella nella rossiniana “Italiana in Algeri”. Ciascuno scelga l’edizione che preferisce (gli farò recapitare quella cantata da Lucia Valentina Terrani) e la invii al suo indirizzo al Ministero. C’è il pericolo, infatti, che preso dal tentativo di regolare l’irregolabile (i mercati mondiale) si faccia sfilare il seggio permanente dell’Italia al Fmi. Così come Prodi e D’Alema si sono fatti portare via alcune poltrone dal Parlamento Europeo.
TPS ha sulla sua scrivania un lavoro condotto della Banca d’Italia in collaborazione con la Banca per i Regolamenti Internazionali e la Banca centrale svizzera The Recent Behaviour of Financial Market Volatility . Lo studio sottolinea che la forte volatilità dei mercati negli ultimi tre-quattro mesi è avvenuta dopo una fase di grande tranquillità. La bassa volatilità degli anni scorsi sarebbe l’esito dell’innovazione finanziaria e dei titoli strutturati che hanno scatenato le tensioni iniziate in estate. Una nuova fase di alta volatilità sarebbe in arrivo a ragione di un nodo di fondo : gli Usa devono attirare 800 miliardi di dollari l’anno per finanziare le partite correnti della propria bilancia dei pagamenti. A tal fine è sorto un complicato mercato di derivati di cui i subprime (e i Cdo che hanno inondato le piazze mondiali) sono soltanto un piccolo elemento. Le operazione spericolate non sono frutto dei comportamenti delle famiglie americane - un’analisi recente della Banca d’Italia a dirci che le famiglie Usa tendono ad investire in attività prive di rischio, anche se ciò comporta una rinuncia di rendimenti pari allo 0,7-3,3 della spesa complessiva delle famiglie in beni e servizi non durevoli – ma dell’esigenza di colmare il buco dei conti Usa con l’estero. Tanti auguri a TPS sbrogliare questa matassa!
Come possiamo aiutare noi TPS che ci aiuta tanto da volerci fare ammirare la bellezza di tasse ed imposte? Ho una proposta: regaliamogli tutti un disco di “Pensa alla Patria!”, la grande aria di Isabella nella rossiniana “Italiana in Algeri”. Ciascuno scelga l’edizione che preferisce (gli farò recapitare quella cantata da Lucia Valentina Terrani) e la invii al suo indirizzo al Ministero. C’è il pericolo, infatti, che preso dal tentativo di regolare l’irregolabile (i mercati mondiale) si faccia sfilare il seggio permanente dell’Italia al Fmi. Così come Prodi e D’Alema si sono fatti portare via alcune poltrone dal Parlamento Europeo.
Il governo mette mano al Protocollo ma i sindacati non ci stanno
La vittoria di Walter Veltroni alle “primarie” del Partito Democratico rischia di essere amara per Romano Prodi non solamente per ragioni squisitamente politiche (quali quelle inerenti ad una doppia leadership nell’ambito di una litigiosa maggioranza composta da un numero imprecisato di partiti) ma anche in quanto avviene proprio nei giorni in cui il Professore sta per perdere quei sindacati confederali (un tempo chiamati “la triplice”) che hanno costituito l’architrave e della bolognese “fabbrica del programma” nel 1999-2001 e della sua risicata vittoria elettorale.
Il “tavolo della concertazione” è stato convocato per oggi stesso. I sindacati (e parte della maggioranza) sono in rivolta nei confronti del disegno di legge approvato venerdì 12 ottobre (Columbus Day, un invito implicito a Prodi ad imbarcarsi su una caravella e veleggiare verso altri lidi) e, guidati dalla Cgil, contestano che, nonostante gli esiti del referendum del 9-10 ottobre, il ddl travisi (in omaggio alla sinistra radical-reazionaria) il Protocollo sul Welfare faticosamente approvato il 23 luglio scorso. Prodi ammette che qualche ritocco è stato fatto ma minimizza sulla portata delle modifiche.
L’Occidentale ha commentato il Protocollo a suo tempo, soffermandosi, in particolare, sulla parte più significativa (quella relativa alla previdenza – vedi L’Occidentale del 20 luglio 2007). Non intendo tornare sulle critiche formulate all’epoca (ossia che il Protocollo non tutela i più poveri ma individui e famiglie a reddito medio bassi e pone i costi delle provvidenze sui giovani). Per contribuire a dipanare la complicata matassa, però, è utile esaminare in che misura il ddl si distanzia dal Protocollo e quali ne sono le prevedibili implicazioni.
In primo luogo, in tema di previdenza le innovazioni del ddl (rispetto al Protocollo) maggiormente criticate dalle parti sociali sono le seguenti: i) l’eliminazione della soglia del 60% dell’ultima retribuzione che sarebbe stata garantita integrando con la mano pubblica l’assegno previdenziale di vecchiaia calcolato con il metodo contributivo; ii) l’ampliamento dei lavori da considerare usuranti per avere titolo a pensioni di anzianità; iii) il rinvio della riorganizzazione degli enti previdenziali (che sarebbe dovuto essere fonte parziale di finanziamento dell’abolizione del cosiddetto “scalone” con cui la riforma del 2004 posponeva l’età minima per la pensione di anzianità). In effetti, nonostante quanto scritto anche da economisti vicini all’attuale opposizione (ma poco esperti in sistemi previdenziali comparati), la soglia alle pensioni di vecchiaia (il cui livello – se 60% dell’ultima retribuzione o meno – può, anzi deve, essere discusso) non rappresenta la messa in questione delle fondamenta stesse del sistema contributivo, ma è prevista in gran parte dei sistemi contributivi in vigore, come dimostrato dalla monumentale rassegna (700 pagine a stampa fitta) fattane da Robert Holzmann e Edward Palmer. Il sistema contributivo viene sbrindellato molto più dall’allargamento delle causali per pensioni di anzianità tramite la più ampia definizioni di lavori usuranti, nonché dal marchingegno per mantenere ancora ad età relativamente giovane. Ciò è socialmente “unfair”, ingiusto, come afferma il più recente studio internazionale in materia (effettuato dall’Università di Costanza – distinta e distante dalle nostre beghe casalinghe – e da quelle del sinedrio dell’Unione). Oltre a porre oneri sulle generazioni future (lo ribadisce un’analisi della George Washington University fresca di stampa), rende l’intero sistema di sicurezza sociale più fragile e più esposto ai venti del processo di integrazione economica internazionale (lo sostiene la International Social Security Review, nel cui consiglio scientifico siedono sindacalisti di rango). In breve, il sistema previdenziale contributivo costruito nel 1995 con l’apporto della triplice esce maciullato dal ddl più di quanto non lo fosse dal Protocollo. Ciò dovrebbe porre seri problemi al Sen. Lamberto Dini ed alla sua nuova formazione politica. Ciò ne pone, senza dubbio, alla “triplice”. Che ha protestato. Nel silenzio assordante di Dini & Co.
In secondo luogo, in materia di mercato del lavoro, il collaboratore più stretto di Marco Biagi , Michele Tiraboschi, ha precisato su un quotidiano economico a diffusione nazionale come il ddl ci allontani dall’evoluzione della normativa nel resto dell’Ue. Sono riflessioni non solo da condividere in pieno ma a cui aggiungere alcuni spunti economici. Innanzitutto, non solo i quattro milioni di lavoratori al nero (frutto di rigidità che il ddl re-introduce nei contratti a termine e nel tempo parziale e con la eliminazione dello staff leasing ), inizialmente stimati, per l’Italia, da Dreher e Schneider in uno studio comparato di 70 Paesi e ricordati da Tiraboschi, minacciano di diventare un elemento importante di corruzione del sistema produttivo e politico (secondo la tesi originaria di Dreher e Schneider) : lo sanno sia la “triplice” sia “l’Italia dei Valori” (i cui parlamentari cominciano a nutrire perplessità sul ddl). L’aumento delle rigidità normativa si inserisce, poi, in un contesto che, secondo un’analisi ancora a diffusione limitata del servizio studi della Banca centrale europea, è dominato da forte rigidità salariale: l’analisi riguarda 19 Paesi Ocse , utilizza un metodo statistico innovativo e mostra i nessi tra rigidità normativa e salariale da un lato e bassi tassi di attività, dall’altro. Un’analisi distinta, anche se parallela, della Banca centrale spagnola (relativa a Belgio Germania, Francia, Italia, Portogallo e Spagna), mostra come tale rigidità normativa e salariale si rifletta in rigidità sui prezzi e, dunque, in pressioni inflazionistiche. Le parti sociali ne sono consapevoli. E non lo gradiscono.
Infine, l’ultima chicca riguarda la politica per la famiglia: in un provvedimento solo formalmente parallelo ma intrinsecamente connesso al futuro del welfare, il Governo ha tagliato drasticamente i finanziamenti agli asili nido. Proprio quando dall’Europa – si veda il volume di Barea, Carenzi e Cesana per conto dell’European Institute of Public Administration – giungono inviti a superare la crisi dello stato sociale puntando su corpi intermedi – in primo luogo la famiglia.
Riferimenti
Auerbach A., Lee R. "Notional Defined Contribution Pension Systems in a Stochastic Context: Design and Stability" NBER Working Paper No. W12805
Barea M. , Carenzi A., Cesana A. Il welfare in Europa: i principali fattori di una crisi, Società Editrice Fiorentina , Firenze 2005
Buchanam N. What Do We Owe Future Generations? Framing the Issues, with an Application to Budget Policy" GWU Law School Public Law Research Paper No. 351 GWU Legal Studies Research Paper No. 351
Breyer F. , Hupfeld S. On the Fairness of Early Retirement Provisions". CESifo Working Paper Series No. 2078
Conde Ruiz I., Profeta P. "The Redistributive Design of Social Security Systems" Economic Journal, Vol. 117, No. 520, pp. 686-712, April 2007
Dreher A., Schneider F. “Corruption and the Shadow Economy: An Empirical Analysis"" Paper ID: IZA Discussion Paper No. 1936 Date: January 2006
Holden S. , Wulfsberg F. "Downward Nominal Wage Rigidity in the OECD" ECB Working Paper No. 777
Kannan P.K. "Social Security in a Globalizing World" International Social Security Review, Vol. 60, No. 2-3, pp.19-37, April-September 2007
Holzmann R, Palmer R. Pension Reform:Issues and Prospects for Non-Financial Defined Contribution , NDC, Schemes The World Bank, Washington D.C. 2005
Tiraboschi M. Misure che ci allontanano dall’Europa Il Sole-24 Ore, 14 ottobre 2007 p. 3
Vermueulen Ph., Dias D., Dossche M., Gautiers E., Hernando I., Sabbatini R., Stahl H. „Price Setting in the Euro Area: Some Stylised Facts from Individual Producer Price Data" Banco de España Research Paper No. WP-0703
15 Ottobre 2007 prodi protocollo del welfare sindacati sinistra radicale veltroni Economia Commenta Email Condividi
Il “tavolo della concertazione” è stato convocato per oggi stesso. I sindacati (e parte della maggioranza) sono in rivolta nei confronti del disegno di legge approvato venerdì 12 ottobre (Columbus Day, un invito implicito a Prodi ad imbarcarsi su una caravella e veleggiare verso altri lidi) e, guidati dalla Cgil, contestano che, nonostante gli esiti del referendum del 9-10 ottobre, il ddl travisi (in omaggio alla sinistra radical-reazionaria) il Protocollo sul Welfare faticosamente approvato il 23 luglio scorso. Prodi ammette che qualche ritocco è stato fatto ma minimizza sulla portata delle modifiche.
