FINANZA E POLITICA/ La grana in più per il Governo che verrà
Non sono arrivate buone notizie economiche per l’Italia, che
rischia anche di avere dinanzi a sé anni non facili. GIUSEPPE PENNISI ci spiega
per quali ragioni
15 maggio 2017 Giuseppe
Pennisi
Due cattive notizie da Bruxelles sulla stampa di venerdì mattina: Eurostat è convinta che nei prossimi 18 mesi-2 anni saremo i fanalini di coda in termini di crescita economica, inferiore a quella della stessa Grecia. Inoltre, l’indice di digitalizzazione dell’economia e della società (Desi) pubblicato dalla Commissione europea afferma in modo perentorio che l’Italia non è ancora un Paese digitale. Il nostro Paese si posiziona in fondo alla classifica: venticinquesima sui ventotto paesi Ue, con un punteggio dello 0,4. L’industria italiana, secondo quanto sottolinea l’esecutivo Ue, potrebbe trarre numerosi vantaggi da un uso più diffuso delle soluzioni eBusiness. Ma mancano le competenze digitali: il 37% dei cittadini italiani, un terzo della popolazione, non usa regolarmente internet e il 63% restante compie poche attività complesse online.
In breve, le speranze dell’inizio della settimana sono diventate amare illusioni e sembrano come un pollice verso dell’Europa nei confronti di chi ha governato l’Italia negli ultimi anni. Il nodo non è solo italiano. È utile leggere sull’ultimo numero di The World Economy (Vol. 40, facicolo 5, pp. 836-848), il bel saggio di Dominick Salvatore “Europe’s Growth Crisis: When and How Will it End?” (“La crisi della crescita europea: quando e come finirà?”). In poche lucide e chiarissime pagine, Salvatore esamina come la ripresa dalla crisi finanziaria della fine del primo decennio di questo secolo è stata più che altre recessioni nei Paesi avanzati. Il problema europeo - sostiene - è strutturale in natura ed è iniziato molto prima della crisi finanziaria. A suo avviso, anche con le politiche economiche appropriate sarà difficile accelerare la crescita nel continente vecchio, specialmente nel contesto della Brexit e del rallentamento (pure a ragione del crescente protezionismo) della crescita mondiale in generale.
L’analisi di Salvatore è rafforzata da uno studio quantitativo del Cesifo (il Working Paper No. 6420) sulle riforme strutturali nell’area Ocse. Ne sono autori Baláz Égert e Peter N. Gal, ambedue del servizio studio dell’organizzazione con sede a Parigi. Il documento descrive un nuovo modello che quantizza l’impatto delle riforme strutturali, aggregando gli effetti delle riforme relative al capitale fisico, all’occupazione e alla produttività tramite una funzione di produzione. In base alle riforme già effettuate, il lavoro conclude che cinque anni dopo l’attuazione delle riforme, quelle relative al mercato dei prodotti e dei servizi - proprio il campo in cui l’Italia è stata più lenta e tardiva - sono le più efficaci, specialmente se combinate con riforme del mercato del lavoro - altro settore in cui l’Italia ha fatto poco o nulla. L’orizzonte è in ogni caso cinque-dieci anni, pessima notizia per il prossimo Governo (quale che ne sia la guida): ci attendono “anni difficili”, in cui gli eventuali esiti positivi si avvertiranno verso il 2025.
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