Le malinconiche conclusioni
dei rapporti Istat e Centro Einaudi sull’Italia
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L'articolo
dell'economista Giuseppe Pennisi
Sono stati
presentati quasi contemporaneamente – uno la mattina del 17, il secondo la sera
delle medesima giornata – due documenti importanti e che meritano riflessioni:
il rapporto annuale Istat e il ventunesimo rapporto del Centro Einaudi
sull’economia globale e l’Italia (curato, come ogni anno, da Mario Deaglio
e dalla sua squadra di ricercatori). Una lettura incrociata è utile per
afferrare dove sta andando (o non andando) il Paese.
Il primo
analizza in un modo nuovo ed originale le tendenze dell’economia italiana. Pone
al centro dell’analisi non la macro-economia ma la famiglia. Individua
nove gruppi di famiglie tramite una pluralità di dimensioni, non solo
economico-finanziarie ma anche culturali e sociali. Non è un procedimento
interamente nuovo; ad esempio, già nel lontano 1944, pur senza la ricchezza
delle statistiche Istat, lo utilizzò il Premio Nobel Gunnar Myrdal nel
volume An American Dilemma che all’epoca suscitò polemiche ma anche
nuove politiche con maggiore attenzione al sociale ed ai diritti civili.
I nove
gruppi del Rapporto evidenziano le differenze economiche e sociali che caratterizzano
le principali categorie delle oltre 25 milioni di famiglie residenti in
Italia.. È una radiografia che fornisce il quadro della situazione di oggi. Se
il metodo verrà applicato, con perseveranza, nei prossimi anni si potranno fare
analisi di statistica comparata dell’evoluzione sociale che spieghino le
dinamiche di questa evoluzione. Un lavoro necessario perché la radiografia
presenta un quadro di forti differenze economiche e sociali tra i gruppi di
famiglie ed indicazioni di scarsa mobilità: i gruppi nei gradini bassi della
piramide sociale non riescono a salire verso quelli più alti. Infatti,
l’ascensore sociale sembra bloccato ai piani bassi: se si nasce e cresce nello
scantinato pare più difficile oggi (più di quanto non lo fosse venti o trenta
anni fa) arrivare all’attico con terrazza.
Il secondo
segue uno schema ormai diventato tradizionale, uno schema che ne facilita la
lettura perché chi si interessa di un tema specifico sa esattamente dove
trovarne la trattazione. Ha un fil rouge: la fine della globalizzazione.
A questo argomento – si ricorderà – è stata dedicata un’analisi sul primo
numero di Formiche del 2017. Il documento ne vede, in 250 pagine, segni
molto più evidenti e fornisce numerosi dettagli, anche sulla base sui primi mesi
della politica commerciale dell’Amministrazione Trump. Il rapporto mostra
vividamente come l’Italia può essere colpita negativamente dalla
deglobalizzazione tramite il rallentamento del proprio export. La “sommessa
conclusione” – come la definisce il documento – è “mesta”. Formiche la
anticipò il 26 dicembre scorso.
In un’Italia
di stagnazione secolare (aggravata dalla deglobalizzazione) è difficile
crescere e rimettere in moto l’ascensione sociale. Ciò annuncia l’aggravarsi di
tensioni nella società e nella politica con conseguenze negative per tutti.
Come
minimizzarle? Difficile pensare di fare inversione di marcia. Sarebbe già un
successo evitare il peggio. A mio avviso, le strade sono tre: innovazione (si
legga il breve ma denso libro di Salvatore Zecchini La Politica
Italiana dell’Innovazione nei quaderni del Centro Studi Impresa Lavoro),
occupazione produttiva e istruzione di qualità.
Ciascuna di
essere merita un approfondimento che faremo nei prossimi giorni.
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