L’Occidentale ha commentato il Protocollo a suo tempo, soffermandosi, in particolare, sulla parte più significativa (quella relativa alla previdenza – vedi L’Occidentale del 20 luglio 2007). Non intendo tornare sulle critiche formulate all’epoca (ossia che il Protocollo non tutela i più poveri ma individui e famiglie a reddito medio bassi e pone i costi delle provvidenze sui giovani). Per contribuire a dipanare la complicata matassa, però, è utile esaminare in che misura il ddl si distanzia dal Protocollo e quali ne sono le prevedibili implicazioni.
In primo luogo, in tema di previdenza le innovazioni del ddl (rispetto al Protocollo) maggiormente criticate dalle parti sociali sono le seguenti: i) l’eliminazione della soglia del 60% dell’ultima retribuzione che sarebbe stata garantita integrando con la mano pubblica l’assegno previdenziale di vecchiaia calcolato con il metodo contributivo; ii) l’ampliamento dei lavori da considerare usuranti per avere titolo a pensioni di anzianità; iii) il rinvio della riorganizzazione degli enti previdenziali (che sarebbe dovuto essere fonte parziale di finanziamento dell’abolizione del cosiddetto “scalone” con cui la riforma del 2004 posponeva l’età minima per la pensione di anzianità). In effetti, nonostante quanto scritto anche da economisti vicini all’attuale opposizione (ma poco esperti in sistemi previdenziali comparati), la soglia alle pensioni di vecchiaia (il cui livello – se 60% dell’ultima retribuzione o meno – può, anzi deve, essere discusso) non rappresenta la messa in questione delle fondamenta stesse del sistema contributivo, ma è prevista in gran parte dei sistemi contributivi in vigore, come dimostrato dalla monumentale rassegna (700 pagine a stampa fitta) fattane da Robert Holzmann e Edward Palmer. Il sistema contributivo viene sbrindellato molto più dall’allargamento delle causali per pensioni di anzianità tramite la più ampia definizioni di lavori usuranti, nonché dal marchingegno per mantenere ancora ad età relativamente giovane. Ciò è socialmente “unfair”, ingiusto, come afferma il più recente studio internazionale in materia (effettuato dall’Università di Costanza – distinta e distante dalle nostre beghe casalinghe – e da quelle del sinedrio dell’Unione). Oltre a porre oneri sulle generazioni future (lo ribadisce un’analisi della George Washington University fresca di stampa), rende l’intero sistema di sicurezza sociale più fragile e più esposto ai venti del processo di integrazione economica internazionale (lo sostiene la International Social Security Review, nel cui consiglio scientifico siedono sindacalisti di rango). In breve, il sistema previdenziale contributivo costruito nel 1995 con l’apporto della triplice esce maciullato dal ddl più di quanto non lo fosse dal Protocollo. Ciò dovrebbe porre seri problemi al Sen. Lamberto Dini ed alla sua nuova formazione politica. Ciò ne pone, senza dubbio, alla “triplice”. Che ha protestato. Nel silenzio assordante di Dini & Co.
In secondo luogo, in materia di mercato del lavoro, il collaboratore più stretto di Marco Biagi , Michele Tiraboschi, ha precisato su un quotidiano economico a diffusione nazionale come il ddl ci allontani dall’evoluzione della normativa nel resto dell’Ue. Sono riflessioni non solo da condividere in pieno ma a cui aggiungere alcuni spunti economici. Innanzitutto, non solo i quattro milioni di lavoratori al nero (frutto di rigidità che il ddl re-introduce nei contratti a termine e nel tempo parziale e con la eliminazione dello staff leasing ), inizialmente stimati, per l’Italia, da Dreher e Schneider in uno studio comparato di 70 Paesi e ricordati da Tiraboschi, minacciano di diventare un elemento importante di corruzione del sistema produttivo e politico (secondo la tesi originaria di Dreher e Schneider) : lo sanno sia la “triplice” sia “l’Italia dei Valori” (i cui parlamentari cominciano a nutrire perplessità sul ddl). L’aumento delle rigidità normativa si inserisce, poi, in un contesto che, secondo un’analisi ancora a diffusione limitata del servizio studi della Banca centrale europea, è dominato da forte rigidità salariale: l’analisi riguarda 19 Paesi Ocse , utilizza un metodo statistico innovativo e mostra i nessi tra rigidità normativa e salariale da un lato e bassi tassi di attività, dall’altro. Un’analisi distinta, anche se parallela, della Banca centrale spagnola (relativa a Belgio Germania, Francia, Italia, Portogallo e Spagna), mostra come tale rigidità normativa e salariale si rifletta in rigidità sui prezzi e, dunque, in pressioni inflazionistiche. Le parti sociali ne sono consapevoli. E non lo gradiscono.
Infine, l’ultima chicca riguarda la politica per la famiglia: in un provvedimento solo formalmente parallelo ma intrinsecamente connesso al futuro del welfare, il Governo ha tagliato drasticamente i finanziamenti agli asili nido. Proprio quando dall’Europa – si veda il volume di Barea, Carenzi e Cesana per conto dell’European Institute of Public Administration – giungono inviti a superare la crisi dello stato sociale puntando su corpi intermedi – in primo luogo la famiglia.
Riferimenti
Auerbach A., Lee R. "Notional Defined Contribution Pension Systems in a Stochastic Context: Design and Stability" NBER Working Paper No. W12805
Barea M. , Carenzi A., Cesana A. Il welfare in Europa: i principali fattori di una crisi, Società Editrice Fiorentina , Firenze 2005
Buchanam N. What Do We Owe Future Generations? Framing the Issues, with an Application to Budget Policy" GWU Law School Public Law Research Paper No. 351 GWU Legal Studies Research Paper No. 351
Breyer F. , Hupfeld S. On the Fairness of Early Retirement Provisions". CESifo Working Paper Series No. 2078
Conde Ruiz I., Profeta P. "The Redistributive Design of Social Security Systems" Economic Journal, Vol. 117, No. 520, pp. 686-712, April 2007
Dreher A., Schneider F. “Corruption and the Shadow Economy: An Empirical Analysis"" Paper ID: IZA Discussion Paper No. 1936 Date: January 2006
Holden S. , Wulfsberg F. "Downward Nominal Wage Rigidity in the OECD" ECB Working Paper No. 777
Kannan P.K. "Social Security in a Globalizing World" International Social Security Review, Vol. 60, No. 2-3, pp.19-37, April-September 2007
Holzmann R, Palmer R. Pension Reform:Issues and Prospects for Non-Financial Defined Contribution , NDC, Schemes The World Bank, Washington D.C. 2005
Tiraboschi M. Misure che ci allontanano dall’Europa Il Sole-24 Ore, 14 ottobre 2007 p. 3
Vermueulen Ph., Dias D., Dossche M., Gautiers E., Hernando I., Sabbatini R., Stahl H. „Price Setting in the Euro Area: Some Stylised Facts from Individual Producer Price Data" Banco de España Research Paper No. WP-0703
15 Ottobre 2007 prodi protocollo del welfare sindacati sinistra radicale veltroni Economia Commenta Email Condividi
sabato 13 ottobre 2007
IL FESTIVAL VERDI DI PARMA CONFERMA CHE PROGETTARE PAGA DA Il domenicale del 13 ottobre
Per un mese, Parma (ed il suo hinterland) sono interamente dedicati a Verdi. L’immagine di uno dei maggiori compositori italiani è nelle vetrine di tutti i negozi; ricette “verdiane” trovano spazio nei menu dei ristoranti e nelle cene organizzate in teatro; il capoluogo e le città vicine (principalmente Busseto e Torrechiara) brulicano di turisti, (in gran forza, i francesi ed i tedeschi) venuti anche dal lontano Giappone. Il successo del Festival Verdi 2007 corona un progetto iniziato circa tre anni fa quando Parma stava uscendo dalla crisi della sua maggiore industria alimentare. L’idea era affascinante : rilanciare l’economia della città e del suo circondario puntando sulla cultura- facendo diventare Parma “capitale europea della musica” non in base di una delle tante medagliette distribuite a rotazione (tra differenti città) per un anno dalla Commissione Europea ma in quanto riconosciuta come tale per la propria autorevolezza. L’autorevolezza non si compra ma si conquista ogni giorno sul campo.
Il progetto ha fatto perno su una squadra compatta, efficiente e sperimentata (a Ferrara, a Cagliari e, per un breve periodo, alla Scala) per dare nuova vita alle strutture musicali della città (un po’ appassite con il trascorrere degli anni): il mitico Teatro Regio, l’Auditorium Paganini, nonché spazi scenici vicini come il piccolo (300 posti) ma magnifico Teatro Verdi di Busseto ed il Castello di Torrechiara. Per due anni, grandi direttori d’orchestra, voci di richiamo internazionale, registi noti in tutto il mondo e solisti di fama si sono avvicendati nei palcoscenici di Parma, portando nuovo interesse nei confronti della capacità di offrire musica di alto livello. Attenzione al tempo stesso al contenimento dei costi – quasi tutti gli spettacoli lirici sono in co-produzione, i concerti di complessi sinfonici e di solisti sono incardinati in tournée in varie parti d’Europa. E alla abilità di trovare sponsor: non solo dalla società pubblica per il finanziamento della cultura come indotto delle grandi opere (Arcus) ma anche da partner internazionali e nazionali (Audi, Mediaset, Crédit Agricole, Barilla, fondazioni bancarie ed imprese locali). Gli sponsor coprono il 20% di un budget di 7,8 milioni di euro; e la biglietteria un altro 20% circa). Infine, l’ambizione di attuare un Festival per tutti: sia per coloro in grado di comprare biglietti e pagarsi trasferte – quasi un quinto dei biglietti è stato venduto direttamente all’estero tramite tour operator specializzati - sia per chi ama la musica alta, o vi si avvicina, ma può farlo solamente gratis o quasi. Un festival, dunque, partecipato da tutti coloro che vivono a Parma e nel suo hinterland oppure riescono a raggiungerla.
