Il debito degli Stati Uniti è
davvero preoccupante?
Il commento
dell'economista Giuseppe Pennisi
Abbiamo esaminato alcune determinanti del
deprezzamento del dollaro, e di un apprezzamento dell’euro che comincia a preoccupare le imprese
europee maggiormente rivolte verso l’export. Ci sono, però, altre determinanti
che potrebbero scatenare, da Washington, una tempesta autunnale.
La
principale è il debito. Esaminando i dati forniti periodicamente dalle
principali fonti ufficiali, il debito “pubblico” degli USA non induce a
preoccupazioni. Tuttavia, questo dato si riferisce unicamente al debito federale.
Perciò il debito pubblico degli USA è paragonabile a quello di un qualsiasi
altro paese solo per quanto riguarda il debito federale, che è di circa 12.000
miliardi di dollari. Questo debito non spaventa più di tanto Washington perché
è relativamente basso rispetto a quello di altri paesi, circa l’85% del Pil. Ma
se al debito pubblico federale si vanno ad aggiungere i debiti del settore
finanziario-business (anticipi di capitale sia per l’industria che per la
speculazione), quello finanziario-sociale (mutui, assicurazioni, ecc.), quello
degli Stati federati e delle famiglie, fenomeno che non ha eguali al mondo, si
raggiunge la bella cifra, cioè 57.000 miliardi di dollari, ossia quattro volte
il Pil. A ciò si accompagna la diminuzione netta della capacità di consumo e di
risparmio (per gli americani una vera e propria maledizione). Inoltre, il
debito federale americano è in gran parte nei confronti del resto del mondo,
quindi il suo andamento dipende in gran misura dalle politiche e dai
“sentimenti” di altri Stati, Paesi e Nazioni. Secondo alcune estime il debito
estero pro-capite raggiunge circa 35.000 dollari.
Nell’ultimo
fascicolo di The Manchester School, Enrique Mendoza della University of
Pennsylvania pubblica un acuto saggio in cui mette in risalto quattro aspetti:
· Il debito
federale è in gran misura il frutto dei disavanzi annuali di bilancio mirati a
stimolare la crescita (come la flessibilità di renziana memoria). Secondo le
stime attuali, tali disavanzi paiono destinati a persistere sino al 2026. Dal
2008, invece, c’è ampia prova che gli stimoli fiscali falliscono se il debito è
troppo elevato; il secondo frena gli effetti attesi dei primi.
· La riforma
tributaria delineata in campagna elettorale dall’attuale Presidente, se
esaminata con modelli dinamici di equilibrio economico general, può non rendere
il debito maggiormente sostenibile ed avere effetti negativi sulla crescita e
sulla distribuzione del reddito.
· L’appetito
del resto del mondo per titoli di stato americani può essere una tendenza
transitoria, destinata a smorzarsi man mano che i mercati finanziari di altri
Paesi diventano più sviluppati e se continua il deprezzamento del dollaro.
· Infine,
un’insolvenza interna (quale una conversione della rendita) può diventare la
soluzione ottimale se il costo delle ridistribuzione regressiva diventa socialmente
troppo elevato. Ma la reazione del resto del mondo potrebbe essere fortissima;
i detentori dei titoli Usa correrebbero all’incasso.
Queste
determinanti pur se in gran misura solo interne americane possono scatenare una
tempesta come quella del 2008.
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