SALISBURGO/ Opera:
"Wozzeck" tragedia umana
Wozzeck di
Alban Berg completa la tetralogia del potere e dell’eros che costituisce una
parte centrale del Festival Estivo di Salisburgo 2017. di GIUSEPPE PENNISI
27 agosto
2017 Giuseppe Pennisi
Foto di Tobias Schabel
Wozzeck di Alban Berg completa la tetralogia
del potere e dell’eros che costituisce una parte centrale del Festival Estivo
di Salisburgo 2017. Sono passati quasi cento anni dal suo debutto, ma l’opera è
fresca ed innovativa come allora. Riassume il dramma di Buchner del 1830 (25
scene circa tre ore di spettacolo) in 90 minuti in tre atti, ciascuno di cinque
brevi scene ciascuna; si presta, come a Salisburgo, ad una messa in scena senza
intervallo. Ciascuna scena segue una forma musicale specifica Tramite il dramma
del soldato semplice il quale, sfruttato dai superiori (e che si fa sfruttare
per guadagnare qualche soldo di più per arrotondare la sua misera paga), e
tradito dalla moglie con il prestante Tamburo Maggiore della banda della
compagnia, diventa omicida e suicida, Berg presenta un viaggio verso l’abisso
nel contesto di una visione fortemente pessimistica dell’avventura umana.
L’allestimento all’edizione presentata al Festival Estivo di Salisburgo 2017,
coprodotta con il Metropolitan di New York, il Canada Opera di Toronto ed Opera
Australia di Sydney si differenzia profondamente dalle ultime recensite su
questa testata, quelle viste ed ascoltate nell’autunno 2005 al Festival Enescu
di Bucarest ed al Teatro alla Scala di Milano.
In primo
luogo, messi sullo sfondo, e non sul fronte del palcoscenico, tutti gli orpelli
filosofici che pur caratterizzano il dramma, la regia di William Kentridge
(forse la migliore da lui fatta per un teatro d’opera) è incentrata sul dramma
umano del protagonista e dei suoi interlocutori in un ambiente in cui l’umanità
è sempre in guerra.
Il
palcoscenico è dominato da una montagna di piattaforme sempre in bilico,
frammenti di scale di legno, mobili abbandonati (un quadro di povertà). Su
alcuni schemi vengono proiettate scene, di guerra e disegni caricaturali. Si
passa rapidamente da interni ad esterni, dalla casa di Wozzeck, allo studio del
Dottore, all’ufficio del Capitano, alle taverne, al bosco alla struggente
piazza di villaggio i cui gli abitanti apprendono della morte di Marie mentre il
figlio dei due protagonisti continua a giocare sul cavallo a dondolo in ‘mi
minore’, un finale straziante. La regia di Kentridge (il suo consueto team, Luc
de Wit co-regista, Sabine Theunissen scene, Greta Goiris costumi, Catherine
Meyburgh, video) non sarebbe sufficiente al gran rilievo dello spettacolo senza
l’apporto dell’orchestra e dei cantanti. I Wiener Philharmoniker, guidati di
Vladimir Jurowski in grande forma, danno una grande sonorità alla dodecafonia
della seconda scuola di Vienna, rendono emozionante e commovente tutta la
partitura, soprattutto gli interludi. Non eccedono mai nell’enfasi, trattano la
scrittura musicale come un’elegia. Matthias Goerne (Wozzeck) e Asmik Grigorian
(Marie) sono perfetti nei loro ruoli, umanissimi, pacati, senza nessun accenno
a sembrare psicopatici stralunati come avviene in altre produzioni recenti. Il
folto gruppo di personaggi che li attornia appartengono anche essi ad
un’umanità “normale” e per questo ancora più drammatica in un mondo di
pessimismo cosmico in cui (tramite le proiezioni, aerei si distruggono in
cielo, il mondo è solcato da trincee ed ospedali da campo).
Lo
spettatore viene lasciato con un interrogativo: è la Grande Guerra o piuttosto
il mondo di sempre? Ma applaude commosso e di cuore.
Wozzeck - ricordiamo- ha avuto la sua prima
italiana al Teatro dell’Opera di Roma nel novembre 1942: dirigeva Tullio
Serafin, era protagonista l’allora giovanissimo Tito Gobbi. Eravamo in guerra,
alleati con i tedeschi, l’opera era vietata in Germania e in tutti i Paesi
occupati perché ritenuta “degenerata” e proibita di fatto negli Stati Uniti
perché considerata “un oltraggio al pudore” (arrivò al Metropolitan solo nel
1958). La messa in scena dell’opera a Roma nel 1942, nel teatro preferito del
Duce, voleva significare una presa di posizione “eretica”. Era il segno della
grande attenzione che allora (anche a ragione della politica governativa, lo
descrive bene il libro di Stefano Biguzzi L’orchestra del Duce, Utet
2003) riceveva la musica contemporanea. In effetti il capolavoro di Berg era
inserito in una stagione dedicata alla musica allora da considerarsi
contemporanea. Altresì, una era anche una pasquinata (sberleffo) che i romani,
che applaudirono calorosamente, volevano intenzionalmente fare agli alleati
troppo vistosamente presenti in città (mentre in Nord Africa, Montgomery dava
botte da orbi alla volpe del deserto Rommel).
Questa
edizione di Salisburgo, New York, Toronto e Sydney andrebbe ripresa in Italia.
A Roma o altrove.
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