Nei 28 giorni del Festival – dal primo al 28 ottobre -, uno per ciascuna delle 27 opere di Verdi, oltre il 10 ottobre, 194simo compleanno di Verdi celebrato, tra l’altro, con una Messa da Requiem diretta da Riccardo Muti – si susseguono esecuzioni di selezioni di tutte le opere del maestro (in versione semplificata con accompagnamento di pianoforte o di chitarra romantica) nell’ordine cronologico in cui solcarono il palcoscenico per la prima volta. Tre nuovi allestimenti vengono presentati al Teatro Regio (“La Traviata” in co-produzione con i teatri di Bruxelles, Dűsserdolf e Duisburg e “Luisa Miller” in co-produzione con Modena e Torino) e al Verdi di Busseto (“Oberto, Conte di San Bonifacio). Il festival offre anche la prima assoluta di un’opera contemporanea dedicata a Falcone (“Il tempo sospeso nel volo” di Nicola Sani) che si vedrà in altre città italiane e concerti sinfonici (oltre che dei complessi locali dell’Orchestre National de l’Opéra de Paris e della Filarmonica della Scala). In altra sede mi soffermo sugli aspetti musicali. E’ importante sottolineare che viene presentato un Verdi moderno, capace di parlare alla nuove generazioni. L’azione di “Oberto” è spostata dal 1200 al Risorgimento, quella di “Luisa Miller” dalla Germania protoromantica alla padania delle prime lotte contadine. “La Traviata”, pur seguendo pedissequamente le istruzioni sceniche verdine, pare tratta più da Balzac o Beaudelaire che da Dumas figlio. Lo studio degli impatti economici (sull’indotto) è stato affidato ad una società di ricerca economica di Roma; in parallelo, presso uno degli atenei milanesi viene condotta un’analisi finanziaria ed economica del festival. Le prime indicazioni – ovviamente basate su impressioni più che su dati quantitativi – indicano che i rapporti costi benefici saranno buoni.
Il progetto ha fatto perno su una squadra compatta, efficiente e sperimentata (a Ferrara, a Cagliari e, per un breve periodo, alla Scala) per dare nuova vita alle strutture musicali della città (un po’ appassite con il trascorrere degli anni): il mitico Teatro Regio, l’Auditorium Paganini, nonché spazi scenici vicini come il piccolo (300 posti) ma magnifico Teatro Verdi di Busseto ed il Castello di Torrechiara. Per due anni, grandi direttori d’orchestra, voci di richiamo internazionale, registi noti in tutto il mondo e solisti di fama si sono avvicendati nei palcoscenici di Parma, portando nuovo interesse nei confronti della capacità di offrire musica di alto livello. Attenzione al tempo stesso al contenimento dei costi – quasi tutti gli spettacoli lirici sono in co-produzione, i concerti di complessi sinfonici e di solisti sono incardinati in tournée in varie parti d’Europa. E alla abilità di trovare sponsor: non solo dalla società pubblica per il finanziamento della cultura come indotto delle grandi opere (Arcus) ma anche da partner internazionali e nazionali (Audi, Mediaset, Crédit Agricole, Barilla, fondazioni bancarie ed imprese locali). Gli sponsor coprono il 20% di un budget di 7,8 milioni di euro; e la biglietteria un altro 20% circa). Infine, l’ambizione di attuare un Festival per tutti: sia per coloro in grado di comprare biglietti e pagarsi trasferte – quasi un quinto dei biglietti è stato venduto direttamente all’estero tramite tour operator specializzati - sia per chi ama la musica alta, o vi si avvicina, ma può farlo solamente gratis o quasi. Un festival, dunque, partecipato da tutti coloro che vivono a Parma e nel suo hinterland oppure riescono a raggiungerla.
Nei 28 giorni del Festival – dal primo al 28 ottobre -, uno per ciascuna delle 27 opere di Verdi, oltre il 10 ottobre, 194simo compleanno di Verdi celebrato, tra l’altro, con una Messa da Requiem diretta da Riccardo Muti – si susseguono esecuzioni di selezioni di tutte le opere del maestro (in versione semplificata con accompagnamento di pianoforte o di chitarra romantica) nell’ordine cronologico in cui solcarono il palcoscenico per la prima volta. Tre nuovi allestimenti vengono presentati al Teatro Regio (“La Traviata” in co-produzione con i teatri di Bruxelles, Dűsserdolf e Duisburg e “Luisa Miller” in co-produzione con Modena e Torino) e al Verdi di Busseto (“Oberto, Conte di San Bonifacio). Il festival offre anche la prima assoluta di un’opera contemporanea dedicata a Falcone (“Il tempo sospeso nel volo” di Nicola Sani) che si vedrà in altre città italiane e concerti sinfonici (oltre che dei complessi locali dell’Orchestre National de l’Opéra de Paris e della Filarmonica della Scala). In altra sede mi soffermo sugli aspetti musicali. E’ importante sottolineare che viene presentato un Verdi moderno, capace di parlare alla nuove generazioni. L’azione di “Oberto” è spostata dal 1200 al Risorgimento, quella di “Luisa Miller” dalla Germania protoromantica alla padania delle prime lotte contadine. “La Traviata”, pur seguendo pedissequamente le istruzioni sceniche verdine, pare tratta più da Balzac o Beaudelaire che da Dumas figlio. Lo studio degli impatti economici (sull’indotto) è stato affidato ad una società di ricerca economica di Roma; in parallelo, presso uno degli atenei milanesi viene condotta un’analisi finanziaria ed economica del festival. Le prime indicazioni – ovviamente basate su impressioni più che su dati quantitativi – indicano che i rapporti costi benefici saranno buoni.
venerdì 12 ottobre 2007
PERCHE’ ALLA RUSSIA PIACE TANTO ALITALIA
L’8 ottobre, negli anonimi palazzi della Magliana, il CdA dell’Alitalia he definito : i sei canditati in lizza per l’acquisto del 49.9% del capitale dell’azienda ancora controllato dallo Stato: Air France-Klm; Lufthansa; Texas Pacific Holding ; Air One con Apd Holding e Intesa-San Paolo; Aeroflot; una cordata guidata dall’ex Presidente della Corte Costituzionale (e della Rai) Antonio Baldassarre. Ha pure precisato che gli advisor sono al lavoro: l’auspicio è di chiudere la partita prima della fine dell’anno.
L’11 ottobre nell’elegante sala da pranzo rococò di Palazzo Rondinini (sede – come precisa una targa – dell’Ambasciata dello Zar di tutte le Russie presso lo Stato della Chiesa sino alla presa di Porta Pia – una ventina di esperti si sono riuniti a colazione per esaminare le relazioni tra la Russia e l’Europa nell’ambito di un’iniziativa presa dall’Istituto Affari Internazionali (I.A.I.) e dallo EU-Russia Center di Bruxelles. La relazione di base è stata tenuta dalla Prof.ssa Maria Ordzhonikidze dell’Università dell’Amicizia (che nome appropriato!) della Russia.
Il nesso tra le due notizie può apparire labile. Il secondo era una colazione privata e, quindi, riservata. Tuttavia, occorre ammettere che notte e nebbia – anzi silenzio tombale- ammantavano il comunicato del primo (il CdA Alitalia) specialmente in materia di parametri di valutazione e di criteri di scelta tra i piani industriali e le offerte finanziarie dei contendenti. Tanto più molti si chiedono come mai, dopo un beauty contest terminato in una bolla di sapone, Alitalia è adesso considera appetibile da sei gruppi. Tuttavia, nel salone rococò si avvertiva il volo di Aeroflot (ed il profumo di Gazprom) non soltanto gli echi di grandi problemi di strategia internazionale.
Chiedersi perché a Aeroflot piace Alitalia è domanda legittima anche in quanto gli altri pretendenti alla mano dell’azienda hanno problemi. In primo luogo, Air France (coniugata con Klm) è stata a lungo socio di Alitalia (con un rappresentante di rango nel suo CdA); quindi, dispone di informazione sulla redditività delle singole tratte (che pare non siano state rese disponibili agli altri). Ciò porrebbe la cordata in una posizione di vantaggio tale da esporre un accordo a ricorsi in varie sedi- anche europee. In secondo luogo, un altro concorrente, Air One, fa parte della rete Star Alliance, il cui capofila, Lufthansa, ha detto di non considerarla in grado di operare su rotte intercontinentali. In terzo luogo, altri contendenti sono privi di esperienza nel settore dell’aviazione civile – meramente fondi alla ricerca di investimenti. In quarto luogo, dei sei candidati sino ad ora unicamente Aeroflot avrebbe indicato cosa fare di Alitalia (farne il ramo di russo di una multinazionale).
A questo punto spostiamoci dalla Magliana a Palazzo Rondinini. Dallo scambio di idee conviviale, è apparso chiaro che la Russia non è soltanto gas (il 46% dell’importazioni di gas dell’Ue ed il 30% di quelle dell’Italia vengono dalla Federazione Russa) e petrolio (soltanto Cipro e la Slovenia non dipendono dalla Federazione per le loro importazioni di grezzo). Non è neanche principalmente un partner commerciale e di investimenti diretti (peraltro in modo molto asimmetrico dato che l’Ue ha un volume di investimenti diretti in Russia notevolmente maggiore di quello della Federazione nell’Ue). Anzi la Russia è pienamente consapevole che gas e petrolio sono risorse che si esauriranno. Si sta preparando a nuove sfide in due settori: spazio e tecnologia. Per ambedue un partner europeo come Alitalia potrebbe rappresentare la porta per entrare nel più vasto mercato europeo.In questo contesto, l’interesse dell’Aeroflot per Alitalia assume un significato strategico con significative implicazioni geopolitiche. Si pone nell’ambito di una partita a scacchi in cui la Russia preferisce accordi bilaterali con i singoli Stati Ue mentre in Europa comincia a fare strada l’idea di un’intesa globale “comprehensive”. Un percorso lungo. Nel quale si incuneerebbe una storia d’amore Aeroflot-Alitalia
L’11 ottobre nell’elegante sala da pranzo rococò di Palazzo Rondinini (sede – come precisa una targa – dell’Ambasciata dello Zar di tutte le Russie presso lo Stato della Chiesa sino alla presa di Porta Pia – una ventina di esperti si sono riuniti a colazione per esaminare le relazioni tra la Russia e l’Europa nell’ambito di un’iniziativa presa dall’Istituto Affari Internazionali (I.A.I.) e dallo EU-Russia Center di Bruxelles. La relazione di base è stata tenuta dalla Prof.ssa Maria Ordzhonikidze dell’Università dell’Amicizia (che nome appropriato!) della Russia.
