Dal 1996 troppi errori sulla previdenza
italiana Ma si può correggere
Ancora, una volta la previdenza è uno dei temi più caldi
della Legge di bilancio in preparazione. Si parla di una nuova 'riforma' senza
pensare che nessun Paese e nessun sistema sociale può resistere ad una riforma
della previdenza ogni due anni. Occorre invece, tornare ai principi del
riassetto della previdenza della primavere del 1995 quando Italia e Svezia
introdussero, quasi in parallelo, il computo dei benefici previdenziali non più
sulla base delle ultime retribuzioni (sistema retributivo) ma su quella dei
contributi versati (sistema contributivo). Il sistema retributivo si è diffuso
in una trentina di Paesi. Era chiaro sin dai primi calcoli che gli assegni
sarebbero stati più modesti di quelli e che , quindi, le pensioni di Stato
sarebbero dovute essere accompagnate da altri due pilastri (uno assistenziale,
a carico dell’erario non del sistema previdenziale) ed uno privatistico di
accantonamenti individuali in fondi pensione. Uno sgabello è solido se si regge
su tre gambe.
Dal 1995 ad oggi sono stati molti errori. Il primo un periodo
di transizione, da un meccanismo all’altro, di 18 anni (in parallelo, la Svezia
ne adottava uno di tre anni), innescando varie distorsioni ed iniquità. Il se-
condo la proliferazione di numerosissimi (circa 700 tra quelli di vecchio e
nuovo tipo) piccoli fondi pensione che investono molto in titoli di Stato e
sono poco attraenti, sotto il profilo sia della diversificazione – essenziale
per la solidità – sia dei rendimenti. Tuttavia si possono ancora riparare
tornando allo spirito originario della riforma del 1995 ed ai sistemi
contributivi in vigore in altri Paesi. In primo luogo, occorre separare
nettamente assistenza e previdenza, trovando se possibile un differente canale
contabile ed erogatorio per l’assistenza (tra cui primeggiano assegni sociali,
assegni di invalidità, integrazioni al minino) al fine di non ingenerare
confusione. Senza la spesa per l’assistenza in cui l’Inps è solo un comodo 'ufficiale
pagatore' per conto dello Stato, la spesa previdenziale sarebbe sul 14% del Pil
e non oltre il 18%. In effetti, come ribadiscono gli esperti ed i rapporti di
'Itinerari Previdenziali', mentre le spese previdenziali 'vere' sono in buona
parte coperte da contributi, le spese assistenziali sono largamente 'in rosso'
perché lo Stato non le finanzia correttamente. In secondo logo, sarebbe equo
portare a 5-10 anni (come altrove) il requisito per poter fruire di una
pensione statale 'contributiva'. Venne portato da 15 a 20 anni come misura
emergenziale durante la crisi finanziaria del 1992. Si ridurrebbe il fenomeno
tutto italiano dei milioni di 'silenti' (che hanno versato contributi ma non
per 20 anni e non hanno titolo a previdenza pubblica) una grande iniquità.Varrebbe
poi la pena di eliminare il concetto stesso di 'pensioni di vecchiaia': si
resta al lavoro tanto quanto si può e si vuole. Chi lavora più anni avrà un
trattamento previdenziale più pingue, mentre chi ne lavora meno uno più
modesto.
Giuseppe Pennisi
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