CAOS CATALOGNA/ I rischi
economici dentro e fuori la Spagna
La Catalogna
ha dichiarato l’indipendenza e ora, come la Spagna, rischia conseguenze
negative per l’economia. E per Italia e Ue cosa cambia? GIUSEPPE PENNISI 30
ottobre 2017 Giuseppe Pennisi
Lapresse
Cosa
significa per l’Unione europea e per l’Italia la dichiarazione unilaterale
d’indipendenza della Catalogna? L’aspetto principale non è economico, ma
politico. Lo sottolinea con acume Michael Goldfard, direttore del podcast dedicato
alle analisi storiche Frdh, in un lungo articolo pubblicato sul New York
Times di sabato 28 ottobre. Goldfard si chiede “cosa è una Nazione nel
ventunesimo secolo?”. Il referendum sul futuro della Catalogna è avvenuto poche
settimane dopo quello sulla Regione irachena del Kurdistan. Esiti simili, Erbil
ha dichiarato l’indipendenza e Baghdad ha inviato i carri armati. All’indomani
del referendum in Catalogna, gli indipendentisti corsi hanno indicato la loro
volontà di seguire una strada analoga per separarsi della Francia. Poche
settimane fa, il Veneto e la Lombardia hanno votato per una maggiore autonomia,
specialmente in materia tributaria. Nei cinque anni successivi al crollo del
muro di Berlino, i Lander della Germania orientale sono stati lieti di farsi
acquisire da quelli della Germania occidentale e di diventare sempre più simili
a questi ultimi, la Cecoslovacchia si è pacificamente divisa in due Stati
indipendenti nati da negoziati tra i differenti gruppi, la Jugoslavia, invece,
è diventata sette Stati, dopo una lunga guerra e lo spargimento di molto
sangue.
Terminate le
guerre ideologiche (giunti, direbbe Francis Fukuyama, alla “fine della
storia”), il concetto di Stato-Nazione creato da Francesco Primo di Francia nel
Cinquecento dovrebbe essere rivisto, e con esso quello di federazione e
confederazione. Solamente gli Stati Uniti d’America non hanno ancora questo
problema, perché dalla fine della Guerra di secessione si considerano “una
Nazione indivisibile alla guida del mondo” e sono il melting pot di
varie identità. Il problema ce l’hanno in Africa, dove le frontiere tra i
differenti Stati sono state tracciate da quelle che allora erano le “Grandi
Potenze” coloniali. Lo hanno in Asia dove si stanno risvegliando, un po’
dappertutto, tensioni identitarie e anche tribali.
È questo il
quesito principale da porsi e se lo dovrebbe porre anche e soprattutto l’Unione
europea: se il concetto di “Nazione” si appanna, si appanna ancora di più
quello di entità “sovranazionale” con lo spappolamento dell’edificio costruito
dal Trattato di Roma in poi. Indubbiamente, i metodi possono essere ben
differenti: in modo negoziato come la separazione tra Repubblica Ceca e
Repubblica Slovacchia e come la Brexit (ben analizzata nel volume “Brexit: la
sfida” di Daniele Capezzone e Federico Punzi, uscito in questi giorni) o con
uno strappo (come gli eventi della Catalogna che tutti si augurano non arrivino
alle dimensioni della dissoluzione della Jugoslavia). Tuttavia, se non si
risolve il ruolo del significato di Nazione nell’era dell’integrazione politica
internazionale resta monco un discorso principalmente economico del significato
della possibile scissione (mi auguro negoziata) della Catalogna dal resto della
Spagna.
Barcellona e
la sua regione pesano per il 19% del Pil iberico. Insieme a Lombardia, al
tedesco Baden-Württemberg e alla regione francese della Rhône-Alpes, la
Catalogna è considerata uno dei quattro motori d’Europa. Ossia le regioni più
industrializzate e più dinamiche del continente. Trainano, come locomotive, le
economie dei loro Stati. Ed è questa una delle carte che il governo catalano ha
giocato per giustificare il referendum sull’indipendenza: l’autosufficienza
economica.
Ove non si
giunga a una soluzione negoziata dopo gli avvenimenti di questi ultimi giorni,
quali conseguenze potrà avere la scissione sull’economia iberica? Barcellona è
la capitale industriale della Spagna. Il suo Prodotto interno lordo vale circa
un quinto del totale spagnolo: 223,6 miliardi di euro nel 2016 su un totale di
1.120 miliardi. Il peso dell’export è ancora più incisivo: 65,1 milioni di euro
su 254,5 milioni. In Catalogna, d’altronde, Nissan e Seat hanno insediato le
loro fabbriche di automobili e settemila aziende straniere hanno aperto i loro
uffici locali. E la città della Sagrada Familia è una delle mete turistiche più
frequentate al mondo. A gennaio il ministro del Turismo spagnolo ha dichiarato
che nel 2016 la Catalogna ha accolto 17 milioni di visitatori in una
regione in cui risiedono stabilmente 7,5 milioni di persone. Nella regione di
Barcellona, ad esempio, la disoccupazione è a un tasso del 13,2% (quasi la metà
del resto della Spagna).
La
Generalitat de Catalunya ha, però, un pesante debito, da cui sta uscendo
lentamente e che potrebbe esplodere in caso di uscita dell’Ue e dall’Eurozona.
Per il ministro spagnolo dell’Economia, Luis de Guindos, l’indipendenza
potrebbe costare alla Catalogna un tracollo del Pil dal 25% al 30%. I risultati
del referendum hanno incrementato lo spread tra i titoli di stato spagnoli a
dieci anni, i Bonos, e il parametro di riferimento europeo, i Bund tedeschi. La
distanza è di 119 punti base. Un documento pubblicato da Bloomberg nei giorni
scorsi consiglia gli investitori di disfarsi di titoli spagnoli. Quindi, ci
perdono tutti.
Di fatto,
dal punto di vista economico, perderebbero entrambe. La Catalogna si
ritroverebbe isolata dall’Ue e potrebbe perdere gran parte delle multinazionali.
La Spagna sarebbe privata della sua economia più dinamica, con tutte le
conseguenze sulla competitività internazionale e sulla tenuta dei conti
pubblici. In queste ore le banche spagnole stanno perdendo quota in Borsa. A
mio avviso, l’Ue (e il Governo italiano) non dovrebbero minacciare di non
riconoscere la Catalogna come entità statuale, ma spingere per una soluzione
negoziata come la Brexit e la scissione della Repubblica Cecoslovacca.
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