Il nesso tra le due notizie può apparire labile. Il secondo era una colazione privata e, quindi, riservata. Tuttavia, occorre ammettere che notte e nebbia – anzi silenzio tombale- ammantavano il comunicato del primo (il CdA Alitalia) specialmente in materia di parametri di valutazione e di criteri di scelta tra i piani industriali e le offerte finanziarie dei contendenti. Tanto più molti si chiedono come mai, dopo un beauty contest terminato in una bolla di sapone, Alitalia è adesso considera appetibile da sei gruppi. Tuttavia, nel salone rococò si avvertiva il volo di Aeroflot (ed il profumo di Gazprom) non soltanto gli echi di grandi problemi di strategia internazionale.
Chiedersi perché a Aeroflot piace Alitalia è domanda legittima anche in quanto gli altri pretendenti alla mano dell’azienda hanno problemi. In primo luogo, Air France (coniugata con Klm) è stata a lungo socio di Alitalia (con un rappresentante di rango nel suo CdA); quindi, dispone di informazione sulla redditività delle singole tratte (che pare non siano state rese disponibili agli altri). Ciò porrebbe la cordata in una posizione di vantaggio tale da esporre un accordo a ricorsi in varie sedi- anche europee. In secondo luogo, un altro concorrente, Air One, fa parte della rete Star Alliance, il cui capofila, Lufthansa, ha detto di non considerarla in grado di operare su rotte intercontinentali. In terzo luogo, altri contendenti sono privi di esperienza nel settore dell’aviazione civile – meramente fondi alla ricerca di investimenti. In quarto luogo, dei sei candidati sino ad ora unicamente Aeroflot avrebbe indicato cosa fare di Alitalia (farne il ramo di russo di una multinazionale).
A questo punto spostiamoci dalla Magliana a Palazzo Rondinini. Dallo scambio di idee conviviale, è apparso chiaro che la Russia non è soltanto gas (il 46% dell’importazioni di gas dell’Ue ed il 30% di quelle dell’Italia vengono dalla Federazione Russa) e petrolio (soltanto Cipro e la Slovenia non dipendono dalla Federazione per le loro importazioni di grezzo). Non è neanche principalmente un partner commerciale e di investimenti diretti (peraltro in modo molto asimmetrico dato che l’Ue ha un volume di investimenti diretti in Russia notevolmente maggiore di quello della Federazione nell’Ue). Anzi la Russia è pienamente consapevole che gas e petrolio sono risorse che si esauriranno. Si sta preparando a nuove sfide in due settori: spazio e tecnologia. Per ambedue un partner europeo come Alitalia potrebbe rappresentare la porta per entrare nel più vasto mercato europeo.In questo contesto, l’interesse dell’Aeroflot per Alitalia assume un significato strategico con significative implicazioni geopolitiche. Si pone nell’ambito di una partita a scacchi in cui la Russia preferisce accordi bilaterali con i singoli Stati Ue mentre in Europa comincia a fare strada l’idea di un’intesa globale “comprehensive”. Un percorso lungo. Nel quale si incuneerebbe una storia d’amore Aeroflot-Alitalia
TORNA IL FASCINO DISCRETO DEI BOND MARKET
A prima vista, ed ad un’analisi convenzionale, molti elementi sarebbero contrari agli investimenti a reddito fisso. Le emissioni migliori a medio e lungo termini del recente passato costano care a ragione delle tensioni (ancora non del tutto sopite) sui mercati dei capitali. Le prospettive di aumenti ulteriori di valorizzazione a breve non pariono incoraggianti, specialmente dopo le decisioni della Fed e della Bce di ridurre oppure tenere bassi i tassi di interesse nominali. Gli investitori hanno i portafogli pieni di bond pubblici, soprattutto a ragione della “flight-to-quality” della primavera e soprattutto dell’estate scorsa: ciò ha aumentato le quotazione e depresso i rendimenti. Ciò nonostante, il reddito fisso ricomincia a proiettare un discreto fascino. Non soltanto nei confronti di coloro che ritengono il G8 (la prossima riunione è il 19 ottobre), il Fondo monetario (la cui assemblea generale è a giorni) e le banche centrali in generali di non riuscire a pilotare l’economia reale Usa ed Ue verso una ripresa sostenuta – ed investono in bond come valvola di sicurezza. Cominciano a guardare con crescente interesse a questa parte del mercato ancora coloro che prevedono un futuro di crescita ma accompagnato da inflazione (tradizionalmente il nemico n.1 delle obbligazioni). Lo suggerisce un’inchiesta di Robert D. Hersey jr del “New York Times” ma anche una serie di indicazioni provenienti da analisi scientifiche, in gran misura inedite od a circolazione limitata. In sintesi, questi studi mostrano che la “yield curve” (curva dei rendimenti a breve incrociata con quella dei rendimenti a medio e lungo termine) sta riprendendo un’inclinazione positiva tanto negli Usa quanto in Europa.
In parole povere ciò vuol dire che gli operatori a guardare positivamente investimenti (come i bond) che danno soddisfazioni nel lungo termine in termine di valorizzazione (anche se in certe fasi comportano rendimenti relativamente contenuti). Lo sostiene tra l’altro un’analisi quantitativa della Università della Pennsylvania () che utilizza uno strumento innovativo: una versione dinamica della “curva dei rendimenti” quale elaborata nel 1987 (il veicolo usato più correntemente da operatori finanziari) e lo applica alle piazze di Germania , Giappone , Regno Unito ed Usa. In base al modello, chi nei prossimi mesi chi è alla ricerca di occasioni vorrà esaminare con attenzione fondi obbligazionari chiusi (spesso in più valute), molti dei quali sono stati scartati frettolosamente, nelle settimane di agosto , i giorni di maggiore tensione sui mercati finanziari.
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In parole povere ciò vuol dire che gli operatori a guardare positivamente investimenti (come i bond) che danno soddisfazioni nel lungo termine in termine di valorizzazione (anche se in certe fasi comportano rendimenti relativamente contenuti). Lo sostiene tra l’altro un’analisi quantitativa della Università della Pennsylvania () che utilizza uno strumento innovativo: una versione dinamica della “curva dei rendimenti” quale elaborata nel 1987 (il veicolo usato più correntemente da operatori finanziari) e lo applica alle piazze di Germania , Giappone , Regno Unito ed Usa. In base al modello, chi nei prossimi mesi chi è alla ricerca di occasioni vorrà esaminare con attenzione fondi obbligazionari chiusi (spesso in più valute), molti dei quali sono stati scartati frettolosamente, nelle settimane di agosto , i giorni di maggiore tensione sui mercati finanziari.
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giovedì 11 ottobre 2007
NEI MUNICIPI PROPRIETA’ PUBBLICA E SERVIZIO PRIVATO
Numero di aziende :369. Contributo al pil nazionale: dall’l’1% al 6% Numero di addetti: 200.000 unità . E’ questa la dimensione del capitalismo municipale. Ebbene, in questo segmento così rilevante dell’economia italiana si è prodotto tra il 2001 ed il 2006 un calo degli investimenti in rapporto al fatturato dal 20% al 17%. Il calo è stato ancora più pronunciato nei comparti dell’energia dal 20% al 13% e dei trasporti pubblici locali,dal 23 al 20%), Ciò a fronte di persistenti nonché vistose differenze costi del personale e della redditività fra le varia macro-aree (Sud,Centro e Nord)
Queste cifre, danno corpo all’ipotesi secondo cui in certe aree del Paese ed in certi settori l’”ingombro” della politica locale è maggiore che in altre con l’esito che il management, anche di qualità, ha le mani legati pure nel reperimento di finanziamenti (nonostante la disponibilità di risorse private per finanza di progetto). Inoltre, il forte aumento dell’imposizione locale (nel solo 2007 il gettito dei comuni è aumentato dell’8,5%) ha comportato un freno alle tariffe: uno studio ancora inedito delle Università di Brescia e Padova indica che dal 1998 al 2005, gli esborsi per acqua, elettricità e riscaldamento delle famiglie a basso reddito è passata dallo 0,0648% allo 0,0595% della spesa familiare totale, restando al di sotto dei livelli di soglia definiti nel resto dell’Ue. Infine, i tentativi di privatizzazione, che avrebbero dovuto avere un impulso con la finanziaria del 2002 , sono stati formali e ci è mossi in modo discordante in materia di trasporto pubblico locale, gas, energia elettrica e acque. Causando frammentazione ed ingenerando disorientamento tra i potenziali investitori.
La seconda versione del ddl Lanzilotta (mantenendo il doppio binario della gara e delle fornitura di servizi pubblici attraverso aziende speciali) non riduce l’incertezza né sugli obiettivi dei servizi pubblici locali (trasporti ed energia in prima fila) né sugli strumenti per offrirli ai cittadini nelle condizioni migliori,
Come uscirne? Il Dipartimento di Economia del “La Sapienza” propone “una scelta radicale”:“una gestione pubblica separata dalla fornitura del servizio, almeno sino al momento in cui non sarà risolto il nodo degli assetti gestionali” . E’ una soluzione sensata piuttosto che radicale, specialmente in un contesto in cui c’è una spinta imprenditoriale in campi (telecomunicazioni, energia, autostrade) con prospettive di profitto
Queste cifre, danno corpo all’ipotesi secondo cui in certe aree del Paese ed in certi settori l’”ingombro” della politica locale è maggiore che in altre con l’esito che il management, anche di qualità, ha le mani legati pure nel reperimento di finanziamenti (nonostante la disponibilità di risorse private per finanza di progetto). Inoltre, il forte aumento dell’imposizione locale (nel solo 2007 il gettito dei comuni è aumentato dell’8,5%) ha comportato un freno alle tariffe: uno studio ancora inedito delle Università di Brescia e Padova indica che dal 1998 al 2005, gli esborsi per acqua, elettricità e riscaldamento delle famiglie a basso reddito è passata dallo 0,0648% allo 0,0595% della spesa familiare totale, restando al di sotto dei livelli di soglia definiti nel resto dell’Ue. Infine, i tentativi di privatizzazione, che avrebbero dovuto avere un impulso con la finanziaria del 2002 , sono stati formali e ci è mossi in modo discordante in materia di trasporto pubblico locale, gas, energia elettrica e acque. Causando frammentazione ed ingenerando disorientamento tra i potenziali investitori.
