“Peter Grimes” sbarca a Bologna
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16 maggio 2017
Peter Grimes, tratto da una novella inglese del tardo Settecento, con un libretto di Montagu Slater, è “British” dall’inizio alla fine, nonostante rappresenti una rivoluzione che nel 1945 ha inciso profondamente sul teatro in musica della seconda metà del Novecento. La vicenda è nota. Nel 1830 o giù di lì, in un piccolo gretto e pettegolo, borgo marinaro, il pescatore Peter Grimes è un “diverso” (Britten, ricordiamolo, era omosessuale, religioso osservante e obiettore di coscienza durante la seconda guerra mondiale). Il suo mozzo muore in mare. Viene assolto dall’accusa di averlo ucciso, ma nel villaggio lo si considera pervertito e sadico. Soltanto la maestra (una vedova) gli dà fiducia e il pescatore spera di avere un futuro con lei. Avviene, però, un secondo incidente: un altro mozzo muore in circostanze difficili da spiegare. A Peter non resta che mettersi sulla propria barca e partire per sempre. Suicidandosi in mare. Mentre nel borgo torna la calma perbenista. Questa scarna vicenda di solitudine e incomprensione è arricchita non solo da un testo stringato ed efficace ma da una partitura ricchissima: sei “interludi marini” separano le varie scene e la vocalità alterna declamato con ariosi di grande lirismo, nonché concertati di spessore (sia a quattro voci femminili sia di tutta la compagnia). Benjamin Britten dedicò gran parte della propria vita e del proprio lavoro ad individuare nuove forme di teatro in musica per il Novecento, ed i secoli successivi, nella convinzione che la forme ottocentesche e della prima metà del ventesimo secolo, non fossero più ‘sostenibili’ in epoca di accresciuta concorrenza di altre forme di spettacolo (cinema, televisione) e di aumento dei costi reali per maestranze tecniche e artistiche.
Peter Grimes impose Britten all’attenzione mondiale. Nel 1945 “Grimes” era rivolto al futuro: sviscerava temi nuovi (solitudine, ambiguità sessuale) con soluzioni musicali nuove proprio perché eclettiche ed in cui per la prima volta dai tempi di Purcell (ossia dal Seicento) sfruttava tutta la musicalità della lingua inglese. C’è senza dubbio una ricerca volta a snellire l’organico ma lo si sfoltisce soltanto rispetto a quello tradizionale dell’opera lirica. In “Grimes” non c’è happy ending: il protagonista (innocente dei crimini di cui è accusato) viene indotto al suicidio in mare mentre il borgo torna tranquillo (ora che il “diverso” non c’è più) alle sue occupazioni di sempre. Non manca , però, un velo di pietà cristiana nei confronti del “diverso”.
Nell’edizione originale, l’opera ha un organico orchestrale contenuto e non richiede che un piccolo coro ed una quindicina di solisti, in gran misura in ruoli secondari per dare vita al cicaleccio del borgo marinaro del Suffolk, incapace (tranne la maestra di scuola Ellen) di comprendere il dramma dell’esclusione sociale progressiva del protagonista. Ebbe - come si è detto - la “prima” al Sadler’s Wells poiché ritenuto più simile a Porgy and Bess di George Gershwin che all’opera in senso stretto ma, dopo l’esecuzione, venne salutata come il segno del riscatto del teatro musicale inglese e, nel giro, di pochi anni rappresentata in tutto il mondo principalmente in lingua originale. Il suo stile musicale eclettico non rifiuta mai la scrittura tonale ed è accattivante anche per chi non ha dimestichezza con le convenzioni della musica del Novecento: pur continuando nella grande tradizione britannica iniziata con Purcell, fa propria (nel teatro in musica) la tecnica di Berg di adottare la forma di un tema su cui costruire ciascuna scena inserendo molteplici variazioni, e intercalando le varie scene con intermezzi indipendenti che servano da elementi di unificazione musicale e drammatica. Altro aspetto fondante è la capacità di ottenere il massimo colore e calore orchestrale con il minimo di organico.
È doveroso dire che nel passare degli anni l’organico e coro sono stati ampliati dallo stesso Britten man mano che il dramma in musica diventava “popolare” in teatri di grandi dimensioni. A riguardo, interessante confrontare la registrazione Decca del 1958 con Britten sul podio e quella Emi del 1992 con Bernard Haitikin, ambedue con i complessi della Royal Opera House al Covent Garden: organico orchestrale e corale sono molto differenti; la registrazione del 1958 ha un’impostazione lirica mentre quella del 1992 ne ha una epica. Ho avuto la fortuna di vederne due edizioni sceniche nell’ultimo decennio: a Firenze nel 2003, con la direzione musicale di Seji Ozawa, la regia di David Kneuss e Philp Langrige nel ruolo del protagonista, e alla Scala, nel giugno 2012, concertata da Robin Ticciati, allestita da Richard Jones e con John-Graham Hall nella parte di Grimes. Due esecuzioni di grandissimo livello. Nella prima, il mare era costantemente presente nell’allestimento scenico (come è d’uopo) mentre nella seconda, il giovane Ticciati estraeva dall’orchestra della Scala sonorità di grandissimo livello, specialmente negli interludi. L’edizione in forma di concerto diretta da da Antonio Pappano all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia a Roma, è, se si vuole, più epica che lirica. In ciò pare quasi costretta dalla mancanza di azione drammatica, di scene, di costumi e dall’affidare unicamente a orchestra e coro (ambedue di vastissime proporzioni) la presenza continua del mare (purtroppo assente dal palcoscenico della Scala nel 2012). Con i solisti sul proscenio, inoltre, Pappano ha accentuato sonorità di coro ed orchestra traendo effetti acustici mirabili (anche se non sempre in linea con la partitura originale di Britten); in breve, un’interpretazione personalissima in cui il protagonista giganteggia rispetto ai borghigiani all’aria di apertura Now the Great Bear and Pleiades al grandioso arioso finale What Harbour Shelters Peace. Tuttavia, in forma di concerto, Peter Grimes non è il ‘nuovo’ dramma in musica quale inteso da Britten ma una grande sinfonia in più parti; specialmente nella prima parte (prologo e primo atto) i solisti sembravano imprigionati nel boccascena, mentre nella seconda (secondo e terzo atto) c’erano segni di mise en éspace (ossia di azione).
A Bologna sarà in scena un’edizione il cui apparato scenico si è visto a Modena alcuni anni fa. Si ringrazia il Teatro Pavarotti di Modena per avere concesso di utilizzare le foto dello spettacolo originale. La regia è di Cesare Lievi, l’orchestra è guidata da Juraj Valcuha. Ian Storey è il protagonista, attorniato da 15 solisti.
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