La seconda versione del ddl Lanzilotta (mantenendo il doppio binario della gara e delle fornitura di servizi pubblici attraverso aziende speciali) non riduce l’incertezza né sugli obiettivi dei servizi pubblici locali (trasporti ed energia in prima fila) né sugli strumenti per offrirli ai cittadini nelle condizioni migliori,
Come uscirne? Il Dipartimento di Economia del “La Sapienza” propone “una scelta radicale”:“una gestione pubblica separata dalla fornitura del servizio, almeno sino al momento in cui non sarà risolto il nodo degli assetti gestionali” . E’ una soluzione sensata piuttosto che radicale, specialmente in un contesto in cui c’è una spinta imprenditoriale in campi (telecomunicazioni, energia, autostrade) con prospettive di profitto
lunedì 8 ottobre 2007
Se l'opera lirica si affida al mercato da l'occidentale dellì8 ottobre
Mentre si metteva a punto la legge finanziaria, al Ministero dei Beni e delle Attività Culturali si discuteva animatamente se e come introdurre incentivi alla maggiore economicità nella gestione dei teatri lirici. Due determinanti immediate la hanno scatenata: a) la definizione di incentivi per i bacini d’utenza delle scuole (quelle che funzioneranno meglio riceveranno finanziamenti aggiuntivi), infine previsti all’art.50 della legge finanziaria; b) la situazione disastrosa del San Carlo di Napoli (e di contrappunto il risanamento e la rinascita del Massimo di Palermo) , prova concreta che il dissesto finanziario dei teatri lirici non ha rapporti (veri o presunti con la meridionalità, ma ne ha con la qualità della gestione). La proposta, in breve, era quella di introdurre un meccanismo di premialità: i teatri che chiudono i bilanci in pareggio od in utile avrebbero ricevuto un premio (analogo a quelli previsti dai fondi strutturali europei) per programmare stagioni più ricche nel futuro. Tale proposta – ricordiamolo – era stata presentata la primavera scorsa ad un seminario organizzato a Milano dall’Istituto Bruno Leoni a cui hanno partecipato numerosi esponenti della cultura musicale italiana. L’idea è stata cassata dalla confraternita della spesa in disavanzo per la musa bizzarra ed altera- confraternita di cui – è triste dirlo – fanno parte molti Sovrintendi di teatri lirici.
Nel nostro “orientamento quotidiano” abbiamo visto (ad esempio, analizzando i conti e le vicende del Festival di Aix-en-Provence) come non è necessario chiudere i bilanci consuntivi in passivo (e correre da Pantalone in cerca di aiuto) per fare buona lirica.
Di recente, mi sono recato a Barcellona per l’inaugurazione della stagione. Il Teatro nasce come un’impresa puramente privata (una società di palchettisti simile a quelle che allora nascevano in tutta Italia) e tale è rimasta sino all’incendio del 31 gennaio 1994 che distrusse la platea ed il palcoscenico (il 29 gennaio 1996 un incendio analogo avvenne alla Fenice). Le esigenze finanziarie della ricostruzione (il teatro venne riaperto il 7 ottobre 1999, la Fenice il 14 dicembre 2003) costrinsero la Società dei palchettisti a cedere il teatro ad un’associazione di cui fanno parte il Ministero della Cultura, la Catalogna, la Regione, il Comune, oltre ai rappresentati dei vecchi proprietari e di vecchi e nuovi sponsor.
La ricostruzione è stata l’occasione per innovare profondamente il teatro (mantenendo la platea, i palchi, il foyer, la sala degli specchi e la facciata come nell’originale ottocentesco), ma dotandolo di un palcoscenico tecnologico (che consente la messa in scena di più spettacoli nel corso della stessa settimana), di un ristorante sotto la platea (per cene dopo teatro) e soprattutto di un impianto per riprese televisive e DvD – la cessione di diritti televisivi (specialmente in Usa ed Oriente- in Italia si vedono spesso sul canale “Classica”) e la vendita di Dvd sono una fonte importante di proventi, unitamente all’apporto degli sponsor (incoraggiati da incentivi tributari). La biglietteria, comunque, copre il 35% del bilancio (sempre in leggero attivo): cifra che fa impallidire il 5% dei teatri italiani ed il 10% di quelli tedeschi.
La programmazione tiene conto di due considerazioni: la possibilità di co-produzioni (e di tournée) ed il gradimento del pubblico. Ad esempio, questa stagione sono in programma 14 recite di “Andrea Chénier” di Giordano e ben 19 di “Aida” di Verdi ma solo sei di “A Death in Venice” di Britten per la prima volta a Barcellona.
Veniamo all’“Andrea Chénier” inaugurale. Il nuovo allestimento, in co-produzione con il New National Theatre di Tokyo, ha inaugurato il 25 settembre la stagione del Liceu di Barcelona (dove resterà in scena sino al 17 ottobre). In primavera una co-produzione internazionale sarà alla Scala ed all’Opéra di Parigi. Dal 3 ottobre all’inizio dell’anno prossimo, un terzo nuovo allestimento si può vedere ed ascoltare nei teatri di Livorno, Rovigo, Catanzaro, Trento e Nizza. E’ opera spesso maltrattata dalla critica (specialmente se di sinistra) Il pubblico è attirato ancora dal “dramma storico” in cui una vicenda piuttosto semplice di amore e gelosia (tra un poeta “riformista”, una giovane aristocratica, ed un ex-cameriere diventato capo giacobino) viene giustapposta ad un contesto storico (dall’inizio della rivoluzione francese ai momenti più oscuri del Terrore giacobino) trattato come un grande affresco.
Il maestro concertatore Pinchas Steinberg è, in primo luogo, un sinfonista i cui esiti più lusinghieri sono stati alla guida della Vienna Radio Symphony Orchestra nel 1989-1996, e della Orchestre de la Suisse Romande nel 2002-2005. Ha avuto successi nel melodramma verdiano, nella direzione musicale di lavori di Wagner e Strauss, ma il “verismo” italiano di fine Ottocento non pare in linea con la sua sensibilità; Steinberg si limita ad accompagnare i cantanti, più che a dare un indirizzo musicale allo spettacolo.
Discussa la regia di Philippe Arlaud . A metà strada tra il realistico ed il surreale in un contesto in cui dominano il bianco ed il nero (in varie gradazione), scontenta sia i tradizionalisti sia gli innovatori.
Di grande livello, però, le voci. Il protagonista Fabio Armiliato sfoggia sicurezza nel registro centrale e sale dolcemente negli acuti, nonché mostra un legato esemplare ed una grande ricchezza timbrica. Si è meritato applausi a scena aperta e vere e proprie ovazioni da stadio al termine della rappresentazione.
Daniela Dessì è l’aristocratica e fragile Maddalena con voce aerea, chiara, purissima, ma duttile nella vasta estensione che richiede la parte sino all’elettrizzante finale. Anche lei più volte interrotta da applausi a scena aperta.
Anthony Micheals-Moore scava nella complessità psicologica di Carlo Gérard: servo, figlio di servi, invaghito di Maddalena, capo di una fazione giacobina, tenta di possederla ma, quando si è accorge che è innamorata di Chénier si adopera per salvare la coppia. Ha voce pastosa e brunita con centri mobili e vibranti e acuti facilissimi. Il successo (che è stato enorme) non può imputarsi soltanto ai tre protagonisti ma anche alle figure di contorno, Vittoria Cortez (oltre ad una Contessa di maniera) è una Maddelon dolente e struggente. Ammirabile la Betsi di Marina Rodriguez Cusi, frizzante, brillante e al tempo stesso affezionata a Maddalena. Sinuoso L’Incredibile di Francisco Vas. Misurato l’Abate di Josep Ruiz. Chiarissimo il timbro del Dumas di Manuel Esteve Madrid.
Nel nostro “orientamento quotidiano” abbiamo visto (ad esempio, analizzando i conti e le vicende del Festival di Aix-en-Provence) come non è necessario chiudere i bilanci consuntivi in passivo (e correre da Pantalone in cerca di aiuto) per fare buona lirica.
Di recente, mi sono recato a Barcellona per l’inaugurazione della stagione. Il Teatro nasce come un’impresa puramente privata (una società di palchettisti simile a quelle che allora nascevano in tutta Italia) e tale è rimasta sino all’incendio del 31 gennaio 1994 che distrusse la platea ed il palcoscenico (il 29 gennaio 1996 un incendio analogo avvenne alla Fenice). Le esigenze finanziarie della ricostruzione (il teatro venne riaperto il 7 ottobre 1999, la Fenice il 14 dicembre 2003) costrinsero la Società dei palchettisti a cedere il teatro ad un’associazione di cui fanno parte il Ministero della Cultura, la Catalogna, la Regione, il Comune, oltre ai rappresentati dei vecchi proprietari e di vecchi e nuovi sponsor.
La ricostruzione è stata l’occasione per innovare profondamente il teatro (mantenendo la platea, i palchi, il foyer, la sala degli specchi e la facciata come nell’originale ottocentesco), ma dotandolo di un palcoscenico tecnologico (che consente la messa in scena di più spettacoli nel corso della stessa settimana), di un ristorante sotto la platea (per cene dopo teatro) e soprattutto di un impianto per riprese televisive e DvD – la cessione di diritti televisivi (specialmente in Usa ed Oriente- in Italia si vedono spesso sul canale “Classica”) e la vendita di Dvd sono una fonte importante di proventi, unitamente all’apporto degli sponsor (incoraggiati da incentivi tributari). La biglietteria, comunque, copre il 35% del bilancio (sempre in leggero attivo): cifra che fa impallidire il 5% dei teatri italiani ed il 10% di quelli tedeschi.
La programmazione tiene conto di due considerazioni: la possibilità di co-produzioni (e di tournée) ed il gradimento del pubblico. Ad esempio, questa stagione sono in programma 14 recite di “Andrea Chénier” di Giordano e ben 19 di “Aida” di Verdi ma solo sei di “A Death in Venice” di Britten per la prima volta a Barcellona.
Veniamo all’“Andrea Chénier” inaugurale. Il nuovo allestimento, in co-produzione con il New National Theatre di Tokyo, ha inaugurato il 25 settembre la stagione del Liceu di Barcelona (dove resterà in scena sino al 17 ottobre). In primavera una co-produzione internazionale sarà alla Scala ed all’Opéra di Parigi. Dal 3 ottobre all’inizio dell’anno prossimo, un terzo nuovo allestimento si può vedere ed ascoltare nei teatri di Livorno, Rovigo, Catanzaro, Trento e Nizza. E’ opera spesso maltrattata dalla critica (specialmente se di sinistra) Il pubblico è attirato ancora dal “dramma storico” in cui una vicenda piuttosto semplice di amore e gelosia (tra un poeta “riformista”, una giovane aristocratica, ed un ex-cameriere diventato capo giacobino) viene giustapposta ad un contesto storico (dall’inizio della rivoluzione francese ai momenti più oscuri del Terrore giacobino) trattato come un grande affresco.
Il maestro concertatore Pinchas Steinberg è, in primo luogo, un sinfonista i cui esiti più lusinghieri sono stati alla guida della Vienna Radio Symphony Orchestra nel 1989-1996, e della Orchestre de la Suisse Romande nel 2002-2005. Ha avuto successi nel melodramma verdiano, nella direzione musicale di lavori di Wagner e Strauss, ma il “verismo” italiano di fine Ottocento non pare in linea con la sua sensibilità; Steinberg si limita ad accompagnare i cantanti, più che a dare un indirizzo musicale allo spettacolo.
Discussa la regia di Philippe Arlaud . A metà strada tra il realistico ed il surreale in un contesto in cui dominano il bianco ed il nero (in varie gradazione), scontenta sia i tradizionalisti sia gli innovatori.
Di grande livello, però, le voci. Il protagonista Fabio Armiliato sfoggia sicurezza nel registro centrale e sale dolcemente negli acuti, nonché mostra un legato esemplare ed una grande ricchezza timbrica. Si è meritato applausi a scena aperta e vere e proprie ovazioni da stadio al termine della rappresentazione.
Daniela Dessì è l’aristocratica e fragile Maddalena con voce aerea, chiara, purissima, ma duttile nella vasta estensione che richiede la parte sino all’elettrizzante finale. Anche lei più volte interrotta da applausi a scena aperta.
Anthony Micheals-Moore scava nella complessità psicologica di Carlo Gérard: servo, figlio di servi, invaghito di Maddalena, capo di una fazione giacobina, tenta di possederla ma, quando si è accorge che è innamorata di Chénier si adopera per salvare la coppia. Ha voce pastosa e brunita con centri mobili e vibranti e acuti facilissimi. Il successo (che è stato enorme) non può imputarsi soltanto ai tre protagonisti ma anche alle figure di contorno, Vittoria Cortez (oltre ad una Contessa di maniera) è una Maddelon dolente e struggente. Ammirabile la Betsi di Marina Rodriguez Cusi, frizzante, brillante e al tempo stesso affezionata a Maddalena. Sinuoso L’Incredibile di Francisco Vas. Misurato l’Abate di Josep Ruiz. Chiarissimo il timbro del Dumas di Manuel Esteve Madrid.
LA FINANZIARIA TRA GIOCHI E GIOCHETTI
Il disegno di legge sul bilancio annuale e pluriennale dello Stato ed il complesso di altri provvedimenti chiamati, in gergo giornalistico, “la legge finanziaria”, partoriti dal Consiglio dei Ministri nella notte tra il 28 ed il 29 settembre rappresentano quella che in senso tecnico può essere chiamata “una finanziaria precaria”. L’aggettivo non deve essere inteso in senso negativo o derogatorio. E’ meramente un qualificativo per esprimere in modo più facilmente comprensibile a molti lettori ciò che i cultori della teoria dei giochi chiamano “un equilibrio dinamico”. Vi ricordate John Nash ed il film di cinque ani fa A Beautiful Mind? L’equilibrio dinamico – pare una contraddizione – è costantemente instabile in quanto dipende da come ciascun giocatore risponde ai giochi degli altri (non conoscendone le strategie ma ricavandole dalle loro mosse). Nel caso della finanziaria appena varata l’equilibrio è particolarmente complicato in quanto ciascun giocatore gioca , contemporaneamente , almeno su due tavoli diversi (e con finalità differenti). Un tavolo è quello in cui la partita è con gli altri partner della coalizione; la posta in gioco è “la reputazione”, ossia massimizzare la capacità di incidere sulla politica complessiva di governo. Un altro tavolo è quello con il proprio elettorato dove ciascun giocatore intende massimizzare le propria popolarità rispetto al bacino dei potenziali elettori. E’ un gioco che non un avviene per partite (o passate di mano) secche ma si declina in una sequenza. Ciò comporta che è ogni volta differente (su ambedue i tavoli) e nessuna delle parte in causa ha il vantaggio di apprendere da “giochi ripetuti”, i quali svelano il comportamento degli avversari.
Il gioco è reso ancora più complicato dalle differenze profonde sulla visione degli obiettivi e degli interessi della collettività che hanno gli undici partiti i cui leader siedono al sinedrio dell’Unione. Nonché da una buona dose di superficialità e di approssimazione in cui è stata condotta la preparazione della finanziaria.
In primo luogo, per smussare un elemento di forte tensione, si è, all’ultima ora, rinviata al 12 ottobre (il pretesto è valutare i risultati dei referendum indetti dai sindacati per il 10 ottobre) il nodo più difficile: come incorporare nella normativa il Protocollo sul Welfare del 23 luglio (quello che riguarda l’età minima per le pensioni di anzianità e la regolazione del mercato del lavoro) . Nel sinedrio dell’Unione circolavano due proposte. Secondo una proposta, parte del Protocollo (il superamento dello “scalone” previdenziale, ossia l’età della pensione non prima di 60 anni come previsto dalla riforma Maroni del 2004) nel decreto fiscale – strada di dubbia costituzionalità (come pare abbia fatto sapere il Quirinale ) e tale da poter bloccata alla Commissione Affari Costituzionali del Senato, il primo approdo della finanziaria in sede referente. Un’altra strada propone un collegato da discutersi alla Camera mentre il Senato esamina la finanziaria in senso stretto, è percorso contrario ai regolamenti parlamentari. Dato che non si è trovata soluzione né nella cena offerta da Prodi ai leader dalla coalizione il 26 settembre né al Consiglio dei Ministri del 28 settembre, gli azzeccagarbugli del Palazzo si sono impegnati ad individuare un percorso, ovviamente di “equilibrio dinamico” e precario, entro Columbus Day, il 12 ottobre.
In secondo luogo, le cifre della finanziaria ed il quadro contabile generale destano serie perplessità. La manovra comporta un maggior gettito di 6.050 milioni di euro (di cui 4.500, ossia i due terzi, di gettito “tendenziale”, proveniente, ad aliquote invariate, dal maggiore valore aggiunto per beni e servizi, quindi dalla crescita del pil); tale maggior gettito serve non solo a ridurre indebitamento e debito ma anche a finanziarie 4.620 milioni di una miriade di voci di spesa a favore di questo o quello (destinate probabilmente a dilatarsi durante il dibattito parlamentare a ragione degli appetiti che innescano). Soffermiamoci sulle entrare, nell’ipotesi che i parlamentari siano sobri. La base stessa di qualsiasi politica di bilancio sono le ipotesi in materia di scenario macro economico. Il 28 giugno, il Documento di programmazione economica e finanziaria (Dpef) annunciava una crescita del 2% per il 2007 e ne stimava una dell’1,9% prevista per il 2008. Nonostante le forte tensioni che dall’inizio dell’estate caratterizzano l’economia mondiale, non è stata presentata “la nota di aggiornamento al Dpef” che si sarebbe dovuta pubblicare prima dell’incontro con le parti sociali del 27 settembre. All’incontro del 27 settembre, il Ministro dell’Economia ha parlato di crescita dell’1,8% per l’anno in corso e dell’1,6% per il prossimo. Il 28 settembre, la Relazione previsionale e programmatica, Rpp (un documento di oltre cento pagine) è stata approvata dal Cipe ma non è ancora disponibile : secondo i comunicati ufficiali, prevede una crescita dell’1,5%, avvertendo che si tratta di elaborazioni effettuate in agosto. Il 20 settembre il Centro Studi Confindustria (Csc) ha proposto stime econometriche per il 2007 (una crescita dell’1,7%) unitamente a previsioni per il 2008 che evocano un forte rallentamento dell’economia italiana(1,3%). Occorre tenere conto che il rallentamento stimato dal Csc non incorpora le previsioni più recenti (diramate il 29 settembre a Washington), e più fosche, sull’economia americana (a cui l’andamento economico italiano è molto legato). Un’indagine dell’Economist Intelligence Unit vede un “world’s downturn” (una recessione mondiale). Non molto più incoraggiante il confronto tra le previsioni Isae, Prometeia e Cer organizzato per la mattina del 27 settembre dall’Associazione Economia Reale.
Secondo miei calcoli preliminari c’è un’alta probabilità che nel 2008 l’Italia segni una crescita rasoterra (attorno all’1% od anche inferiore) a ragione non solo del contesto internazionale ma anche della salassata fiscale attuata con la finanziaria 2006 i cui effetti su investimenti e consumi si avvertono di norma con un lasso temporale di 2-3 di anni. Ciò mette a serio repentaglio i 4.500 milioni di euro di gettito “tendenziali” – la fonte principale per il finanziamento delle tante piccole spese aggiuntive.
Il rallentamento giunge accompagnato da una nuova ondata di inflazione . Secondo il Dpef, l’aumento dei prezzi al consumo nel 2008 dovrebbe essere soltanto dell’1,7%. La Rpp lo conferma, senza spiegare come si giunge al tale cifra. Il forte sviluppo dell’Asia e dell’America Latina ha creato una nuova classe di produttori , e di consumatori, con una forte domanda di merci di ogni natura e, quindi, dei prodotti di base. Negli ultimi cinque anni, i prezzi del petrolio sono aumentati del 158%, quelli del frumento del 126%, quelli del nickel addirittura del 415%. Alla Banca centrale europea, Bce, si stima che nel 2008 sarà difficile tenere la crescita dell’inflazione nell’area dell’euro al di sotto del 2% (come prescritto negli Statuti dell’istituto), alla Federal Reserve si ritiene che nell’eurozona l’inflazione viaggerà sul 2,5% l’anno, costringendo la Bce ad una manovra restrittiva.
Ad una lettura superficiale, nella notte del 28-29 settembre il Presidente del Consiglio Romano Prodi (e le componenti della coalizione che intendono dare vita al Partito Democratico,PD) hanno massimizzato i loro obiettivi: una finanziaria leggera, alcuni piccoli sgravi tributari, molto mance a questo ed a quello. Ad una lettura più attenta, è stata una vittoria di Pirro perché il nodo centrale (il Protocollo sullo Stato Sociale è stato rinviato) ed il resto si basa su ipotesi fragili e discutibili.
Con una “finanziaria precaria” all’insegna di un equilibrio dinamico ma fortemente instabile, a chi conviene rompere il gioco e quando? L’interpretazione corrente è che a staccare la spina sarebbero, prima o poi, coloro che nella coalizione vengono considerati centristi e riformisti (l’Udeur di Mastella, i Liberal-Democratici di Dini, i “liberal” diessini e margheritini), stanchi (con i propri bacini elettorali) delle richieste di una posta sempre più esosa da parte degli altri . La teoria dei giochi applicata alla finanziaria 2008 suggerisce un percorso differente: sarà la sinistra radicale a rompere l’equilibrio dinamico quando dal tavolo in cui gioca con i propri elettori comprende che può massimizzare la propria popolarità (portando via una fetta potenziale di votanti al PD). Ciò comporta una scelta accurata dei tempi di cui ora si possono soltanto intravedere i lineamenti: nell’ipotesi di crescita economica piatta o quasi (e quindi di crescenti difficoltà a restare negli obiettivi europei senza nuove manovre di finanza pubblica), verosimilmente la sinistra radicale si preparerà ad andare alle urne. Nella primavera 2008? Possibile, ma più probabile in quella 2009. Non solo per assicurare i vitalizi a molti loro parlamentari provenienti dagli uffici dei partiti ma anche perché le ultime settimane e gli equilibri dinamici della finanziaria precaria hanno mostrato che i giochi su più tavoli per quanto instabili hanno buona capacità di tenuta.
Il gioco è reso ancora più complicato dalle differenze profonde sulla visione degli obiettivi e degli interessi della collettività che hanno gli undici partiti i cui leader siedono al sinedrio dell’Unione. Nonché da una buona dose di superficialità e di approssimazione in cui è stata condotta la preparazione della finanziaria.
In primo luogo, per smussare un elemento di forte tensione, si è, all’ultima ora, rinviata al 12 ottobre (il pretesto è valutare i risultati dei referendum indetti dai sindacati per il 10 ottobre) il nodo più difficile: come incorporare nella normativa il Protocollo sul Welfare del 23 luglio (quello che riguarda l’età minima per le pensioni di anzianità e la regolazione del mercato del lavoro) . Nel sinedrio dell’Unione circolavano due proposte. Secondo una proposta, parte del Protocollo (il superamento dello “scalone” previdenziale, ossia l’età della pensione non prima di 60 anni come previsto dalla riforma Maroni del 2004) nel decreto fiscale – strada di dubbia costituzionalità (come pare abbia fatto sapere il Quirinale ) e tale da poter bloccata alla Commissione Affari Costituzionali del Senato, il primo approdo della finanziaria in sede referente. Un’altra strada propone un collegato da discutersi alla Camera mentre il Senato esamina la finanziaria in senso stretto, è percorso contrario ai regolamenti parlamentari. Dato che non si è trovata soluzione né nella cena offerta da Prodi ai leader dalla coalizione il 26 settembre né al Consiglio dei Ministri del 28 settembre, gli azzeccagarbugli del Palazzo si sono impegnati ad individuare un percorso, ovviamente di “equilibrio dinamico” e precario, entro Columbus Day, il 12 ottobre.
In secondo luogo, le cifre della finanziaria ed il quadro contabile generale destano serie perplessità. La manovra comporta un maggior gettito di 6.050 milioni di euro (di cui 4.500, ossia i due terzi, di gettito “tendenziale”, proveniente, ad aliquote invariate, dal maggiore valore aggiunto per beni e servizi, quindi dalla crescita del pil); tale maggior gettito serve non solo a ridurre indebitamento e debito ma anche a finanziarie 4.620 milioni di una miriade di voci di spesa a favore di questo o quello (destinate probabilmente a dilatarsi durante il dibattito parlamentare a ragione degli appetiti che innescano). Soffermiamoci sulle entrare, nell’ipotesi che i parlamentari siano sobri. La base stessa di qualsiasi politica di bilancio sono le ipotesi in materia di scenario macro economico. Il 28 giugno, il Documento di programmazione economica e finanziaria (Dpef) annunciava una crescita del 2% per il 2007 e ne stimava una dell’1,9% prevista per il 2008. Nonostante le forte tensioni che dall’inizio dell’estate caratterizzano l’economia mondiale, non è stata presentata “la nota di aggiornamento al Dpef” che si sarebbe dovuta pubblicare prima dell’incontro con le parti sociali del 27 settembre. All’incontro del 27 settembre, il Ministro dell’Economia ha parlato di crescita dell’1,8% per l’anno in corso e dell’1,6% per il prossimo. Il 28 settembre, la Relazione previsionale e programmatica, Rpp (un documento di oltre cento pagine) è stata approvata dal Cipe ma non è ancora disponibile : secondo i comunicati ufficiali, prevede una crescita dell’1,5%, avvertendo che si tratta di elaborazioni effettuate in agosto. Il 20 settembre il Centro Studi Confindustria (Csc) ha proposto stime econometriche per il 2007 (una crescita dell’1,7%) unitamente a previsioni per il 2008 che evocano un forte rallentamento dell’economia italiana(1,3%). Occorre tenere conto che il rallentamento stimato dal Csc non incorpora le previsioni più recenti (diramate il 29 settembre a Washington), e più fosche, sull’economia americana (a cui l’andamento economico italiano è molto legato). Un’indagine dell’Economist Intelligence Unit vede un “world’s downturn” (una recessione mondiale). Non molto più incoraggiante il confronto tra le previsioni Isae, Prometeia e Cer organizzato per la mattina del 27 settembre dall’Associazione Economia Reale.
Secondo miei calcoli preliminari c’è un’alta probabilità che nel 2008 l’Italia segni una crescita rasoterra (attorno all’1% od anche inferiore) a ragione non solo del contesto internazionale ma anche della salassata fiscale attuata con la finanziaria 2006 i cui effetti su investimenti e consumi si avvertono di norma con un lasso temporale di 2-3 di anni. Ciò mette a serio repentaglio i 4.500 milioni di euro di gettito “tendenziali” – la fonte principale per il finanziamento delle tante piccole spese aggiuntive.
Il rallentamento giunge accompagnato da una nuova ondata di inflazione . Secondo il Dpef, l’aumento dei prezzi al consumo nel 2008 dovrebbe essere soltanto dell’1,7%. La Rpp lo conferma, senza spiegare come si giunge al tale cifra. Il forte sviluppo dell’Asia e dell’America Latina ha creato una nuova classe di produttori , e di consumatori, con una forte domanda di merci di ogni natura e, quindi, dei prodotti di base. Negli ultimi cinque anni, i prezzi del petrolio sono aumentati del 158%, quelli del frumento del 126%, quelli del nickel addirittura del 415%. Alla Banca centrale europea, Bce, si stima che nel 2008 sarà difficile tenere la crescita dell’inflazione nell’area dell’euro al di sotto del 2% (come prescritto negli Statuti dell’istituto), alla Federal Reserve si ritiene che nell’eurozona l’inflazione viaggerà sul 2,5% l’anno, costringendo la Bce ad una manovra restrittiva.
Ad una lettura superficiale, nella notte del 28-29 settembre il Presidente del Consiglio Romano Prodi (e le componenti della coalizione che intendono dare vita al Partito Democratico,PD) hanno massimizzato i loro obiettivi: una finanziaria leggera, alcuni piccoli sgravi tributari, molto mance a questo ed a quello. Ad una lettura più attenta, è stata una vittoria di Pirro perché il nodo centrale (il Protocollo sullo Stato Sociale è stato rinviato) ed il resto si basa su ipotesi fragili e discutibili.
Con una “finanziaria precaria” all’insegna di un equilibrio dinamico ma fortemente instabile, a chi conviene rompere il gioco e quando? L’interpretazione corrente è che a staccare la spina sarebbero, prima o poi, coloro che nella coalizione vengono considerati centristi e riformisti (l’Udeur di Mastella, i Liberal-Democratici di Dini, i “liberal” diessini e margheritini), stanchi (con i propri bacini elettorali) delle richieste di una posta sempre più esosa da parte degli altri . La teoria dei giochi applicata alla finanziaria 2008 suggerisce un percorso differente: sarà la sinistra radicale a rompere l’equilibrio dinamico quando dal tavolo in cui gioca con i propri elettori comprende che può massimizzare la propria popolarità (portando via una fetta potenziale di votanti al PD). Ciò comporta una scelta accurata dei tempi di cui ora si possono soltanto intravedere i lineamenti: nell’ipotesi di crescita economica piatta o quasi (e quindi di crescenti difficoltà a restare negli obiettivi europei senza nuove manovre di finanza pubblica), verosimilmente la sinistra radicale si preparerà ad andare alle urne. Nella primavera 2008? Possibile, ma più probabile in quella 2009. Non solo per assicurare i vitalizi a molti loro parlamentari provenienti dagli uffici dei partiti ma anche perché le ultime settimane e gli equilibri dinamici della finanziaria precaria hanno mostrato che i giochi su più tavoli per quanto instabili hanno buona capacità di tenuta.
NON BASTA UN CASELLO PER LA RETE INFRASTRUTTURALE
Il Tempo ha inaugurato la sua nuova versione grafica con una buona notizia: sono in arrivo i finanziamenti per la metro C e per sbloccare il casello dell’A24. E’ un primo importante passo, pur se Roma (e l’Italia) restano ancora indietro in materia di infrastrutture locali . Il 26 settembre, alla vigilia dell’approvazione della finanziaria, la Fondazione Formiche ha presentato, in un convegno nella capitale, un quadro impietoso del ritardo dell’Italia in materia di infrastrutture logistiche, anche a ragione di contraddizioni nella riforma del Titolo V della Costituzione varata frettolosamente nel 2000 dalla sinistra nell’illusione di poter così vincere le elezioni. Formiche e ItalianiEuropei (quindi due fondazioni riformiste, di centrodestra l’una e di centrosinistra l’altra) hanno lanciato un appello bipartisan per correggere il Titolo V della Costituzione.
Confusione ed incertezze si sono accavallate negli ultimi anni. Ad un seminario di studi organizzato il 3 ottobre dal Gruppo Internazionale Dexia-Crediop, un’analisi dell’Università di Roma La Sapieza ha messo in rilievo come le privatizzazioni (che avrebbero dovuto avere un impulso con l’art.35 della legge finanziaria 2002) furono “formali” e non “sostanziali”. Ove ciò non bastasse ci è mossi in modo discordante in materia di trasporto pubblico locale (decreto Burlando), gas (decreto Letta), energia elettrica (decreto Bersani) e acque (legge Galli).
Su questo quadro frammentato si innescano le due versioni del ddl Lanzilotta; le seconda (mantenendo il doppio binario della gara e delle fornitura di servizi pubblici attraverso aziende speciali) non riduce l’incertezza né sugli obiettivi dei servizi pubblici locali (trasporti ed energia in prima fila) né sugli strumenti per offrirli ai cittadini nelle condizioni migliori. Le ristrettezze finanziarie – il periodico Public Fiuance ha dedicato il numero di settembre alla situazione degli enti territoriali italiani (Regioni, Comuni, Province) nel 2001-2006- si inseriscono in questo contesto istituzionale. Possono soltanto aggravare la situazione.
Come dipanare la matassa? Il Dipartimento di Economia della Sapienza propone quella che definisce “una scelta radicale”:“una gestione pubblica separata dalla fornitura del servizio, almeno sino al momento in cui non sarà risolto il nodo degli assetti gestionali” al fine di “contribuire a fare chiarezza nei processi produttivi e a livellare il campo di gioco tra i concorrenti”. Più che “radicale” è una soluzione di buon senso per Roma ed altre grandi città, specialmente in una fase come l’attuale (lo si è già visto in questa rubrica) in cui c’è una spinta imprenditoriale in campi (telecomunicazioni, energia, autostrade) con prospettive di profitto, più che in altri, come il trasporto e l’ambiente locale, dove i benefici vanno quasi interamente alla collettività.
Confusione ed incertezze si sono accavallate negli ultimi anni. Ad un seminario di studi organizzato il 3 ottobre dal Gruppo Internazionale Dexia-Crediop, un’analisi dell’Università di Roma La Sapieza ha messo in rilievo come le privatizzazioni (che avrebbero dovuto avere un impulso con l’art.35 della legge finanziaria 2002) furono “formali” e non “sostanziali”. Ove ciò non bastasse ci è mossi in modo discordante in materia di trasporto pubblico locale (decreto Burlando), gas (decreto Letta), energia elettrica (decreto Bersani) e acque (legge Galli).
Su questo quadro frammentato si innescano le due versioni del ddl Lanzilotta; le seconda (mantenendo il doppio binario della gara e delle fornitura di servizi pubblici attraverso aziende speciali) non riduce l’incertezza né sugli obiettivi dei servizi pubblici locali (trasporti ed energia in prima fila) né sugli strumenti per offrirli ai cittadini nelle condizioni migliori. Le ristrettezze finanziarie – il periodico Public Fiuance ha dedicato il numero di settembre alla situazione degli enti territoriali italiani (Regioni, Comuni, Province) nel 2001-2006- si inseriscono in questo contesto istituzionale. Possono soltanto aggravare la situazione.
Come dipanare la matassa? Il Dipartimento di Economia della Sapienza propone quella che definisce “una scelta radicale”:“una gestione pubblica separata dalla fornitura del servizio, almeno sino al momento in cui non sarà risolto il nodo degli assetti gestionali” al fine di “contribuire a fare chiarezza nei processi produttivi e a livellare il campo di gioco tra i concorrenti”. Più che “radicale” è una soluzione di buon senso per Roma ed altre grandi città, specialmente in una fase come l’attuale (lo si è già visto in questa rubrica) in cui c’è una spinta imprenditoriale in campi (telecomunicazioni, energia, autostrade) con prospettive di profitto, più che in altri, come il trasporto e l’ambiente locale, dove i benefici vanno quasi interamente alla collettività.
venerdì 5 ottobre 2007
LA BCE NON TOCCA IL COSTO DEL DENARO
Il Consiglio Direttivo della Banca Centrale Europea (Bce), riunito a Vienna, ed il Comitato Monetario della Bank of England (Boe), in sessione a Londra, hanno deciso di non decidere: all’uno ed all’altro veniva tirata la giacca da chi voleva una leggera riduzione dei tassi e da chi insisteva per un piccolo aumento. Pilatescamente si sono: lavati la mani e mantenuto i tassi dove stanno, aspettando di saperne in materia di di tensioni sui mercati e di focolai inflazionistici.
Mentre le prime hanno ricevuto molta attenzione (a ragione della crisi dei prodotti strutturati con mutui inesigibili), poco si parla del mutamento strutturale in corso: se le tendenze degli ultimi 20 anni continueranno nel 2040 il pil della Cina sarà pari a tre volte la produzione mondiale di beni e servizi del 2000. Ogni anno 35 milioni di cinesi raggiungono un livello di vita analogo a quello degli europei. Ciò esercita forte pressioni sui prezzi. L’indice delle materie prime dell’Economist è cresciuto, negli ultimi 12 mesi, del 26%; quello dei prodotti alimentari del 45%. Negli ultimi cinque anni, in dollari Usa, i prezzi del petrolio sono aumentati del 158%, quelli del frumento del 126%, quelli del nickel addirittura del 415%. Ciò influisce sui prezzi all’ingrosso ed al consumo.
Al tempo stesso, è in atto un marcato rallentamento della crescita Usa (alcuni parlano di una recessione nel primo semestre del 2008) che si riverbera su quella europea. Mentre il timore dell’inflazione dovrebbe indurre la Bce a riprendere la strada del rialzo graduale dei tassi ( per l’obbligo statutario di tenere l’inflazione al di sotto del 2% l’anno), il rallentamento della crescita spingerebbe ad una politica monetaria più accomodante. E’soltanto in ossequio alla “freccia del tempo” (termine che nel lessico economico vuole dire aspettare per avere maggiori e migliori informazioni) che Jean-Claude Trichet (Presidente Bce) e Mervyn King (Governatore Boe) hanno tenuto immutati i tassi?
Agli elementi di “attendismo tecnico” occorre aggiungere determinanti politiche. King non controlla il Comitato Monetario Beo tanto quanto Trichet pilota il Consiglio Bce. Due dei 9 componenti sono di pura nomina politica; costoro ed altri non hanno gradito la gaffe fatta da King alcune settimane fa (dure critiche pubbliche alla Bce per gli interventi sul mercato, seguite da passi analoghi della Boe a pochi giorni di distanza).
Trichet; non gradisce affatto gli attacchi del Presidente francese Sarkozy alla Bce ed ha stretto un’alleanza di ferro con il Presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, in nome dell’autonomia delle banche centrali. Accanto a sempre più serrata collaborazione, una gentilezza all’americano (ed ai suoi emissari a Francoforte): la Fed non fa mistero che vorrebbe un ulteriore avvicinamento tra tassi europei e Usa (anche per incidere sui cambi) e la Bce in prima fila nel riassetto dei mercati finanziari e della lotta all’inflazione. Una cortesia non si nega se è anche un dispetto a Sarko.
Mentre le prime hanno ricevuto molta attenzione (a ragione della crisi dei prodotti strutturati con mutui inesigibili), poco si parla del mutamento strutturale in corso: se le tendenze degli ultimi 20 anni continueranno nel 2040 il pil della Cina sarà pari a tre volte la produzione mondiale di beni e servizi del 2000. Ogni anno 35 milioni di cinesi raggiungono un livello di vita analogo a quello degli europei. Ciò esercita forte pressioni sui prezzi. L’indice delle materie prime dell’Economist è cresciuto, negli ultimi 12 mesi, del 26%; quello dei prodotti alimentari del 45%. Negli ultimi cinque anni, in dollari Usa, i prezzi del petrolio sono aumentati del 158%, quelli del frumento del 126%, quelli del nickel addirittura del 415%. Ciò influisce sui prezzi all’ingrosso ed al consumo.
Al tempo stesso, è in atto un marcato rallentamento della crescita Usa (alcuni parlano di una recessione nel primo semestre del 2008) che si riverbera su quella europea. Mentre il timore dell’inflazione dovrebbe indurre la Bce a riprendere la strada del rialzo graduale dei tassi ( per l’obbligo statutario di tenere l’inflazione al di sotto del 2% l’anno), il rallentamento della crescita spingerebbe ad una politica monetaria più accomodante. E’soltanto in ossequio alla “freccia del tempo” (termine che nel lessico economico vuole dire aspettare per avere maggiori e migliori informazioni) che Jean-Claude Trichet (Presidente Bce) e Mervyn King (Governatore Boe) hanno tenuto immutati i tassi?
Agli elementi di “attendismo tecnico” occorre aggiungere determinanti politiche. King non controlla il Comitato Monetario Beo tanto quanto Trichet pilota il Consiglio Bce. Due dei 9 componenti sono di pura nomina politica; costoro ed altri non hanno gradito la gaffe fatta da King alcune settimane fa (dure critiche pubbliche alla Bce per gli interventi sul mercato, seguite da passi analoghi della Boe a pochi giorni di distanza).
Trichet; non gradisce affatto gli attacchi del Presidente francese Sarkozy alla Bce ed ha stretto un’alleanza di ferro con il Presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, in nome dell’autonomia delle banche centrali. Accanto a sempre più serrata collaborazione, una gentilezza all’americano (ed ai suoi emissari a Francoforte): la Fed non fa mistero che vorrebbe un ulteriore avvicinamento tra tassi europei e Usa (anche per incidere sui cambi) e la Bce in prima fila nel riassetto dei mercati finanziari e della lotta all’inflazione. Una cortesia non si nega se è anche un dispetto a Sarko.
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